Il primo luglio il Taimyr, che non aveva cessato di procedere con grande velocità,
a duecentotrenta miglia dal polo incontrava i grandi banchi di ghiaccio della gigantesca barriera artica.
Gli effetti dello sgelo si erano però fatti sentire sugli interminabili ice’fields sicché questi non formavano più una superficie compatta, senza spaccature e senza frane.
Larghi canali si erano aperti qua e là permettendo il passaggio anche ad una nave se si fosse trovata colà, ma era da dubitarsi se si prolungassero attraverso a tutta la barriera. Probabilmente moltissimi erano ostruiti e difficilmente avrebbero permesso la ritirata completa ad un veliero o ad un piroscafo.
Solamente un battello sottomarino era certo di trionfare su qualunque ostacolo, potendo inabissarsi e passare sotto.
Il Taimyr, i cui comandanti avevano fretta di trovarsi al di là della barriera, non ignorando quanto fosse breve l’estate polare, si era cacciato in un canale che si prolungava verso l’est, con una tendenza a volgere al sud.
Il fuso gigante precipitava la ritirata, poiché il cielo si manteneva sempre minaccioso ed il mare diventava cattivo. Il sole non si era più mostrato dopo la comparsa dell’aurora boreale e pesanti nebbioni, spinti innanzi dai freddi venti del nord, erravano sull’orizzonte. Farsi sorprendere in mezzo a quei campi di ghiaccio, che da un giorno all’altro potevano rinchiudere le loro aperture o che potevano franare facendo capitombolare gli enormi ice bergs saldati ai loro fianchi, era pericoloso anche pel Taimyr. Il 2, quando già i naviganti si trovavano a quattrocento miglia dal polo, l’uragano che minacciava già da tre giorni, cominciò a scoppiare.
Dalle regioni polari soffiavano raffiche impetuose e freddissime, le quali spingevano verso il sud, come cavalli sbrigliati, ammassi di dense nebbie.
Il mare, anche entro i canali, aveva assunto un aspetto minaccioso e si alzava in ondate, le quali andavano a percuotere, con orribili scrosci, i margini dei campi di ghiaccio, diroccandoli in vari luoghi.
Delle montagne di ghiaccio si staccavano dovunque ed oscillavano spaventosamente, urtandosi fra di loro o rovesciandosi contro i banchi.
Cupi scroscii, detonazioni assordanti, crepitìi prolungati si mescevano agli ululati delle raffiche ed ai muggiti del mare.
Perfino gli animali polari, abituati ai formidabili uragani di quelle regioni, parevano spaventati. Si vedevano gli orsi bianchi correre attraverso gli ice’fields mandando acuti nitriti, le foche e le morse guadagnare frettolosamente i loro buchi, mentre gli uccelli marini, le strolaghe, le procellarie fulmar, gli albatros e le oche fuggivano verso il nord, schiamazzando.
– Pare che il polo si penta di averci lasciati vederlo – disse Mac-Doil, che era salito sulla piattaforma con Sandoé. – Temo che ci dia molto da fare, prima di lasciarci riguadagnare i mari del sud.
– C’immergeremo, MacDoil.
– Lo credo, ma se la bufera durasse un paio di giorni saremmo costretti a tornare a galla.
– Ci ritufferemo.
– Lo so, ma tornare alla superficie coi ghiacci che ballano una giga scapigliata può essere pericoloso, Sandoé. Guarda come danzano quegli icebergs.
– Bah!… La spunteremo Mac-Doil e ti dico che noi rivedremo ben presto le coste dell’Islanda e poi le FàrÒer.
– Te lo auguro. Battiamocela amico Sandoé; il mare comincia a spazzare la piattaforma e l’acqua è assai fredda con tutto questo ghiaccio. Andiamo a scaldarci col gin del mio amico il cuoco.
Era tempo che lasciassero la piattaforma e che chiudessero il boccaporto, poiché le onde cominciavano a spazzare la parte superiore del battello, frangendosi contro le gabbie.
Il Taimyr però non s’inabissava e continuava la rapidissima corsa entro quel canale. Probabilmente l’ingegnere temeva di perderlo e di trovarsi poi un’altra volta sotto i grandi banchi, i quali potevano impedirgli di tornare alla superficie per rinnovare la provvista d’aria.
Mantenendosi tuttavia a fior d’acqua il Taimyr correva altri gravi pericoli, poiché gli ice’bergs erano sempre numerosi entro quella vasta squarciatura, e capitombolavano di frequente in causa delle furiose ondate.
Per di più l’oscurità aumentava sempre e la nebbia s’avanzava, avvolgendo i campi di ghiaccio.
