Gli Esquimesi

Il Taimyr continuava a scendere verso il sud con una velocità di diciotto nodi, puntando a quanto pareva, verso la penisola di Adelaide che fa parte della costa settentrionale dell’America, e che si stende fra lo stretto di Vittoria e la grande penisola di Boothia. Pareva che l’ingegnere avesse molta fretta di scorgere la costa americana, poiché il battello si scagliava con impeto irresistibile contro i ghiacci che sbarravano il passo, senza deviare d’una sola linea.

Quella massa d’acciaio agiva come un ariete di potenza incalcolabile e sfracellava gli streams, i palks, gli hummoks ed assaliva perfino i banchi aprendosi un passaggio con speronate formidabili.

Dove lo guidava Orloff, che aveva ripreso il suo posto nella gabbia di prora?…

Mac-Doil e Sandoé se lo chiedevano, senza poter indovinare la nuova rotta del battello, poiché anche l’ingegnere era ridiventato silenzioso.

Il 28 maggio il Taimyr avvistava le coste settentrionali della penisola di Adelaide, ma invece di continuare la sua corsa verso terra, deviò verso l’est come se avesse l’intenzione di dirigersi verso la baia di Elliot che si trova sulla penisola di Boothia.

La sera istessa però cambiava nuovamente rotta e piegava verso il sud inoltrandosi in quel profondo golfo che formasi presso la foce della Riviera del Gran Pesce e l’indomani si arrestava presso una costa deserta; sulla quale, arenati fra i ghiacci, si scorgevano alcuni di quei piccoli canotti di pelle, colle costole formate di ossa di balena, usati dalle tribù esquimesi per la caccia delle foche e delle morse o per la pesca dei narvali.

L’ingegnere ed Orloff erano saliti sulla piattaforma ed i due cacciatori, curiosi di sapere cosa stava per accadere, si erano affrettati a raggiungerli.

– Devono essere morti in questi dintorni – disse Nikirka ad Orloff, dopo d’aver osservato attentamente quelle spiagge che erano ancora coperte di nevi e di ghiacci.

– Lo credete? – chiese il secondo.

– Sarei certo di non ingannarmi.

– Sperate di trovare le loro tracce?…

– Sarà difficile essendo trascorsi ormai così tanti anni, ma degli oggetti che appartenevano a quei disgraziati, spero di trovarne ancora nelle mani degli esquimesi.

Ah! Quale fortuna se potessi ricuperare i giornali di bordo almeno.

– Mi sembra però che la costa sia deserta.

– Se vi sono quei kayaks, – disse l’ingegnere additando i canotti, – ciò significa che i loro proprietari non devono essere lontani.

– È probabile; sbarchiamo?… Sì.

– Andate a prendere i vostri fucili – disse Orloff ai due cacciatori. – Ci accompagnerete. Poco dopo i quattro uomini seguiti dal molosso sbarcavano su di un banco di ghiaccio, dirigendosi verso la costa la quale sorgeva ad un chilometro di distanza e s’innalzava per un centinaio di metri.

Sulla neve rammollita dal sole, si scorgevano parecchie orme umane lasciate probabilmente dai proprietari dei canotti e che parevano recentissime.

Pochi uccelli svolazzavano in aria o saltellavano in mezzo alla neve. Vi erano dei gabbiani, alcuni borgomastri (larus glaucus) e pigolavano alcuni piccoli plectrophanes nivales, graziosi uccelli delle nevi ed i piccolissimi auk che gli esquimesi prendono con certe reti simili a quelle che noi adoperiamo per impadronirci delle farfalle.

Parevano invece abbastanza numerosi i piccoli animali, poiché di tratto in tratto si scorgevano delle martore dette di Charsa, lunghe sessanta centimetri e con una ricca coda

di oltre quaranta, col pelame d’una bellissima tinta giallo-brillante e che sono così audaci da assalire perfino i cani; o delle mustele, bellissimi animaletti che raggiungono una lunghezza di quarantacinque centimetri e che hanno il pelame bruno, la testa bianca-grigiastra ed il petto macchiato di giallo e che si paga, perfino ottanta lire.

