Il Taimyr scendeva lentamente, trascinato nei baratri dell’oceano dall’acqua che irrompeva liberamente nei serbatoi e spintovi dalle due eliche, mantenendosi leggermente inclinato verso poppa.
La luce scemava gradatamente nel salotto e l’acqua del mare a poco a poco diventava d’un azzurro più cupo, intersecata però da strisce più o meno chiare che parevano prodotte o dal riflesso di masse di ghiaccio o dal rifrangersi dei raggi solari attraverso gli ice-bergs galleggianti alla superficie.
Qualche grosso pesce appariva, ma confusamente e tosto si dileguava, prima che i due cacciatori potessero indovinare a quale specie appartenesse, ben presto anche quei pochi abitanti di quel gelido mare scomparvero, come se temessero i profondi abissi marini.
Il Taimyr continuava ad immergersi, mantenendo sempre la sua inclinazione verso poppa, mentre le due eliche funzionavano con maggior velocità per vincere la resistenza dell’acqua, la quale ormai tendeva a sollevare quel colossale cilindro semivuoto e ripieno d’aria.
L’ingegnere, cogli occhi fissi sul dinamometro contava, a voce bassa, le centinaia di metri che il battello varcava:
– Duecento, trecento, quattrocento…
– Diavolo!… – borbottò Mac-Doil, udendo quel quattrocento. – Dove andiamo a finire noi?… L’immersione del Taimyr diventava sempre più lenta, faticosa non ostante il furioso girare delle due eliche, i cui cupi ronzìi si udivano perfino nel salotto.
Le macchine dovevano funzionare febbrilmente, poiché i colpi di stantuffo facevano perfino tremare le tramezzate del battello.
Il Taimyr doveva già sopportare una pressione notevole, non certo però quella enorme che si supponeva un tempo per simile profondità.
La luce intanto scemava sempre, ci si vedeva nondimeno ancora tanto da distinguere perfettamente qualunque oggetto che si fosse trovato dinanzi alle lenti. A cinquecento metri però era così debole che pareva una luce crepuscolare.
Di certo, a quella considerevole profondità, la luce solare doveva essere quasi interamente assorbita dall’enorme strato d’acqua, pure quella specie di crepuscolo non pareva che dovesse spegnersi così presto.
Ad un tratto Mac-Doil, che guardava, con una certa ansietà, ed anche con una viva curiosità attraverso la grande lente di cristallo, si volse verso l’ingegnere, dicendogli:
Guardate!…
Attraverso a quella debole luce si vedevano sorgere dalle misteriose profondità dell’Oceano Artico, come degli immensi serpenti stranamente dentellati, di colore oscuro, perfettamente rigidi dapprima come se fossero di metallo, ma che tutto d’un tratto si misero a contorcersi ed a curvarsi come se passasse sopra di loro una rapida ed impetuosa corrente d’aria.
– Sono vivi! – esclamò Sandoé, che pareva un po’ spaventato.
– Sono le eliche che agitano gli strati d’acqua – rispose l’ingegnere sorridendo.
– Ma che cosa sono?…
Alghe.
– Così immense ed a simile profondità?…
– Vi ho detto che nei mari polari l’acqua del fondo è meno fredda che alla superficie e permette quindi che la vegetazione qui si sviluppi più sotto che sopra.
– Quelle alghe devono essere lunghissime – disse MacDoil.
– Non mi sorprenderei che toccassero gli ottocento od anche i mille piedi – rispose l’ingegnere.
Poi volgendosi verso Orloff, continuò:
– Non vi sembra che queste alghe siano simili a quelle che formano il kelp dei mari australi.
– Sì – rispose il secondo. – E mi sorprende che anche in questi mari non formino quelle fitte praterie galleggianti che circondano il continente Polare Australe.
– La spiegazione è facile, signor Orloff. Qui vi è maggior profondità e queste alghe non possono raggiungere mille metri di lunghezza; sono però le istesse.
Non imbarazzeranno le nostre eliche?…
– Sono così poco fitte che non possono nuocere alle pale e poi mi sembrano più fragili. Orloff aveva ragione. Quelle alghe smisurate non crescevano così unite come le macrocystis pyrifere che si estendono attorno al continente Polare Australe, formando quelle immense praterie galleggianti che i marinai inglesi chiamano kelp; dovevano però, come aveva notato l’ingegnere, appartenere alla stessa specie, poiché erano egualmente fornite di piccole vescichette e verso la cima di ramificazioni in forma di lamine dentellate. Il Taimyr che s’immergeva in mezzo a loro, le spostava violentemente e le faceva ondeggiare in tutti i sensi, come se fossero animate e talune venivano recise dalle pale delle eliche ed allora si vedevano innalzarsi rapidamente verso la lontana superficie del mare, trasportate dalle loro vescichette galleggianti.
