Mentre chiacchieravano, l’ingegnere aveva avuto un lungo colloquio collo stregone della tribù e con Kalutunak, che era il solo che conoscesse l’inglese, avendo suo padre ospitato l’uomo bianco che era giunto dalle regioni settentrionali diciassette anni prima.
Quel colloquio doveva aver avuto buoni risultati, poiché poco dopo lo stregone aveva portato all’ingegnere una carabina di fabbrica inglese adorna d’una targhetta d’argento su cui stava scritto: Fitz-James, cioè il nome del comandante dell’Erefcus, una delle due navi della spedizione di Franklin; un cronometro, ma già guasto, su cui si scorgevano un N e un R, iniziale degli oggetti appartenenti alla Regia marina britannica; un vecchio orologio d’argento, una bibbia che doveva aver appartenuto al luogotenente Gore, poiché si leggeva questo nome sulla legatura di cartapecora ed una scure. Mancavano però i giornali di bordo, essendo stata adoperata la carta per dare fuoco al fucile quando le capsule erano state consumate.
Quegli oggetti, ormai non vi era alcun dubbio, avevano appartenuto agli equipaggi della disgraziata spedizione e provavano chiaramente come l’ultimo superstite fosse riuscito a raggiungere le coste del continente americano, ponendo così fine alle infinite supposizioni fatte in Inghilterra ed in America, intorno alla sorte toccata agli ultimi marinai delle due navi. Essendogli però stato riconfermato anche dallo stregone, che alcune miglia più al nord, su di una spiaggia deserta, erano stati rinvenuti dei cadaveri e trovati molti oggetti, l’ingegnere che si era proposto di chiarire l’ultima fase di quel dramma che aveva commosso le nazioni dei due mondi, decise di recarvisi, promettendo alla piccola tribù dei coltelli ed alcune bottiglie d’acquavite.
La promessa era troppo attraente per non far risolvere l’angekok ed i suoi sudditi ad accettare, ed essendo il ghiaccio favorevole, fu stabilito di recarsi a quella costa nelle slitte. Quattro di quei leggeri veicoli costruiti con ossa di balena e con corregge di pelle di foca, furono tolti da una capanna di ghiaccio, che serviva di magazzino alla piccola tribù, ed a ciascuna furono attaccati dieci cani disposti su una sola fronte, ma con un guinzaglio lungo ben venti piedi per mantenerli lontani dai pattini.
I quattro europei vi presero posto, accompagnati dall’angekok, da Kalutunak e da due giovani esquimesi armati di fruste dal manico corto, e colla correggia lunga ventiquattro piedi, di pelle di foca non conciata, più larga all’estremità anteriore che posteriore e terminante in un pezzo di nervo indurito, istrumento terribile nelle mani di quei cocchieri, poiché con un solo colpo sono capaci di strappare un pezzo di pelle al cane disobbediente. Ad un fischio dei conduttori, i cani partirono di galoppo mettendo dei latrati lamentevoli, e procedendo disordinatamente da principio, tirando ognuno dal suo verso ed a suo capriccio, ma ai primi scoppiettìi delle lunghe fruste, che dovevano ben conoscere quanto erano pericolose pei loro dorsi, presero un’andatura regolare e così rapida, da poter percorrere dieci chilometri all’ora.
Questi animali, così necessari pei popoli perduti ai confini del mondo abitabile, e senza i quali non potrebbero forse vivere, sono di statura piuttosto alta toccando comunemente i sessanta centimetri. Hanno gli orecchi diritti, il pelo fitto e lanoso, la coda villosa e penzolante, gli occhi obliqui ed astuti come quelli dei lupi, animali cui somigliano sotto molti aspetti.
Si sono molto vantati questi cani, ma si è molto detto e scritto erroneamente e sono ben lungi dal somigliare ai nostri. Rendono preziosissimi servigi, è vero, poiché sono capaci di trascinare in dieci una slitta carica di quattrocento chilogrammi, percorrendo perfino sessanta ed anche ottanta chilometri al giorno, ed aiutano efficacemente i loro padroni nella caccia, ma non sono affatto affé-zionati e non obbediscono che per paura della frusta.