Il molosso appena le scorgeva si slanciava sulle loro tracce, giungendo sempre tardi, poiché s’affrettavano a cacciarsi nelle loro profonde tane.

Superata la costa però, il molosso si trovò improvvisamente dinanzi ad una superba lince polare, che pareva fosse allora uscita da un gruppo di larici.

Prima che i due cacciatori potessero mettere mano ai fucili il cane l’aveva già strangolata, malgrado i colpi d’artiglio di quell’abitante delle regioni nevose.

Queste linci polari sono le più grosse di tutte, essendo alte più di mezzo metro e lunghe uno, senza calcolare la coda che misura quindici o venti centimetri.

La loro pelle è bellissima, grigio-argentea, con poche macchie sul dorso e sui fianchi ed il loro muso somiglia un po’ a quello dei giovani leoni avendo anche attorno al capo una piccola criniera grigia. Bizzarri poi sono i loro orecchi adorni sulle punte di due pennacchi biancastri e diritti.

Su tutte le coste settentrionali dell’America, questi animali sono accanitamente cacciati, pagandosi la loro pelle da quattro a sei dollari ed essendo la loro carne tutt’altro che cattiva. Si calcola che in media ben quarantamila ne vengano uccise annualmente.

Mentre Mac-Doil s’affrettava a caricarsi di quella selvaggina, contando di regalarla

al cuoco di bordo perché ne ricavasse un buon arrosto, l’ingegnere era salito su di una rupe coperta di ghiaccio, dalla cui cima si poteva dominare un vasto tratto di terreno.

– Del fumo! – esclamò.

– Lontano? – chiese Orloff.

– A meno d’un chilometro. Lo vedo alzarsi dietro una curva della costa.

– Ed io vedo un uomo che si avanza verso di noi – disse Sandoé. – Lo si direbbe un piccolo orso bianco, però deve essere un esquimese.

– Buono – disse Orloff. – Ci risparmierà forse una gita inutile.

Tutti gli sguardi si erano fissati verso il luogo che il cacciatore indicava. Un uomo, che fino allora doveva essersi tenuto nascosto dietro a qualche ripiegatura dello strato di neve, s’avvicinava con una certa prudenza.

Era un individuo di statura bassa, inferiore alla media, assai grosso, forse però in causa del vestito di pelle d’orso che lo copriva e di altre pellicce che doveva aver sotto. Un grande cappuccio che pareva formato di pelle di cane gli copriva la testa ed in mano teneva un arpione, la cui punta pareva formata da un pezzo di corno di narvalo assai acuminato. L’ingegnere gli mosse risolutamente incontro tendendo ambe le braccia in segno

di pace e si arrestò a dieci passi da lui.

Quell’esquimese pareva giovane assai, forse non toccava i trent’anni. Aveva il volto largo e gli zigomi assai sporgenti come tutti quelli della sua razza, la fronte stretta e bassa, il naso piatto, gli occhi un po’ inclinati come i mongoli, vivi ed intelligenti, i capelli lunghi, ruvidi e neri e la pelle quasi olivastra ed imbrattata di grasso. Egli guardò per alcuni istanti con curiosità l’ingegnere ed i suoi tre compagni, poi disse:

– Nalegah amai

Invece di rispondere a quelle parole che significavano «capo, salute» l’ingegnere lo interpellò in inglese, chiedendogli chi fosse e dove risiedesse la sua tribù.

Con sua viva sorpresa l’esquimese gli rispose nell’eguale lingua, ed abbastanza comprendibile, quantunque infiorata di vocaboli che dovevano appartenere alla lingua natìa e fors’anche a quella danese.

