Il 19 maggio, verso le tre pomeridiane di fronte alla punta Barrow il Taimyr faceva l’incontro dei primi ghiacci galleggianti.
Lo sgelo doveva essere cominciato sulla Terra di Banck e sulle isole del Principe Patrick e sulla Terra di Kennan, ed i ghiacci scendevano verso il sud spinti dai venti del settentrione, i quali durante la stagione estiva soffiano sempre da quelle alte latitudini.
Non erano ancora le grandi montagne galleggianti, i così detti ice-bergs, ma piccoli banchi di pochi metri di estensione, una quarantina in tutto, i quali formavano una lunga fila ondeggiante.
Su alcuni di essi gli uccelli polari si erano già posati e strepitavano a tutta lena.
Erano per lo più sterne e lumme, volatili che non meritavano un colpo di fucile da parte dei due cacciatori, i quali si tenevano sempre sull’all’erta per provvedere il battello di carne fresca.
L’ingegnere avvertito forse dal timoniere che doveva avere scorto i ghiacci dalla gabbia di prora, era salito sulla piattaforma per vederli, ed era pure accorso anche il secondo.
– Buon segno – disse il primo, ad Orloff. – Ciò indica che quest’anno lo sgelo è precoce e tornerà molto utile a noi.
– Lo credo – rispose il secondo. – In maggio non è facile incontrare dei ghiacci galleggianti, anche in queste latitudini. Più innanzi, in giugno, si vedono talora anche ai 60° di
latitudine, quantunque ordinariamente il loro limite sia fissato ai 70°.
– Ed a 80°, i grandi banchi, è vero signor Orloff?
– Sì, signor Nikirka.
– Abbiamo del tempo prima d’incontrarli.
– Ma forse li incontreremo prima se ci spingiamo direttamente al nord.
– Perderemo del tempo sulle coste dell’isola del Re Guglielmo e dinanzi alla foce della Riviera del Gran Pesce. Voi sapete che io non lascerò quei paraggi senza aver prima chiarito completamente quel mistero che da diciassette anni agita i geografi e gli uomini di mare d’Europa e d’America.
– Lo so, signor Nikirka e spero che il vostro Taimyr potrà scoprire ogni cosa.
– Sì poiché sono deciso d’investigare il fondo del mare fino all’isola del Principe di Galles.
– Signori, – disse in quel momento Mac-Doil, – vedo laggiù una banda di grossi pesci che si dirige a questa volta.
– Lasciateli venire – rispose l’ingegnere. – Nulla possono fare al nostro battello.
– Ma possono rifornire la nostra dispensa, signore.
– Vediamo innanzi tutto cosa sono – disse Orloff, puntando un cannocchiale in direzione della costa americana, verso la quale si scorgevano numerose masse che si agitavano fra le onde.
– Che siano morse? – chiese l’ingegnere.
– No – rispose Orloff. – È una banda di narvali che muove su di noi, credendo forse che il battello sia una balena.
– Si romperanno inutilmente le corna.
– E ne mangeremo qualcuno – aggiunse Mac-Doil. – Ehi, Sandoè, va’ a prendere i nostri fucili.
Mentre il cacciatore scendeva rapidamente per prendere le armi, i narvali s’avvicinavano con estrema rapidità, pronti a dare battaglia al supposto cetaceo.
Quegli abitanti dei mari artici, sono pesci agilissimi, lunghi ordinariamente due metri e qualche volta anche di più, forniti di pinne ben sviluppate che adoperano con tale maestria, da sfuggire agli assalti dei nuotatori più rapidi, compresi i delfini gladiatori che sono velocissimi.
Posseggono un’arma che può diventare veramente formidabile e pericolosissima anche ai pescatori che montano fragili battelli. È un vero corno formato da un dente incisivo della mascella superiore, lungo un metro ed anche uno e mezzo, scanalato a spira, assai acuminato all’estremità e composto di un avorio migliore di quello degli elefanti, perché più compatto, più duro e più atto ad essere reso lucido.
Quel corno anticamente aveva dato luogo a delle strane credenze. Si pretendeva che avesse molte virtù e specialmente di far perdere ai veleni la loro efficacia; anzi narrasi che Carlo
IX re di Francia, temendo di venire avvelenato dagli ugonotti da lui ferocemente perseguitati, ne tenesse sempre seco un pezzo per immergerlo nei liquidi che beveva. In pochi minuti i narvali si trovarono a breve distanza dal battello, quantunque
questo navigasse verso l’ovest con una velocità di sedici nodi all’ora.