Alle sette di sera il mare era cattivissimo ed il vento aveva acquistata una violenza irresistibile. Vere montagne d’acqua percorrevano impetuosamente il canale, diroccando i margini dei campi e scuotendo orribilmente il battello. Il pericolo di urtare contro qualche ghiaccione aumentava, non essendo sufficiente la lampada elettrica a diradare quel pesante nebbione.
Fu decisa l’immersione. Il Taimyr riempì i suoi serbatoi, mise in funzione le eliche laterali e scese a quattrocentocinquanta metri, cercando però di mantenersi sotto le acque del canale, ma con poca probabilità di successo non essendo più le sue bussole in grado di dare una rotta esatta.
Tutta la notte continuò a fuggire verso l’est, scrollato dalle onde che si facevano sentire anche a quella ragguardevole profondità, ed all’indomani, quando tentò di tornare a galla andò ad urtare contro i campi di ghiaccio.
O il canale aveva deviato o era stato rinchiuso ed al Taimyr non rimaneva che di forzare la marcia per giungere in una nuova squarciatura.
– Diavolo!… – brontolò Mac-Doil. – Che si ripeta il pericolo di morire asfissiati?… Mi spiacerebbe, ora che siamo stati al polo e che ho guadagnati i diecimila dollari. Andiamo a consolarci dal cuoco!…
Il Taimyr dopo d’aver tentato, ma invano, di spaccare il banco con una potente speronata, aveva ripresa la corsa piegando verso il sud-est. Marciava con una velocità di diciotto nodi e sei decimi.
La lampada era stata spenta per poter meglio scorgere la luce che poteva scendere da qualche crepaccio, però la semioscurità regnava sempre quantunque le miglia sfilassero rapidissime.
Pareva proprio che dovesse ripetersi ciò che Mac-Doil temeva. La mattina del 3 ancora nulla, eppure allora i naviganti dovevano trovarsi a ben ottocentosessanta miglia dal polo e presso le coste orientali della Groenlandia già da una dozzina d’ore.
Già l’aria cominciava a diventare pesante, viziata, quando verso il mezzodì la semioscurità fu bruscamente rotta.
Il Taimyr s’innalzò rapidamente e si trovò in un nuovo e vasto canale ingombro di ghiacci, aperto fra un immenso ice’fieìd ed una costa assai alta, sulla quale si scorgevano delle catene di montagne che tuffavano le loro vette nevose nelle nubi.
L’uragano non era cessato. Soffiava sempre forte il vento del nord ed il mare era burrascosissimo.
L’ingegnere ed Orloff, sfidando le onde che s’infrangevano contro le cancellate, salirono sulla piattaforma per osservare quella costa che delineavasi verso l’ovest.
– è la costa della Groenlandia – disse Orloff.
– Siete certo di non ingannarvi?
– Non vi può essere altra terra laggiù.
– Che sia un’isola invece?
– Non avrebbe delle montagne così elevate, né così colossali.
– Dove credete che ci troviamo?
– Fra il 79° ed il 78° di latitudine suppongo.
– Dunque noi navighiamo nel mare di Groenlandia.
– Sì, signor Nikirka.
– Fra tre o quattro giorni potremmo essere nello stretto di Danimarca.
– E fra cinque sulle coste settentrionali dell’Islanda, signor Nikirka. Torniamo ad inabissarci?…
– Sì, il mare è troppo cattivo per mantenerci a galla e gli ice-bergs troppo pericolosi. Spero che non incontreremo più dei banchi così immensi da farci temere la mancanza d’aria.
Il Taimyr tornò ad immergersi a quattrocento metri, navigando fra la costa
groenlandese ed il campo di ghiaccio, che si estendeva dal nord al sud con una fronte che doveva essere di parecchie centinaia di miglia.
L’acqua però anche a quella profondità era assai turbata e scrollava disordinatamente il fuso d’acciaio.
Le onde correvano contro la costa groenlandese, che forse si alzava rapidissima, e rimbalzando producevano i così detti flutti di fondo i quali rimescolavano le acque anche sotto la superficie.
Vi erano certi momenti in cui gli uomini faticavano assai a mantenersi in piedi e che la mobilia si staccava dalle pareti, rotolando fragorosamente sui pavimenti.
Perfino i cani parevano spaventati, latravano con furore.
Il Taimyr però non s’arrestava e lottando energicamente contro quei flutti disordinati, proseguiva la sua rapida ritirata verso il sud.