– Io mi chiamo Kalutunak, – rispose, – la mia tribù risiede dietro a quelle montagne

di ghiaccio che sorgono sulla spiaggia, ove vedi alzarsi quelle colonne di fumo. E tu, da dove vieni?…

– Dai lontani mari dell’occidente.

– Con una di quelle grandi case galleggianti forse?…

– Sì, ma che somiglia ad una balena.

– Io vorrei vederla. Sono molti anni che non ne compariscono su queste coste, come sono moltissimi anni che non vedo uomini dalla pelle bianca.

Poi guardando la lince polare che Mac-Doil teneva in ispalla, riprese:

– Me la regali?… Kalutunak non ha più vitello marino nella sua capanna e le foche non sono ancora giunte su queste spiagge.

– Kalutunak porterà alla sua capanna la lince polare e se la mangerà, se mi dirà da chi ha imparato la lingua degli uomini bianchi.

– L’ho appresa da un uomo venuto dai mari del nord molti anni or sono e che mio padre aveva raccolto, morente di fame, sulle nostre coste.

– Quando? – chiese l’ingegnere, con emozione. L’esquimese si guardò le dita come se contasse, poi disse:

– Sono trascorsi tredici inverni.

Orloff e l’ingegnere si scambiarono un lungo sguardo, poi quest’ultimo riprese:

– Era solo quell’uomo?…

– Sì, perché tutti i suoi compagni erano morti di fame e di stenti.

– E dove erano morti?…

– Su una costa deserta, lontana da qui un’ora di slitta.

– È ancora vivo quell’uomo bianco?…

– No, è morto anche lui poco tempo dopo.

– Ha lasciato degli oggetti alla tua tribù?…

– Sì, degli istrumenti che noi non conosciamo e che l’angekok conserva ancora.

– Potresti condurmi sulla spiaggia dove sono morti i compagni dell’uomo bianco?

– Sì, se lo vorrai.

– Se mi conduci ti regalo un fucile.

Gli sguardi dell’esquimese mandarono un lampo.

– E m’insegnerai ad adoperarlo? – chiese. Sì.

– E mi darai della polvere?…

– Te ne darò.

– Così ne avremo due.

– Perché due?…

– Perché mio padre possedeva quello dell’uomo bianco, ma la polvere manca e non tuona più.

– Conducimi alla tua tribù.

– Seguimi.

I quattro europei e l’esquimese si misero in marcia, seguendo la costa la quale era interrotta da alte rupi rivestite ancora del loro manto invernale, ma però lasciavano vedere, alle loro basi, dei tratti sgombri, avendo già il sole cominciato a sciogliere le nevi ed i ghiacci.

In quei piccoli spazi scoperti si erano affrettate a spuntare timidamente le prime pianticelle primaverili. Si scorgevano già dei piccoli ranuncoli, delle sassifraghe,, le graziose lychinis dalla corolla purpurea che sfidano anche le nevi ed i piccoli montìes dai bianchi petali. In certi crepacci, riparati dai freddi venti del settentrione, si vedevano anche dei papaverini dai petali dorati e qualche gruppetto di quei salici piccini piccini, alti appena otto o dieci centimetri.

Mezz’ora dopo gli europei giungevano al campo esquimese, il quale era situato in fondo ad una specie di fiord, riparato da altissime rupi tagliate a picco. Si componeva di una mezza dozzina di capanne di ghiaccio, di forma circolare, munite di piccole finestre e d’una galleria bassa e stretta, appena sufficiente a lasciar passare un uomo trascinandosi carponi, e che serviva d’entrata, mentre impediva la dispersione del calore interno.

La piccola tribù, composta di otto uomini, di cinque o sei donne, di alcuni ragazzi

e d’un numeroso branco di cani, avvisata da Kalutunak s’affrettò ad accorrere incontro agli europei con a capo Vangekok, personaggio importante che riassume le funzioni di medico, di stregone, di consigliere generale e sovente di capo, quando le tribù sono poco numerose. Tutti quegli uomini erano di statura piccola, tarchiati, e robusti; indossavano casacche di pelle di volpe o di foca, calzoni di pelle d’orso bianco; quelli delle donne però erano fatti con una certa eleganza, bianchi e tinti qua e là a sfumature rosse ed uniti strettamente con nervi d’animali. L’angekok, che come distintivo della sua alta carica portava una collana di pezzetti d’ossa di balena, invitò cortesemente gli europei ad entrare nella sua capanna.