Erano una ventina, quasi tutti grossi assai e s’avanzavano mostrando minacciosamente le loro formidabili armi, mentre dagli sfiatatoi lanciavano in alto dei piccoli zampilli d’acqua.
Mac-Doil e Sandoè si erano appostati dietro la piccola cancellata per accoglierli con una scarica, ma l’ingegnere aveva fatto loro cenno di attendere.
I narvali avevano allora circondata la poppa del battello ed a gran colpi di coda si mantenevano ad una distanza di trenta o quaranta passi. Pareva che prima di decidersi ad assalirlo, volessero rendersi conto con quale nemico avevano da fare. Probabilmente erano sorpresi, non vedendo la coda battere l’acqua.
Di tratto in tratto qualcuno s’appressava con un brusco slancio, ma poi tornava verso i compagni.
D’improvviso uno dei più grossi, il cui corno misurava un metro e mezzo di lunghezza, si precipitò verso il tribordo del battello, con rapidità fulminea.
Quasi subito s’udì un colpo secco e l’arma, spezzatasi alla base, cadde in mare, mentre il povero pesce, mortificato da quella resistenza inaspettata, dopo un istante di sorpresa, si tuffava precipitosamente.
– Eccone uno che non tormenterà più le povere balene – disse MacDoil.
– E che morrà di certo – aggiunse l’ingegnere.
– Corno di narvalo!… – esclamò Sandoè.
– Senza corno ora – disse l’ebridano, ridendo.
Un altro grosso maschio si gettò contro il battello, ed ebbe eguale sorte e fuggì vergognoso di aver perduto la sua arma.
Gli altri, esasperati dalla resistenza di quel mostro corazzato, si precipitarono tutti uniti contro il Taimyr, facendo spumeggiare intorno l’acqua e vibrando colpi di corno in tutte le direzioni.
L’ingegnere per un po’ li lasciò liberi di sfogarsi, poi vedendo che alcuni miravano a colpire le eliche e temendo che guastassero qualche pala, fece cenno ai due cacciatori di far fuoco. Mac-Doil e Sandoè avevano già scelto il più grosso e lo colpirono con due palle nel cranio. Udendo quei due spari, gli altri si allontanarono precipitosamente dirigendosi verso la
punta Barrow, mentre quello che era stato ferito, dopo d’aver fatto tre o quattro capitomboli, si rovesciava col ventre in alto.
Il battello fu subito fatto arrestare, poi si accostò alla preda la quale fu, non Era lungo due metri ed ottanta centimetri ed il suo corno misurava un metro e trenta; era adunque uno dei narvali più grossi.
– Speriamo che la sua carne sia buona – disse MacDoil.
– È di poco inferiore a quella dei tonni – rispose Orloff.
– Pure ho udito raccontare da taluni che la si crede malsana.
– Gl’islandesi dicono che è velenosa, ma non è vero e tutti gli esquimesi la mangiano. Domani ne farete la prova e vi assicuro che replicherete la razione.
Durante la giornata null’altro accadde di notevole.
Il Taimyr continuò ad avanzarsi colla solita velocità, mantenendosi in vista della costa americana, come se il suo proprietario avesse l’intenzione di visitare la foce del Makenzie, prima di poggiare verso la Terra di Banck.
Di tratto in tratto faceva l’incontro di altri ghiacci galleggianti, di streams, di forma circolare e di hummoks ossia di piccoli monticelli, ma non davano impaccio, essendo ancora pochi.
Alla sera anche la baia di Harrisson veniva superata e poco dopo anche la foce del Colville, il quale è un fiume che ha un corso considerevole e che pare serva di scarico ad un lago
situato molto addentro in quella vasta regione delle nevi e dei ghiacci. Il 20 maggio il Taimyr faceva l’incontro dei primi ice’bergs ossia delle prime montagne di ghiaccio. Erano sette od otto, di grandi dimensioni e navigavano verso il sud spinti da un fresco vento di nord-ovest.
Quei colossi scintillavano splendidamente ai raggi del sole, rivestendo svariate tinte negli angoli: alcuni erano rossi come se fossero infuocati, azzurrognoli altri, o verdi smeraldo o violacei.
Miriadi di uccelli marini li montavano, facendo un baccano assordante. Vi erano gazze marine, le più chiassose di tutti i volatili; vi erano pure delle oche bernide grosse come le nostre comuni, poi delle strolaghe colle penne nere sul petto e sul dorso e le ali macchiate
di bianco; delle phoebetna jiÀigtnose, le più piccole delle diomedee, col corpo assai snello, le penne nere e le ali molto grandi che permettono loro di mantenersi in aria senza quasi muoverle, e perfino degli albatros che grugnivano come se su quei ghiacci si fossero radunati
dei branchi di maiali.
