In mezzo ai ghiacci

Ventiquattr’ore dopo il Taimyr usciva dallo stretto del Principe di Galles, confermando luminosamente la supposizione di Mac-Clure, cioè che quel canale sboccasse liberamente nel Mare di Melville.

Contrariamente però a quanto credevano i due cacciatori, il battello invece di risalire verso il nord piegò bruscamente verso il sud-est, come se l’ingegnere avesse l’idea di ridiscendere verso le coste americane attraverso lo stretto di MacClintock.

Voleva rilevare le coste orientali della Terra del Principe Alberto che prima di allora non erano state esplorate, e visitare quelle della Terra Vittoria, terminando il viaggio polare sotto il 79° parallelo?… Nessuno avrebbe potuto dirlo, poiché anche questa volta Orloff, interrogato a più riprese dai due cacciatori, si era rinchiuso in un mutismo assoluto.

La navigazione del Taimyr stava per diventare molto ardua, perché pareva che nel Mare di Melville si fossero radunati tutti i ghiacci staccatisi dalle coste della Terra del Principe Alberto e di Banck, delle isole di Melville, del Principe di Galles, del Re Guglielmo, di Bathurst e della penisola di Boothia.

Era una successione continua di ice’bergs di dimensioni enormi, che s’avanzavano cappeggiando pericolosamente e minacciando ad ogni istante di piombare sul battello e di schiacciarlo, malgrado la sua robusta corazza d’acciaio; o di palks, di hummoks e di streams e di wacke contenenti nell’interno dei veri laghetti;

e verso il sud-est ed il nord-ovest si vedevano parecchi banchi che avevano delle circonferenze di quindici o venti miglia, dei veri palks, che non dovevano forse tardare a diventare degli ice-fields, ovvero dei campi senza limiti.

Il bagliore che tramandavano tutti quei ghiacci percossi in pieno dalla luce solare, era così intenso, che accecava. Pareva che fossero immersi in un’atmosfera

d’una intensità meravigliosa. In mezzo a quei colossi che le correnti, sboccanti

dagli stretti di Barrow, di Franklin, di Banck e di Mac-Clintock trascinavano nel Mare di Melville, accumulandoli in quel vasto bacino, si vedevano numerosi anfibi sdraiati presso i margini, scaldantisi ai tiepidi raggi del sole.

Per lo più erano foche chiamate comunemente di Groenlandia o kadolik dagli esquimesi, lunghe poco più d’un metro, col pelo fitto, corto, color grigio fulvo o giallo chiaro, coi fianchi neri, il petto grigio argenteo, il muso caffè oscuro ed il dorso macchiato da un disegno in forma di ferro di cavallo allungato e molto oscuro.

Si vedevano però anche numerose femmine distinguibili per la loro statura che è inferiore a quella dei maschi e pel loro pelame che è invece bianco giallognolo, mentre il ferro di cavallo è azzurro cupo. Alcune giuocherellavano coi loro piccini la cui pelliccia era affatto bianca.

Queste foche sono le più numerose di tutte, quantunque siano accanitamente cacciate da tutti gli esquimesi del continente, delle isole e della Groenlandia e dai cacciatori della Compagnia della baia di Hudson. Si calcola che ne vengano uccise centomila all’anno, ma malgrado simile ecatombe non accennano ancora a diminuire.

Senza questi anfibi, probabilmente le tribù esquimesi a quest’ora sarebbero ben poco numerose, poiché offrono mille risorse per quei poveri abitanti delle regioni dei ghiacci eterni. E perciò che li attendono durante le loro emigrazioni, per fare dei veri macelli, che assicurano il cibo per parecchi mesi e le vesti necessarie per combattere i terribili geli invernali.

Anche gli uccelli erano numerosi e si vedevano bande immense di lumme, di gabbiani, di procellarie, di oche, di strolaghe, di urie e di labbi detti di Richardson.

Il Taitnyr si avanzava sempre, con grande fatica ed a velocità moderata, cercando di tenersi lontano dagli ice-bergs che potevano danneggiarlo e forse sfracellarlo.

Speronava furiosamente i ghiacci minori tagliandoli come se fosse un immane rasoio d’una tempra eccezionale; si avventava all’impazzata contro i banchi, disgregandoli con un cupo rimbombo; si slanciava più di mezzo fuori dall’acqua, spinto innanzi dalle sue potenti

eliche che turbinavano furiosamente e silasciava cadere di peso in mezzo a tutti quegli ostacoli, sminuzzandoli prima e disperdendoli poi collo sperone.

