Una emigrazione d’aringhe

L’indomani il Teimyr, che aveva navigato anche durante la notte mantenendosi sempre a fior d’acqua, giungeva dinanzi allo stretto di Behering. Questo braccio di mare che separa l’Asia dall’America settentrionale, misura ottantatré chilometri dal capo Occidentale asiatico a quello di Galles americano ed ha una profondità modestissima, appena diciannove metri.

Quasi nel mezzo sorgono le Diomedee che sono visitate dagli esquimesi durante la buona stagione, e che d’inverno rimangono deserte, essendo aridissime.

La maggiore è Ratmanoff che è lunga sette chilometri; Kotzebue ne ha quattro e la terza è un semplice scoglio.

La scoperta di questo stretto importantissimo, non risale che al secolo scorso, malgrado le attive ricerche di tanti navigatori e l’onore spetta al danese Vito Behering, il quale compì il passaggio nel 1741, con una nave russa armata da Caterina II, e che quarantaquattro giorni dopo doveva naufragare in una isola della costa siberiana chiamata più tardi di Behering, e sulla quale cessava di vivere lo sfortunato comandante.

Nel momento che il Taimyr, lanciato a tutta velocità e favorito dalla corrente che sale verso il nord, passava fra le estreme punte dei due grandi continenti, a babordo delle isole Diomedee, nessuna nave e nessuna barca solcavano lo stretto, sicché potè superarlo senza essere veduto.

Appena entrato nelle acque dell’Oceano Artico, piegò verso il nord-est, come se il suo comandante avesse intenzione di cacciarsi entro la profonda e vasta baia di Kotzebue che si apre sulla costa americana, al di là del capo del Principe di Galles, ma più tardi modificava la rotta, puntando verso il capo Speranza.

Mac-Doil e Sandoè, accompagnati dal molosso che si era subito adattato a quella specie di prigionia, erano saliti presto sulla piattaforma colla speranza di scorgere qualche nave, o di incontrare qualcuno dei battelli della Compagnia Russo-Americana che esercitano il traffico delle pellicce anche su quelle alte coste, ma rimasero completamente delusi. L’oceano era affatto deserto, non essendo ancora cominciata la vera pesca dei grandi

cetacei, la sola che faccia accorrere delle navi al di là dello stretto di Behering, perché sulle coste nordamericane non vi sono che radi abitanti e nessun porto che possa offrire la speranza di fare qualche carico.

Anche i pesci mancavano, erano invece numerosi gli uccelli marini, specialmente

gli albatros. Questi volatili, che s’incontrano su tutti gli oceani e sotto tutti i climi, sono grandi volteggiatori e sono così robusti da sfidare impunemente

i venti più formidabili e non è rado vederli a qualche migliaio di chilometri dalle coste, coricandosi sull’acqua per dormire e riposare.

Sono tutti penne, poiché mentre sembrano grandissimi, il loro peso di rado supera

i dieci chilogrammi; hanno nondimeno delle ali che misurano insieme una larghezza di tre metri e mezzo.

Era un bellissimo spettacolo vedere quei grandi volatili librarsi in aria senza quasi vibrare

le ali, o mantenersi quasi immobili e lasciarsi portare dal vento, né più né meno come fanno le navi a vela.

Talvolta s’avvicinavano al battello guardando curiosamente i due cacciatori ed il cane, senza manifestare il minimo timore, poi s’innalzavano emettendo una specie di grugnito simile a quello dei porci.

Vedendo che erano così famigliari, Mac-Doil e Sandoè vollero approfittare per regalarsi degli arrosti, quantunque non ignorassero che la carne di quei volatili è piuttosto coriacea. Armatisi dei loro fucili che avevano ritrovati nella cabina, spararono alcuni colpi fortunati, facendo cadere due volatili sulla piattaforma del battello e che il molosso s’affrettò a strangolare, niente impaurito dai loro grugniti e dai loro rostri veramente formidabili. Riuscirono anche ad abbattere alcune sule, uccelli acquatici che sono abili pescatori,

e che si lasciano uccidere stupidamente ed anche prendere vivi quando si posano sulle navi, e perciò chiamati dai marinai: stupidi. Alla sera, mentre il Teymyr si trovava ad oltre sessanta miglia al nord del capo

Lisburne, in rotta pel capo del Ghiaccio, ed il sole stava per tramontare essendo già suonate le undici,1 Mac-Doil e Sandoé che erano risaliti sulla piattaforma per ammirare lo sprazzo di luce proiettato dalla lampada della gabbia di poppa, scorsero, verso la costa americana, un vivo bagliore che pareva si mantenesse galleggiante sull’acqua.