Sono ladri, scaltri, cattivi quando possono esserlo senza tema di correzioni e diventano facilmente selvatici. Cercano tutti i modi per rovesciare le slitte che trascinano o di condurle in mezzo agli ostacoli, per sbarazzarsi dei loro padroni e se non temessero la frusta, sarebbero capaci di strozzarli, né più né meno come farebbero i lupi.
L’ingegnere ed i suoi compagni fecero ben presto l’esperienza della pessima educazione di quei cani.
Malgrado le grida dei conduttori e gli scoppiettìi minacciosi delle fruste, si azzuffavano sovente fra di loro imbrogliando la lunga correggia ed obbligando gli uomini a discendere per isbarazzarli, o cercavano di trascinare le slitte sull’orlo dei crepacci o si ponevano ad inseguire le volpi o le mustele che vedevano apparire, essendo questi cani valenti cacciatori, più per loro conto che pei loro padroni.
Fortunatamente vi era Kamo, il quale abituato a mantenere in ordine i cani del Kamsciatka, che sono peggiori di quelli esquimesi, con brontolìi minacciosi, accompagnati da qualche sapiente colpo di zampa ben applicato, costringeva i trottatori a riprendere la via diritta. Dopo un’ora di corsa più o meno disordinata, ma pur rapidissima, le quattro slitte giungevano su di una spiaggia che formava una piccola baia assai profonda, ingombra in gran parte di ghiacci e difesa da rupi tagliate a picco.
Su una piccola pianura, ancora coperta di neve, l’ingegnere notò subito una croce semiatterrata, costruita con due rozze tavole strappate a qualche battello e piantata sopra un tumulo di vaste proporzioni.
– Riposano là, i compagni dell’uomo bianco? – chiese a Kalutunak.
– Sì – rispose l’esquimese.
– Da chi sono stati sepolti?
– Dall’uomo bianco aiutato da mio padre.
– Quanti erano?…
– Non lo so, poiché non trovarono che degli avanzi di scheletri. Gli orsi bianchi avevano banchettato colle carni di quegli uomini.
L’ingegnere ed i suoi compagni scesero dalle slitte e s’appressarono al tumulo scoprendosi il capo. Intorno a quella tomba, seminascosti dallo strato di neve di già in parte sciolta dal sole, si scorgevano gli avanzi d’una slitta, la poppa semifracassata d’una piccola baleniera, dei cocci di vetro nero e degli stracci.
I due cacciatori ed Orloff, dietro ordine dell’ingegnere, scavarono la neve intorno alla tomba sperando che sotto vi fossero degli oggetti appartenenti a quelle vittime dei viaggi polari, senza però alcun frutto. Forse l’ultimo superstite di quell’ecatombe o gli esquimesi, avevano portato via ogni cosa.
Forse scavando più innanzi e mettendo allo scoperto gli avanzi di quei disgraziati, avrebbero potuto trovare qualche oggetto, ma l’ingegnere non l’osò. D’altronde ormai, sapeva abbastanza intorno alla fine miseranda di quella spedizione, ed un oggetto di più non avrebbe di certo servito a fare maggior luce sulle ultime e dolorose vicende degli equipaggi dell’Erebus e del Terror.
– Ritorniamo – disse. – Questo luogo è troppo triste.
Risalirono nelle slitte e tornarono al campo esquimese, dove il signor Nikirka ebbe un ultimo colloquio con l’angekok e con Kalutunak; poi verso sera i quattro europei tornarono al battello portando con loro il fucile, il cronometro, la scure e la bibbia appartenenti alla spedizione di Franklin.
– Corna di narvalo – disse Sandoè, quando si trovò solo con Mac-Doil. – Vedremo cosa scaturirà da tutte queste gite e da questi colloqui. Che il nostro viaggio sia finito, MacDoil?