A seicento metri di profondità il battello s’arrestò un istante, come se non riuscisse a vincere la resistenza dell’acqua e provò alcune oscillazioni, ma poi riprese la discesa mentre le eliche turbinavano vertiginosamente rovesciando dinanzi ai vetri delle lenti dei fiotti di spuma che avevano talora degli strani bagliori. Ad un tratto le alghe scomparvero bruscamente ed a tribordo del battello apparve confusamente una massa oscura che pareva scendesse a picco nelle profondità dell’oceano.
Era una costa la quale pareva che si estendesse in direzione dell’isola del Re Guglielmo e che formasse il margine di qualche profonda vallata sottomarina, entro cui stava per scendere il Taimyr. Orloff l’additò all’ingegnere, il quale si limitò ad abbassare due volte il capo.
La muraglia rocciosa, che probabilmente serviva di base all’isola del Re Guglielmo, fra quella luce crepuscolare non era ben visibile, però di quando in quando i due cacciatori, Orloff e l’ingegnere potevano distinguere delle grandi fenditure, delle punte aguzze e delle sporgenze che apparivano tappezzate da certe specie di spugne e da vegetali corti che non parevano alghe. Probabilmente era quella specie di lino molle e vischioso che fu riportato a galla dalle draghe di molte navi e che venne pescato nelle immense pianure sottomarine dell’Atlantico e del Pacifico a delle profondità di quattro o cinquemila metri, smentendo completamente la vecchia asserzione che a cinquecento metri sotto le onde la vita vegetale doveva essere nulla o quasi.
In mezzo a quei vegetali che s’aggrovigliavano confusamente, talora si vedevano apparire dei bagliori misteriosi. Ora erano sprazzi di luce verdastra, che tosto si spegnevano per apparire altrove; ora punti luminosi azzurrognoli che si muovevano rapidamente; ora come nembi di scintille che parevano prodotti da gruppi di nottilughe fosforescenti.
Quali misteriosi abitanti del fondo marino s’agitavano sotto quelle strane praterie, situate a sei o settecento metri di profondità?…
Mac-Doil e Sandoé, cogli occhi appoggiati al cristallo della lente, guardavano senza parlare, ma i loro volti tradivano una viva emozione. Parevano sorpresi, ed anche inquieti,
quasi atterriti di scendere in fondo a quei baratri e di sentirsi accumulare sopra le loro teste centinaia e centinaia di metri d’acqua.
Intanto il Taimyr continuava ad inabissarsi nel cupo vallone, seguendo la grande muraglia, la cui base si perdeva fra le acque che diventavano sempre più oscure. Pareva che scendesse nel regno delle tenebre eterne, in un mondo nuovo e pauroso.
– Mille metri – disse ad un tratto l’ingegnere, rompendo il silenzio che regnava nel salotto. L’ebridano e Sandoè si scossero, ripetendo con una intonazione di paura:
– Mille metri!…
Poi Mac-Doil, staccandosi quasi a forza dal vetro, disse, rivolgendosi verso l’ingegnere:
– Ma fin dove scendiamo noi, signore?
Nikirka non rispose: pareva che porgesse attento orecchio alle precipitose pulsazioni della macchina, le quali echeggiavano sempre più forti, facendo vibrare stranamente la corazza d’acciaio del fuso gigante.
– Signore – ripetè l’ebridano, con voce alterata. – Se poi non si potesse più risalire?… L’ingegnere guardò questa volta Mac-Doil per qualche istante, poi chiese:
– Avreste forse paura?…
– No, ma… – rispose l’ebridano.
– Il mio battello è sicuro e mi sorprende che voi, che affrontate così coraggiosamente gli orsi bianchi, siate impressionato.
– Lo confesso, signore e…
– Il fondo – disse in quel momento Orloff.
Mac-Doil udendo quelle parole si era precipitato nuovamente verso il vetro, dimenticando le proprie apprensioni.
Una distesa immensa, oscura, indefinita, essendo la luce quasi nulla, pareva che volasse incontro al battello salendo dalle viscere della terra e tutta punteggiata di scintille variopinte. Pareva che invece di essere sceso nel fondo del mare, il Taimyr fosse per immergersi in mezzo ad un enorme nuvolone color della pece, ma attraverso il quale si scorgessero scintillare gli astri.
Da che cosa provenivano quelle luci?… Da quali esseri perduti in fondo a quel
tetro vallone sottomarino, in mezzo ad una continua oscurità, venivano proiettate?… Quali pesci sconosciuti, quali crostacei, quali mostri dalle forme forse mai create dalla fantasia umana, vivevano, e si moltiplicavano laggiù?…
Il battello scendeva, scendeva, immergendosi sempre fra quelle acque tenebrose, da nessun raggio di sole mai illuminate e che forse nessun occhio umano aveva prima d’allora scrutate, ma anche le luci crescevano, si moltiplicavano.