– Cosa sarà, Mac-Doil? – chiese Sandoè.

– Qualche fosforescenza marina – rispose l’ebridano, scuotendo il capo. – Mi stupisco però di vedere qui un simile fenomeno, che non ho osservato che nei mari equatoriali e tropicali.

– Che sia scoppiato invece qualche incendio?

– Vuoi che l’acqua del mare abbia preso fuoco come se fosse gin o petrolio?

In quell’istante erano saliti anche l’ingegnere ed il secondo, forse avvertiti dal timoniere, il quale dalla gabbia di prora doveva pure aver osservato quel chiarore che diventava sempre più intenso.

– Fate gettare le reti, signor Orloff – disse Nikirka, dopo d’aver guardato attentamente quella luce. – Faremo una buona pesca questa notte.

– Sono pesci? – chiese MacDoil.
nota: 1. In primavera, in quelle regioni, il sole non tramonta che verso la mezzanotte, mentre inestate non rimane sotto l’orizzonte che qualche ora.
– Un banco immenso di aringhe – rispose l’ingegnere. – Vi farò assistere ad una bella pesca.

– E quella luce, da che cosa deriva, signore?

– Da una materia grassa di quei pesci, la quale di notte diventa fosforescente, sicché tradisce la presenza di quei poveri abitanti delle acque.

– E dite che saranno molte quelle aringhe?

– Dei miliardi e le loro schiere saranno così fitte da arrestare perfino delle scialuppe.

– Per mille trichechi!… Vi sarebbe da pescare una fortuna!…

– Sì, se avessimo le reti che adoperano gli olandesi, che sono i più valenti pescatori d’aringhe.

– Saranno immense di certo.

– Cinquecento piedi e sono sostenute da gran numero di barili e di sugheri e tese inferiormente da pietre o da pezzi di piombo.

– Devono pescarne un numero straordinario, signor Nikirka.

– Certi battelli sono riusciti a prenderne centoventimila ed anche centotrentamila in due sole ore.

– Che retate!…

– Io ho conosciuto dei pescatori che sono diventati ricchi in una sola campagna di pesca – disse Orloff che era tornato sulla piattaforma, seguito da due marinai che portavano un cumulo di reti.

– Vi credo, – rispose l’ingegnere, – poiché io so che i pescatori d’un solo porto, quello di Yarmouth, che è uno dei meno popolati dell’Inghilterra, ogni anno prendono tante aringhe da ricavare dai sedici ai diciotto milioni.

– Corna di narvalo! – esclamò Sandoé. – Se lo avessi saputo prima, mi sarei arruolato fra i pescatori di aringhe invece che fra i cacciatori della Compagnia Russo-Americana.

– Devono prendere parte molte navi a quelle pesche – disse MacDoil.

– Per farvene un’idea, vi basti sapere che i vostri compatrioti della Scozia mandano ogni anno, nel Mare del Nord, quarantamila barche montate da cinquantamila pescatori e da ottantamila salatori e l’Olanda altre mille grosse navi – rispose l’ingegnere.

– Questa pesca è adunque più importante di quella delle balene.

– È la più produttiva di tutte, più ancora del merluzzo forse, e l’Olanda deve la sua ricchezza e la sua prosperità a quei modesti pesci. Senza le aringhe, chissà se quello Stato avrebbe potuto mantenersi libero e sfuggire alle rapacità degl’inglesi, degli alemanni e degli spagnoli.

– E perché, signore? – chiese Mac-Doil stupito.

– Perché furono quelle pesche che procurarono agli olandesi le somme necessarie per armare le poderose flotte che tennero in iscacco quelle delle altre nazioni.

«Fu la prima a sfruttare quei banchi immensi di pesci e per parecchi secoli n’ebbe, si può dire, il monopolio. Vi concorrevano anche i danesi, gl’inglesi, i norvegiani ed i pescatori delle città anseatiche, in piccole proporzioni.»

– Oggi però l’Olanda perde continuamente – disse Orloff.