– Non saprei cosa dirti, per centomila balene! – esclamò l’ebridano. – Pare che l’ingegnere avesse un grande desiderio di sapere che cosa era accaduto degli equipaggi dell’Erebus e del Terror, ma ora che lo sa, dove vorrà andare?…
– Che vada a cercare qualche altra nave naufragata o degli altri morti?…
– Al diavolo!… Che viaggio funebre!…- O che si risolva a tornarsene in Europa per portare in Inghilterra le reliquie della spedizione?…
– Sarebbe una bella occasione per tornarmene alle Ebridi coi miei diecimila dollari.
– Ed io alle FarÒer.
– Amico Sandoè, mi pare di vedermi nella taverna di papà Craig a bere un buon bicchiere di gin.
– Ed io di ritrovare una certa brava figliuola che mi faceva gli occhietti dolci,
la figlia di Lùf-doè il più ricco pescatore delle isole. Diamine! Quando quel ruvidaccio
mi vedrà con un sacchetto pieno di dollari fiammanti, non mi dirà più di no.
– Andiamo a dormire e sognare le nostre isole.
I due cacciatori salirono nelle loro amache e s’addormentarono, cullandosi e sognando l’uno la taverna di papà Craig e l’altro la bionda figlia di Lùfdoè.
Quando però all’indomani si svegliarono, furono vivamente sorpresi nell’udire un concerto indemoniato di latrati ai quali si mescevano le grida di Kalutunak.
– Corna di narvalo!… – esclamò Sandoè’. – Dei cani e l’esquimese a bordo!… Cosa vuol dir ciò?…
– Sangue di tricheco!… – gridò l’ebridano. – Temo mio caro, che papà Craig non mi riveda così presto come sperava e che la tua fanciulla ti aspetti un bel po’ ancora.
– Ma il battello cammina.
– Sì, per centomila orsi bianchi!…
– Andiamo a vedere dove si va.
Si slanciarono nella sala e vedendo scendere la luce dal boccaporto, salirono sulla piattaforma sulla quale videro Orloff che stava fumando flemmaticamente una sigaretta.
Il Taimyr navigava colla velocità di una torpediniera ed aveva ormai percorsa tanta via che non si scorgeva più alcuna costa in nessuna direzione.
– Signor Orloff- chiese Mac-Doil, che pareva scombussolato. – Dove andiamo noi?… Non vedo più la costa abitata dagli esquimesi.
– Gli esquimesi sono già molto lontani – rispose il secondo. – Sono sei ore che corriamo.
– Dove andiamo?…
– Verso il nord per ora.
– Diavolo!… – esclamò l’ebridano, grattandosi il capo e guardando Sandoé il quale pareva avvilito. – E si andrà molto lontano?
– È probabile.
– A cercare qualche altra nave?
– Non credo.
– Degli altri morti?…
– Credo che l’ingegnere ne abbia avuto abbastanza di quelli dell’Erebus e del Terror.
– Ma… cosa fa Kalutunak a bordo?… Mi pare di aver udita la sua voce.
– L’ingegnere ha voluto imbarcarlo. Chissà!… Un esquimese può essere utile in queste regioni.
– Un esquimese sia pure… ma dei cani!… C’era Kamo per cacciare.
– Possono essere utili anche i cani esquimesi.
Mac-Doil non insistette e credette miglior partito di mettersi a fischiare un’arietta del suo paese, forse per consolarsi di quel brutto capitombolo delle sue speranze.
Fece due o tre giri sulla piattaforma, poi prese Sandoé a braccetto e lo condusse verso la scala, dicendogli con aria rassegnata:
– Considerato che papa Craig non potrà darmi da bere, andiamo a trovare il cuoco, amico
Sandoé. Anche quello ha del gin eccellente, te lo assicuro.
L’Europa è andata a picco; andiamo adunque al nord con questi diavoli d’uomini.
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