Scorgendo il battello e credendolo probabilmente il carcame d’una balena, tutti quei volatili vi si precipitarono sopra schiamazzando, e Mac-Doil e Sandoè ebbero un bel da fare a respingerli a colpi di bastone.
Il 21 il battello si trovava nelle acque del Makenzie, uno dei più grandi fiumi, anzi il maggiore di tutti quelli che si scaricano nell’Oceano Artico.
Questa grande arteria che attraversa un immenso tratto dei possedimenti inglesi dell’America del Nord, e che serve di scarico a due grandissimi laghi, al lago Schiavo e del Grand’Orso, ancora il secolo scorso era sconosciuta, quantunque gl’indiani ne avessero più volte parlato ma in modo misterioso.
Giuseppe Frobisher ne aveva tentata l’esplorazione con esito sfortunato, però nel 1789
Alessandro Makenzie, uno dei più arditi viaggiatori, che era partito dal forte di Chipewayan accompagnato da alcuni canadesi e da pochi indiani, dopo lunghe marce ed infiniti pericoli riusciva a scenderlo fino alla foce.
Il Taimyr non s’impegnò però fra le isole che si estendono dinanzi al delta e che erano ancora cinte di ghiacci. Costeggiò l’isola Richard, poi quella della Società Geografica e si slanciò risolutamente verso l’est in direzione della vasta baia di Liverpool.
Dove andava? Invano Sandoè e specialmente Mac-Doil il quale avea una certa cognizione delle regioni polari, si torturavano il cervello per cercare la rotta precisa del battello o per studiare i misteriosi progetti dell’ingegnere ed invano interrogava Orloff, poiché questi si limitava sempre a rispondere:
– Alla Terra di Banck, per ora.
Il Teimyr non si decideva però a prendere il largo e continuava a mantenersi in vista della costa americana, tenendosi molto lontano per non doversi aprire la via attraverso i
numerosi ghiacci che la ingombravano. Il 22 però, giunto di fronte alla baia Franklin, dopo d’aver sorpassata l’acuta penisoletta di Parry, cambiò bruscamente rotta, mettendo la prora verso il
nord-nord-est.
– Signor Orloff – disse Mac-Doil, abbordando il secondo mentre scendeva nel salotto da pranzo, dopo d’aver fatto il punto a mezzodì. – Si cambia via?
– Sì – rispose l’interrogato, con un sorriso.
– Andiamo adunque a vedere questa famosa Terra di Banck che da sei giorni odo continuamente nominare? Deve essere una regione incantevole, se desiderate così ardentemente di vederla.
– Sì, una regione che mette i brividi. Vedrete dei bei ghiacci e della neve in quantità.
– Vedremo almeno degli abitanti?
– Forse degli orsi bianchi.
– Si dice che sono squisite le costolette d’orso arrostite e soprattutto le cosce posteriori che sarebbero più delicate dei prosciutti.
– Sì, quando si può uccidere il proprietario di quei prosciutti.
– Oh! Per questo m’incarico io, non temete,… ma ditemi, una buona volta, cosa si va a fare alla Terra di Banck?…
– Avete udito parlare di Mac-Clure!…
– Era un esploratore polare, se non m’inganno.
– Sì, MacDoil.
– Ebbene?
– Andiamo a verificare per ora, se oltre il famoso passaggio del Nord-Ovest, scoperto da
Mac-Clure, esiste un altro che sia veramente accessibile alle navi.
– Ci permetteranno i ghiacci d’inoltrarci?
– Cosa possono fare a noi i ghiacci?… Forse che il Taimyr non è fornito d’uno sperone d’una robustezza eccezionale?…
– Lo so, per centomila foche! – esclamò Mac-Doil. – Ma se si trovasse dinanzi delle montagne di ghiaccio di spessore enorme?…
– Abbiamo delle torpedini.
– Anche le torpedini non possono distruggere un banco che abbia parecchie miglia di lunghezza.
– Allora il Taimyr s’immerge e vi passa sotto.
– Lampi!… Non avevo mai pensato a questo!…
– Ed ora lo sapete.
– Col vostro battello, se lo voleste, potreste andare anche al polo. Zampe d’orso!… Che bel progetto che sarebbe!…
– Lo credete, Mac-Doil? – chiese Orloff guardandolo, mentre un misterioso sorriso gli spuntava sulle labbra.
– Sì, in fede mia.
– Meglio per voi.
– Perché dite questo! – chiese l’ebridano, stupito.
Orloff non rispose. Aveva aperto la porta della sua cabina e se n’era andato zuffolando il yankee doók americano.
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