– È vero, – rispose l’ingegnere, – e la loro pesca ha molto perduto dell’antico impulso. Nel

1858 l’Olanda non ha importato che sessantasettemila tonnellate di mille pesci; nel 1859 scemò a ventitremila, ma l’anno seguente risali ancora a circa ventisettemila ricavando da quest’ultima oltre un milione e duecentomila lire, mentre i pescatori norvegiani ne importavano quasi seicentomila tonnellate per un valore di circa dodici milioni di lire.

– Che cifre!… – esclamò Mac-Doil. – Devono aver fatto un bel guadagno quei marinai.

– Si calcola che siano toccate circa dodicimila lire ad ogni battello.

– E dove vanno a prenderle.

– Alle Orcadi ed alle Shetland in giugno e luglio ed in novembre e dicembre nel Mare del

Nord, avendo le aringhe l’abitudine di radunarsi in quei paraggi.

– E queste dove credete che vadano a raccogliersi? – chiese Sandoé, indicando i pesci emigranti che s’avvicinavano rapidamente.

– Nelle profonde baie di Baranov e del Principe dì Galles – rispose Orloff. – Se ne pescano molte in quei luoghi quantunque non si rechino colà delle vere flottiglie, ma solamente poche navi isolate. Ci siamo: attenti all’incontro!

Il battello che non era stato arrestato, toccava già lo strato immenso di materia fosforescente, il quale si estendeva per una lunghezza di parecchie miglia e per una larghezza di un chilometro, come una gigantesca lastra d’argento ondulato.

Quasi subito incontrò le prime schiere dei pesci emigranti, entrandovi in mezzo.

Tosto alla superficie del mare, che era calmo, avvenne come un ribollimento precipitoso e lo strato oleoso si spezzò in centomila luoghi.

I pesci, incontrando quell’ostacolo, balzavano in tutte le direzioni. I ranghi d’avanguardia si precipitavano confusamente sopra quelli del grosso e si vedevano contorcersi sulla superficie luminosa, mostrando una moltitudine di corpi argentei o dorati.

Vi erano milioni, anzi miliardi d’individui e le schiere erano così fitte, che Mac-Doil e Sandoé, che erano scesi sul dorso proviero del battello, immergendo le mani, li prendevano colla massima facilità.

Le reti, che erano state gettate a poppa dovevano essersi riempite subito al punto da scoppiare, poiché da quel lato si vedeva l’acqua ribollire furiosamente.

— Ce ne sono tante, – disse Mac-Doil, – che se mi gettassi in acqua non potrei nuotare se non mi facessero un po’ di posto. Che disgrazia non avere qui quindici o venti navi ed un migliaio di reti olandesi.

– Badate di non lasciarvi vincere dal desiderio di cadere in mezzo alle aringhe, poiché non risponderei delle vostre gambe – disse Orloff. – I pescicani ed altri squali voraci le seguono.

– Ci tengo troppo alle mie gambe, per lasciarle nella bocca di quei ghiottoni!

Il grande banco delle emigranti continuava a sfilare lungo i fianchi del battello e molto rapidamente, ma pareva che non avesse fine, quantunque il Teimyr si avanzasse sempre

con una velocità di quattordici nodi all’ora, fendendo rumorosamente quello splendido velo argenteo che aveva talora dei riflessi somiglianti a quelli del bronzo fuso.

Fu solamente verso le tre del mattino che potè toccare il margine estremo della superficie luminosa, per cadere in mezzo ad una numerosissima banda di pescicani.

I voraci squali seguivano accanitamente le emigranti divorando le ultime schiere e gareggiando, di giorno, cogli uccelli marini, i quali si radunano in stormi immensi sopra i poveri pesci, facendo dei vuoti considerevoli.

Ben presto tutto quello sfolgorìo si perdette verso l’ovest, in direzione dello stretto di

Behering, mentre il sole tornava ad alzarsi sopra l’orizzonte, dopo essere rimasto nascosto appena quattro ore.

Per ritirare le reti dovettero porsi all’opera anche i due cacciatori, tanto erano piene. Vi erano almeno sei od otto migliaia di pesci, gran numero dei quali furono subito salati e rinchiusi nei barili per poterli conservare a lungo.

L’indomani il Taimyr, che non aveva moderata la sua celerità, superava il capo del Ghiaccio, aspro promontorio di altezza considerevole, ancora circondato di piccoli banchi di ghiaccio che non dovevano sciogliersi completamente prima della metà di giugno e fors’anche più tardi.