Già aveva superate altre duecento miglia e, secondo i calcoli approssimativi di Orloff, doveva aver raggiunto il 75° parallelo, quando verso le quattro del mattino si udì la voce del timoniere a tuonare precipitosamente:
– Macchina indietro!…
Mac-Doil e Sandoé, che stavano per abbandonare le loro amache, si erano lasciati cadere al suolo per accorrere nel salotto, quando un urto formidabile avvenne verso poppa. Il fuso d’acciaio tremò con un lungo fragore metallico, mentre si spostava violentemente sul tribordo rovesciando i mobili e facendo volare le casse fino all’opposta parete.
– Fulmini!… – urlò Sandoè. – Cos’è accaduto?…
– Per centomila balene!… – esclamò Mac-Doil. – Affondiamo?…
Si erano precipitati fuori dalla loro cabina, mentre verso poppa si udivano le grida dei macchinisti ed i latrati possenti di Kamo e quelli selvaggi dei cani esquimesi.
L’ingegnere ed Orloff erano già giunti nella sala delle macchine, dove si vedeva una parte del pavimento inondato e delle sbarre di sostegno contorte, come se fossero state violentemente piegate.
Un albero delle eliche, spezzato a metà, pendeva dalla vòlta e l’altro non funzionava più.
– Signore! – esclamò Sandoé, spaventato. – Affondiamo noi?
– No – rispose l’ingegnere, ma con voce agitata.
– Ma quest’acqua?… – chiese MacDoil.
– Silenzio, ora.
Poi volgendosi ai due macchinisti:
– Sono perdute? – chiese.
– Sì, signore. L’elica di tribordo deve essere stata infranta e l’altra non può funzionare – rispose un macchinista.
– Dove ha ceduto la corazza?…
– A babordo, sotto il serbatoio.
– Sono danneggiate le pompe?
– Lo vedremo.
– Lasciate la macchina che per ora non ha bisogno di voi e visitate le pompe. In quel momento giungeva il timoniere. Il marinaio era pallido come un cencio lavato ed in preda ad una viva agitazione.
– Signore – disse rivolgendosi all’ingegnere. – Il Taimyr non governa più.
– Lo sospettavo – rispose il comandante, la cui voce a poco a poco tornava calma. – Sale il battello?…
– Siamo già alla superficie.
– È tempestoso il mare?
– Sì, ma meno di ieri.
– Ed il boccaporto, si potrà aprire?…
– No, signore. L’asse del battello è spostato e se apriamo il boccaporto le onde faranno irruzione.
– Ciò è grave – disse l’ingegnere, come parlando fra se stesso. – Seguitemi nella gabbia, signor Orloff.
– Fulmini! – esclamò Sandoè. – è proprio finita per noi.
L’ingegnere che stava per uscire dalla sala delle macchine, uditolo, s’arrestò:
– Non ancora – disse. – Spero di condurvi in Europa.
– Ma cos’è accaduto, signore? – chiese MacDoil.
– Un urto che ha sfondato alcune lastre sotto il serbatoio d’acqua di babordo. Poi uscì con Orloff, senza spiegarsi di più.
– Fulmini! – esclamò Mac-Doil. – Si sono spezzate le costole del Taimyrì… Io temo che per noi la sia finita.
– E le eliche non funzionano più – aggiunse Sandoè.
– Siamo gravemente ammalati o moribondi.
– Poco importa per le eliche e pel timone – disse il timoniere. – Abbiamo da ricambiare le une e l’altro.
– Ma le lastre fracassate!…
– Non cederanno e poi vi è un doppio scompartimento ed il celluloide il quale ha ormai turata la squarciatura. La cosa più grave è lo squilibrio del battello.
– Non si potrà raddrizzarlo? – chiese Sandoè.
– Lo si tenterà con ogni mezzo, perché se non ci raddrizziamo non potremo aprire il boccaporto che è già quasi tutto sommerso.
– Per centomila trichechi!… Si corre pericolo di morire asfissiati o annegati come sorci in trappola!… Ma cosa è accaduto adunque?
– Abbiamo incontrato una massa enorme di rocce che ci rinchiudevano come entro un arco.
– E non avete potuto evitarle?
– Sì, ma nel retrocedere il battello ha urtato contro una roccia sottomarina che prima non era stata scorta e la poppa ha riportata una grave avaria.
– E dove siamo noi?
– Solo il signor Orloff può saperlo.
– Sandoè, andiamo nella gabbia di prora.
– Andiamo, Mac-Doil. Io comincio ad essere assai inquieto.
– L’ingegnere è un valentuomo.
– Ma il battello può affondare da un istante all’altro ed allora buona notte a tutti.
– Compresa la figlia del ricco pescatore.
– E papà Craig, MacDoil.
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