Orloff si era messo al timone e guidava il colosso d’acciaio. Pareva che sotto le sue mani, quel gigantesco fuso diventasse un semplice giuocattolo e lo lanciava a destra o a sinistra o diritto innanzi a sé con una precisione e con una sicurezza meravigliosa.

L’ingegnere ed i due cacciatori, dalla piattaforma assistevano a quella lotta mostruosa fra la forza meccanica e la resistenza inerte, ma pur sempre formidabile di quei candidi ed abbaglianti colossi polari.

Un sorriso di trionfo errava sulle labbra del valente finlandese, vedendo il suo mostro corazzato assalire e demolire quei ghiacci che per tanti secoli avevano arrestate le navi montate dai più intrepidi marinai dei due mondi, mentre Mac-Doil e Sandoé, impotenti a frenare il loro entusiasmo, lanciavano i loro più energici: Corno di narvalo e, per centomila foche, o trichechi o balene!…

Quella lotta non poteva però durare molto, poiché i grandi banchi non erano lontani ed il battello, per quanto fosse robusto non poteva assalire quelle distese immense di ghiaccio compatto e di grande spessore.

Nondimeno Orloff continuava a lavorare di sperone come se volesse misurare la potenza del Taimyr e non cessava di avventarlo, con una temerità che rasentava la pazzia, contro i ghiacci. Vi erano certi momenti in cui osava perfino assalire i piccoli ice-bergs, col pericolo di farli capitombolare bruscamente sulla prora del battello.

In quegli urti terribili il fuso d’acciaio rintronava come se nel suo ventre scoppiassero delle vere mine, ma nessuna delle sue lastre vibrava e pareva che formassero una massa sola.

La lotta durava da mezz’ora, quando l’ingegnere diede il comando di arrestare la macchina. Il Taimyr si trovava allora a soli duecento passi da un banco che doveva avere una circonferenza di almeno dodici miglia.

– Scendete – disse Nikirka ai due cacciatori. – Ci prepariamo ad immergerci. Sarà affare di una sola mezz’ora.

I due cacciatori scesero dietro l’ingegnere e chiusero il boccaporto, mentre le eliche si rimettevano in movimento a piccola velocità.

Gli sportelli laterali furono tosto aperti per dare luce al salotto ed alle cabine, e con grande sorpresa dei cacciatori, le lampade elettriche non furono accese.

– Eppure sotto quel banco non dovrebbero passare i raggi solari – disse Mac-Doil. – Spero che non procederanno alla cieca col pericolo di urtare contro qualche ostacolo.

– A duecento metri! – si udì gridare in quell’istante l’ingegnere.

– Oh! Oh! – esclamò Sandoè. – Si scende più dell’altra volta.

– Il battello ormai può ispirarci completa fiducia.

– Lo so, Mac-Doil; io vorrei però sapere dove vogliono condurci questi uomini. Sai che è una cosa fastidiosa girare per queste brutte regioni, senza sapere

dove si vada a finire?

– Sono muti come pesci e non c’è mezzo di strappare loro una parola. Comunque sia, pagano bene e li seguiremo fin dove vorranno condurci.

– Anche se volessero andare al polo?

– Vada anche pel polo!… Ci ho trovato gusto a misurarmi cogli orsi bianchi e… Ah!… Ecco che le eliche laterali si mettono in funzione e che ci inabissiamo.

Andiamo a vedere se incontriamo dei pesci.

In quell’istante il battello, spinto sott’acqua dalle eliche laterali, e trascinato dalla zavorra acquatica che entrava nei serbatoi di poppa e di prora, s’immergeva lentamente per passare sotto il grande banco.

A duecento metri di profondità arrestò la sua discesa e riprese lo slancio innanzi, procedendo però con una velocità moderata che non doveva toccare i dieci nodi. Quantunque fosse disceso molto più dell’altra volta, ci si vedeva ancora bene nel salotto, nel quale si erano radunati i due cacciatori e l’ingegnere. Era una luce più sbiadita però, leggermente verdastra e che di quando in quando variava, diventando più chiara come se il battello di tratto in tratto incontrasse delle lampade elettriche collocate alla superficie del mare.

– Che cosa sono questi strani bagliori? – chiese Sandoè’ all’ingegnere, il quale teneva gli sguardi fissi su di una bussola collocata in mezzo alla tavola.

– Il riflesso dei ghiacci – rispose Nikirka.

– Questa è strana! – esclamò Mac-Doil. – Io credevo che sotto i ghiacci non ci si vedesse più.

– E perché, mio caro cacciatore?

– Lo avevo udito raccontare.