Ora erano semplici punti luminosi, ora guizzi, ora lampi ed ora come ondate che parevano prodotte da getti di metallo fuso.
Mac-Doil e Sandoé, l’ingegnere ed Orloff, cogli occhi quasi incollati al cristallo, guardavano senza quasi fiatare.
I primi campioni di quel mondo sottomarino cominciavano ad apparire attorno al battello, innalzandosi dal fondo.
Quali strane e paurose creature si contorcevano dinanzi al cristallo! La luce elettrica, che era stata bruscamente accesa nel salotto e che faceva scintillare le due grandi lenti, permetteva di distinguerli perfettamente.
Erano pesci che somigliavano alle anguille, lunghi mezzo metro, di colore oscuro-lucido, cogli organi della locomozione quasi rudimentali e con delle bocche larghissime ed informi e somiglianti ai macrurus;1 erano pesci cilindrici, col capo adorno di una serie di tentacoli e somiglianti alle olutarie, e che avevano gli occhi fosforescenti; erano lunghi serpenti di mare, o somiglianti a questi, sottili come nastri, che s’intrecciavano fra di loro e che sferzavano le
lenti colle loro esili code o pesci di forma piatta, formati di una materia trasparente come i leptocephalus o certe strane meduse in forma di globi luminosi e che avevano dei tentacoli lunghissimi e piumati.
Il fondo era vicino ed altri strani esseri apparivano entro quel cupo vallone,
nota: 1. Un pesce di questo genere è stato pescato nel 1882 dall’equipaggio del TravaMeur, nell’Atlantico orientale, alla profondità di 2300 metri.
ma quale spettacolo di luci variopinte!… Ecco le splendide brisinghe, queste stelle gigantesche, mollemente coricate su quel fondo tappezzato d’una vegetazione non ancora conosciuta e dai cui corpi sgorgavano sprazzi di luce sanguigna, o violacea, o gialla o azzurrina come se le loro punte fossero coperte delle più belle e più luccicanti gemme della terra; ecco le alte isidi che scintillano e che si lasciano ondeggiare fra quelle acque profonde, illuminando bande di crostacei dalle forme barocche che strisciano sul fondo; ecco file lunghissime di anellidi che s’alzano fra ammassi di materie sconosciute, forse da avanzi di antiche madrepore della prima età, mostrando le loro branchie penniformi simili a nastri scintillanti come smeraldi, come ametiste o come granate; più sotto gli spongiari dalle forme svariate ed eleganti che aprono e chiudono le loro immense corolle fulgide, e molluschi che si trascinano spargendo all’intorno luci azzurre o rosso-pallide, come zaffiri o rubini viventi e miriadi di larve di crostacei dagli occhi fosforescenti.
Ad un tratto quell’oscurità quasi completa, rotta solo dall’intrecciarsi di luci variopinte, ma che si mantenevano solo sul fondo senza diradare le cupe tinte delle acque sovrastanti, sparisce ed un immenso sprazzo di luce intensa, bianca, si diffonde e sembra correre dinanzi al battello, illuminando come in pieno giorno quel vallone sottomarino.
Il Taimyr ha preso il suo slancio: le eliche di poppa si sono messe in movimento ed il gigantesco fuso scivola fra quelle acque profonde, mantenuto laggiù dalle eliche laterali, mentre la sua potente lampada elettrica della gabbia di poppa lancia i suoi fasci luminosi. Gli abitanti sottomarini, abbagliati da quella luce che scorre sul fondo del vallone, forse spaventati, non avendo mai veduto un raggio luminoso scendere laggiù, in quel regno delle tenebre, si agitano burrascosamente e fuggono in tutte le direzioni. Balzano in alto, si contorcono, poi scompariscono in mezzo alla vegetazione sottomarina, cercando un rifugio sotto le sabbie e la melma.
Ora sono enormi granchi somiglianti ai ragni di mare che balzano sulle loro lunghe e sottili zampe; ora sono tribù di serpenti di mare dai corpi cilindrici e dalla pelle bruno-nera o giallo-biancastra, che s’alzano e che poi si lasciano cadere come se fossero colpiti da una scarica elettrica; ora sono pesci strani, mal conformati ed incapaci di spingersi fino alla superficie del mare, che si mostrano un istante e che poi fuggono, o dei mostri forniti di numerose gambe e di robuste branche, o dei cefalopodi orridi che agitano pazzamente i loro tentacoli armati di ventose.