Quantunque l’ingegnere avrebbe preferito rimanere fuori, sapendo già come si trovano male gli europei in quelle puzzolenti capanne, si vide costretto ad accettare l’invito. S’introdussero tutt’e cinque in uno stretto corridoio e strisciando un dietro l’altro come i serpenti, giunsero nella dimora dello stregone, non senza molti sternuti e molti brontolìi da parte di Mac-Doil, poiché quella galleria era piena di fumo acre ed impregnato d’un nauseante odore di pesce rancido.

La capanna era piccola assai, non misurando la volta più di quindici piedi per sei d’altezza e lurida come un porcile.

In mezzo, sospesa alla vòlta, pendeva una strana lampada o kotluk formata d’un pezzo di pietra scavata, dalla quale alzavasi una fiamma fumosa che riscaldava un ramino dove di certo bolliva qualche pezzo di foca; intorno alle pareti vi erano delle pelli che formavano il così detto kobpsut e che dovevano servire di letto, poi certi sacchi di pelle contenenti forse dei pezzi di foca o di tricheco arrostiti e conservati nel grasso di balena, poi dei grossi pezzi di sangue gelato, un piatto delizioso per gli esquimesi, quindi arpioni, coltelli, corna di narvalo, ed in tutti gli angoli ossami d’ogni specie e pelli di pesci che esalavano un odore insopportabile di carne corrotta.

– Al diavolo lo stregone e la sua capanna – disse Mac-Doil, arrestandosi all’estremità del corridoio. – Sandoè, amico mio, andiamocene o soffocheremo in questo buco.

– Non chiedo di meglio – disse il cacciatore. – Preferisco gelare all’aperto.

Anche l’ingegnere ed Orloff non si trovavano troppo bene in mezzo a quei profumi diabolici ed a quel fumo fetente che mandava la lampada, ed adducendo il motivo che non potevano sopportare il caldo, s’affrettarono a sloggiare, lasciando lo stregone un po’ umiliato per quella ritirata precipitosa.

– Che ti venga il crampo – gridò Mac-Doil precipitandosi fuori dalla galleria e respirando a pieni polmoni l’aria fredda sì, ma pura. – Io non so come facciano a vivere in quelle tane da orsi. Cosa ne dite, signor Orloff.

– Vi sono abituati, MacDoil.

– Ma non hanno naso adunque gli esquimesi?…

– Anzi l’hanno migliore del nostro, ma si trovano bene nelle loro capanne ed anche in questi deserti di neve.

– Se provassero un po’ ad abitare le nostre case d’Europa e nei nostri climi, sono convinto che non tornerebbero più mai in questi paesi del freddo.

– Ecco dove v’ingannate. Molti naviganti artici hanno condotto in Inghilterra degli esquimesi, ma lo credereste?… Dopo qualche tempo si trovavano male in mezzo alla civiltà, rimpiangevano la loro vita libera e piena di stenti e venivano presi da una nostalgia così acuta, da costringere coloro che li avevano rapiti al paese dei ghiacci a ricondurveli per non vederli morire.
– Sembrerebbero frottole, se non avessi udito anch’io raccontare di questi casi.

– Gli uomini liberi non possono adattarsi alla nostra civiltà e preferiscono condurre la loro vita errabonda e piena di privazioni, mio caro Mac-Doil. Oh!

Pare che ci sia qualche cosa di nuovo e che il signor Nikirka abbia potuto ottenere quanto desiderava.

– Ma che cosa? – chiese MacDoil.

– Zitto: lo saprete poi.

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