– Ed allora sapreste dirmi perché sopra i ghiacci si scorge quella potente irradiazione biancastra, che i naviganti polari chiamano ice-blink e che nemmeno i nebbioni riescono ad offuscare?… Perché i ghiacci non dovrebbero tramandare anche sotto di loro una parte di quella luce? Lo so, si è creduto che sotto i banchi dovesse regnare una profonda oscurità, invece come ben vedete non è vero, poiché in questo momento noi navighiamo precisamente sotto il grande pack che ci sbarrava la via. Mi rammento anzi che alcuni avevano, al pari di

me, progettato di sfidare i ghiacci polari passandovi sotto, ma che si erano assai preoccupati della mancanza assoluta della luce, e forse quel timore li ha risoluti a rimandare l’effettuazione del progetto.1 Ecco, mio caro cacciatore: guardate se la luce manca!
nota: 1. Questo timore, assolutamente erroneo, aveva molto preoccupato anche il signor G.L. Pesce, che nella Revue Scientifique del 1896 aveva progettato di recarsi al Polo Nord con un

battello sottomarino.
In quel momento la luce del salotto era diventata più limpida, quasi diafana, e perfino le acque che scorrevano lungo i fianchi del battello avevano dei bagliori madreperlacei, come se ad intervalli raccogliessero dei raggi luminosi proiettati da lampade elettriche.

Era bensì vero che talora quella luce si oscurava bruscamente, forse in causa degli strati di neve accumulati dal banco e che intercettavano la luce solare, però i ghiacci proiettavano sempre l’ice-blink anche sotto le onde ed abbastanza limpido da poter scorgere anche i pochi pesci, che di quando in quando si mostravano accanto agli sportelli.

Il battello a poco a poco accelerava la sua corsa. Orloff, che lo guidava dalla gabbia di prora, certo ormai di non incontrare ostacoli sotto il pack a quella profondità di duecento metri, aveva comandato di raggiungere i quindici nodi.

I due cacciatori intanto guardavano attraverso il grosso vetro dello sportello di babordo, spiando curiosamente gli abitanti del mare, i quali pareva che scarseggiassero assai. Solamente di tratto in tratto appariva qualche drappello di aringhe, o qualche delfino, o qualche coppia di narvali che venivano ad urtare i vetri coi loro corni.

– Signor Nikirka – disse ad un tratto Mac-Doil, che da qualche istante aveva volti gli

sguardi su di un termometro appeso presso lo sportello. – Ho osservato una cosa che per me è inesplicabile.

– E quale? – chiese l’ingegnere.

– Che la temperatura si è notevolmente rialzata. Prima che il Taimyr s’immergesse il termometro segnava -8° ed ora è salito a +4° e tende a salire ancora.

– E che cosa volete concludere?

– Che fa più freddo sopra i ghiacci che sotto.

– E ciò vi sorprende?

– Molto, signore poiché credevo che l’acqua fosse più fredda, specialmente ad una profondità ragguardevole come ci troviamo ora noi.

– Infatti diventa più fredda di metro in metro che si scende però la temperatura è sempre maggiore a quella che si riscontra alla superficie. In queste alte latitudini si è osservato che

sotto i ghiacci fa molto meno freddo, mentre negli altri mari, negli equatoriali e nei tropicali, si è notato tutto il contrario, e cioè che l’acqua era molto più calda alla superficie che ad una certa profondità, e… Toh!… Abbiamo già superato il banco!… Ecco la luce del sole.

– Ed io vedo della selvaggina attorno a noi – disse Sandoè.

– Risaliamo – rispose l’ingegnere.

Mac-Doil udendo parlare di selvaggina aveva fatto un balzo verso la grande lente e attraverso il cristallo, aveva scorto parecchi corpi di dimensioni enormi che si agitavano sui fianchi del battello, il quale aveva allora diminuita la sua velocità.

– Dei trichechi!… – esclamò.

– E sono numerosissimi – aggiunse Sandoé.

– Signore, vi è della carne fresca – disse l’ebridano, volgendosi verso l’ingegnere.

– O meglio dell’olio da raccogliere – rispose questi.

– I fucili, Sandoè.

– Cosa volete farne?…

– Per uccidere dei trichechi, signore.

– E vederli affondare subito! In tali cacce è necessario adoperare la fiocina esquimese, che è la migliore arma. Lasciate fare ai miei marinai; vedrete che cattureranno parecchi di quei colossi.

Premette un campanello elettrico e le pompe si misero tosto in opera, ricacciando l’acqua dei serbatoi.

Pochi istanti dopo il Taimyr si trovava a galla.

Mac-Doil e Sandoè si slanciarono verso la scala, nel momento che due marinai stavano aprendo il boccaporto.

Quasi subito s’udì al di fuori un concerto assordante di muggiti, come se il battello fosse piombato al di là del banco in mezzo ad una prateria piena di tori in furore.

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