Il battello fu arrestato in prossimità di un banco per far raccolta di ghiaccio destinato a conservare fresche parte delle aringhe, poi proseguì verso il capo di Barrow che è il più settentrionale di quella vasta regione sottoposta al dominio degli Stati Uniti, dopo la cessione fatta dalla Russia per la modesta somma di trentotto milioni di lire.

La costa americana appariva distintamente a meno di dieci miglia, ed era poco attraente. Era una continuazione di rupi più o meno alte, ancora coperte di neve e fiancheggiate, verso l’interno, da collinette sulle quali si scorgevano pochi gruppi di abeti e di pini neri. Tutte quelle spiagge che dallo stretto di Behering si estendono fino al 39° meridiano

che segna il confine del possedimento degli Stati Uniti, sono quasi deserte.

Solamente poche tribù di innuit, ossia di esquimesi, in continua guerra colle numerose tribù dei tanana che abitano le rive dell’Yucon, il fiume più considerevole della regione, le percorrono, vivendo per lo più dei prodotti della pesca.

I bianchi mancano assolutamente e mai hanno pensato a fondare alcuna stazione pel traffico delle pellicce, né alcuna colonia, mentre ormai si sa che anche lassù, in quei paesi gelidi, numerose sono le miniere d’oro.

Anche il mare continuava a mantenersi deserto e non si scorgeva né alcuna vela, né alcuno di quei piccoli battelli costruiti con costole di balena e coperti di pelle di foca chiamati (cabale e che sono usati dagli esquimesi.

Perfino i pesci si tenevano lontani e non se ne vedeva alcuno apparire intorno al Teimyr. Nondimeno nelle vicinanze della punta Barrow, verso le quattro pomeridiane, mentre i due cacciatori ed il secondo si trovavano sulla piattaforma fumando e chiacchierando, scorsero una massa enorme sorgere improvvisamente dall’acqua, sollevando intorno una grande ondata spumeggiante.

Dapprima credettero fosse la carena di qualche grossa nave naufragata, che tornasse a galla per qualche causa misteriosa, ma ben presto s’avvidero che si trattava invece d’un colossale cetaceo.

Non era però una balena franca, che è la specie più comune che s’incontra in quelle regioni e che fornisce colle proprie spoglie i carichi ai balenieri, bensì una di quelle chiamate balene a due pinne, che sono piuttosto rare ed un po’ diverse dalle altre.

Quel gigante della creazione era lungo dai diciotto ai diciannove metri, ed il suo peso doveva raggiungere per lo meno i sessantamila chilogrammi.

Questi mostri hanno il muso largo ed ottuso e la mascella inferiore assai più sporgente della superiore, con settecento fanoni neri, lucenti invece di essere variegati e due pinne dorsali bene sviluppate, diritte, separate l’una dall’altra e di forma triangolare. La loro pelle non è nera lucente a riflessi d’acciaio, bensì grigio-verdastra, mentre sui fianchi diventa bianco- argentea.

— Che corpaccio! – esclamò Mac-Doil, facendo un movimento istintivo per ritirarsi.

– Se viene ad urtarci ci fracassa.

— Non oserà assalirci – rispose Orloff. – Abbiamo uno sperone capace di tagliarla in due o di sfondarle il cranio.

— Tuttavia fa un certo senso che chiamerei vera paura.

— Lo credo, MacDoil.

Il colosso pareva però che non avesse ancora scorto il battello. Nuotava lestamente abbassando ed alzando la coda ed apriva la sua enorme bocca, che era larga almeno due metri e mezzo ed alta un po’ di più, assorbendo l’acqua che era forse carica di quei granchiolini minuscoli, del diametro di due millimetri, che costituiscono la così detta zuppa delle balene e che vengono chiamati boete.

Ad un tratto però s’avvide della presenza del battello. S’arrestò di colpo guardandolo coi suoi occhi piccoli ed intelligenti, lanciò in aria un getto di vapore un po’ denso ed agitò le pinne e la coda manifestando una certa inquietudine.

Parve che per un momento la curiosità la vincesse, poiché si slanciò innanzi sollevando una grande ondata, poi si fermò subito e si lasciò calare a picco, formando alla superficie una specie di vortice.

– Buon viaggio – le gridò Mac-Doil che era più soddisfatto di vederla scomparire che di osservarla più da vicino. – Con simili colossi è meglio tenersi lontani.

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