Il battello, sfolgorante di luce, s’avanza sempre sul fondo marino mostrando agli stupiti cacciatori nuove meraviglie, nuovi esseri, nuove sorprese. Talora passa sopra piccole pianure sulle quali strisciano migliaia di crostacei di tutte le forme, che assomigliano ora alle squille, ora alle caridine, ora ai palemonidi; ora rasenta i margini d’un abisso dove si scorgono incrostate lunghe file di grandi conchiglie che hanno riflessi di madrcperla o i colori dell’iride e che sembrano appartenere alla specie delle haliotes giganti, che sono così numerose nei mari settentrionali della Cina e del Giappone; o scende in certi avvallamenti dalle pareti tagliate a picco e dove, illuminati dalla luce elettrica, appariscono gigantesche tridacne che hanno un metro di diametro e che mostrano i loro bordi semiaperti pallidi azzurri; o rosse gorgonie le cui fronde reticolate si allargano come ventagli o centinaia di chatodontidae somiglianti a quelle che si trovano sotto i climi temperati e di forme strane e scintillanti di tinte rosee, verdi, gialle a strisce svariate, o certe specie di grosse actinie in forma di masse cilindriche irte di tentacoli conici e che rassomigliano a grandi fiori azzurri; ed ora il Taimyr sfonda coll’acuto sperone ammassi di meduse che galleggiano liberamente o che si tengono afferrate sulle cime di certi bizzarri spongiari, o lacera dei banchi fitti di crostacei diafani.
Di tratto in tratto, sono invece avanzi di altri pesci che appariscono su quei fondi dell’Oceano Artico. Ora il fascio di luce mostra degli scheletri di trichechi brulicanti di crostacei che si disputano l’ultimo brano di carne, o di foche, o di narvali i quali sembrano tendere ancora minacciosamente il lungo corno di avorio.
Anche lo scheletro di un’enorme balena appare, incastrato fra due rocce. Le costole gigantesche, le mascelle immense ma ormai spoglie di carne e le possenti pinne sono coperte d’incrostazioni, di larve di crostacei, di granchi armati di robuste pinze, di serpenti di mare e di conchiglie.
Chissà da quanto tempo riposa là sotto quel gigante dei mari; forse da parecchi lustri, forse da secoli; ma ben altri ne passeranno prima che le enormi ossa possano venire distrutte dai sali marini o polverizzate dalle branche di quegli abitanti del fondo marino.
Ma anche quella montagna di ossa scompare ed il battello, che prosegue la sua marcia senza arrestarsi, collo sperone sfonda un kayak esquimese galleggiante fra due acque. Il leggero canotto di pelle si spezza a metà ed i due cacciatori scorgono, con un brivido, sfuggire dall’interno uno scheletro umano. Chi sarà quel povero abitante del paese del gelo che la gran voragine liquida ha inghiottito?…
La misera spoglia volteggia un istante fra le acque e va a coricarsi sul fondo dove viene subito coperta da una miriade di affamati granchi.
Ma ecco che qualche cosa di nero si delinea all’estremità del gran fascio di luce, sul margine d’un abisso e che assume proporzioni colossali.
L’ingegnere ed Orloff si scambiano un lungo sguardo, mentre Sandoè e l’ebridano si staccano dal vetro, facendo istintivamente un passo indietro.
Quella massa aveva delle forme troppo note a tutti quattro per potersi ingannare.
– Una delle loro navi, forse – mormorò l’ingegnere.
– Forse – rispose Orloff.
– Lo sa il timoniere? Sì.
– Voglio vederla.
– Il Taimyr virerà di bordo.
– Siamo?…
– A ventiquattro miglia dalla costa, se i miei calcoli sono esatti.
Il battello rallentava la marcia e virava lentamente, in modo da far cadere il fascio di luce su quella massa.
I quattro uomini si erano addossati alla lente di tribordo e la guardavano attentamente, mentre i loro volti tradivano una viva emozione.
– Una nave? – chiese finalmente Mac-Doil, con voce soffocata.
Né l’ingegnere, né Orloff risposero: guardavano sempre e pareva che tutta la loro attenzione fosse concentrata su di un punto solo di quella grande massa.
In pochi slanci il Tamvyr giunse vicino. Sì, quella massa nera era la carena d’una nave di dimensioni ragguardevoli, semicoricata sul tribordo, ma priva d’alberi e di manovre. Aveva entrambi i fianchi fracassati come se avesse sopportata una violenta, irresistibile pressione lungo le costole, e dalle squarciature erano scivolate fuori casse e barili che si erano ammonticchiati disordinatamente le une sopra gli altri. A poppa di quel legno, sospeso ad un’asta, si vedeva pendere uno straccio rossastro, l’avanzo d’una bandiera.
IL Taimyr continuava a virare di bordo, descrivendo un grande cerchio intorno
alla nave naufragata e proiettando su di essa il fascio luminoso della lampada elettrica. Ad un tratto, mentre passava dinanzi alla poppa di quella nave, l’ingegnere afferrò
Orloff per un braccio e gli additò delle lettere che si scorgevano sotto il quadro, dicendogli con voce commossa:
Guardate!…
– Terrore – lesse Orloff.
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