Una nave speronata

La baia di Baffin, così chiamata perché il navigatore che la scoprì credeva in buona fede che non avesse alcun sfogo verso il nord e l’ovest, è uno dei più vasti mari che s’incontrano sulle coste e fra le numerose isole dell’America settentrionale, spingendosi dal 70° all’80° parallelo.

Ad oriente bagna le coste della Groenlandia ed a occidente le Terre di Baffin, di Devon e di Lincoln, di Ellesmere e di Grinnell ultimamente scoperte, formando dovunque ampi porti, baie e canali, quasi sempre impraticabili a motivo dei ghiacci che s’incontrano numerosissimi in quel vasto bacino.

La sua scoperta non è antica come quella della baia di Hudson fatta dallo sventurato navigatore omonimo, scomparso così misteriosamente per la malvagità del suo equipaggio, poiché risale al 1654.

In quell’epoca Guglielmo Baffin che aveva già preso parte ad altre spedizioni polari con Hudson, Button, Gibbins e Bileth ed aveva fatta la campagna del 1612, 1615 e 16 con Giacomo Hall, si spingeva audacemente fra i ghiacci dello stretto di Davis e s’avanzava nella baia che ora porta il suo nome, sperando di trovare anche lui il passaggio Nord-Ovest, ma dopo una lunga navigazione fu costretto a retrocedere affermando, erroneamente, non esistere alcun passaggio.

Più tardi, Jones, Middleton ed altri inglesi ne esplorarono le coste constatando il contrario, senza però osare inoltrarsi verso l’ovest, finché Ross e Parry riuscivano a scoprire gli stretti del Principe Reggente e di Lancaster.

Quando il Taimyr, abbandonate le coste dell’isola Bylot si inoltrò nelle acque della baia, si trovò subito dinanzi ad enormi ice-bergs che navigavano verso occidente, scendendo dal canale di Smith.

Ve n’erano di tutte le dimensioni e di tutte le forme ed alcuni dovevano pesare parecchie migliaia di tonnellate. Alcuni erano aguzzi ed in forma di piramide; altri sembravano dadi giganteschi ed altri ancora veri castelli galleggianti irti di punte, di guglie, di strane torri semidiroccate, di bastioni capricciosamente merlati o di cupole bizzarre e di arcate d’una arditezza ammirabile.

I raggi del sole, illuminando quei giganti, li facevano scintillare di mille tinte.

Ve n’erano di quelli che parevano diamanti, o topazi, o smeraldi o incrostati di perle e di ametiste.

Di tratto in tratto qualche torre, o qualche guglia o qualche bastione si sfasciavano con grande fracasso, con vere detonazioni, le quali si propagavano indefinitamente fra quei colossi; oppure qualche montagna, perduto l’equilibrio in causa delle acque che erano meno fredde dell’aria e che ne rodevano le basi, strapiombava bruscamente, sollevando delle ondate enormi, le quali facevano oscillare gli altri colossi, causando altre cadute. L’ingegnere, avvertito dal timoniere della presenza di quelle barriere polari, erasi affrettato a salire sulla piattaforma in compagnia di Orloff e le esaminava attentamente col cannocchiale, onde cercare un passaggio abbastanza vasto da lasciare il passo al Taimyr, senza che questi potesse correre il pericolo di venire schiacciato o guastato.

– Ebbene, signor Nikirka – chiese il secondo, dopo alcuni minuti. – Credete che sia giunto il momento?…

– Non ancora – rispose l’ingegnere. – Dietro a queste barriere noi troveremo ancora il mare libero, poiché verso il nord non iscorgo l’iceblink.

– Credete che i grandi campi di ghiaccio siano ancora lontani?…

– Forse non lo sono tanto, ma qualche giorno passerà prima d’incontrarli. Pieghiamo verso la costa groenlandese, signor Orloff.

– Avete intenzione di seguirla?…

– Sì, finché lo potremo.

– Sperate che si spinga fin dove noi andremo?…

– Sì, io lo credo.

– Andiamo all’est, adunque.

Dopo quel breve colloquio da cui Mac-Doil, che stava sempre all’erta, non aveva potuto ricavare alcuna notizia sulla rotta misteriosa del battello, i due comandanti scesero ed il Taimyr riprese la sua corsa, cacciandosi audacemente in mezzo agli icebergs.

La sua corsa a fior d’acqua fu però di breve durata poiché le montagne di ghiaccio crescevano di numero e crollavano così frequentemente da rendere pericolosissimo il passaggio fra di loro. Per di più i canali che esistevano fra quei colossi erano ingombri di ghiacci minori, i quali tuttavia avevano tale spessore da mettere a dura prova lo sperone del battello.

L’ingegnere non volendo rallentare la velocità o perdere tempo nella ricerca d’altri passaggi, fece chiudere il boccaporto e diede il comando di scendere a quattrocentocinquanta metri per passare sotto quegli ostacoli.

Il Taimyr potè quindi proseguire liberamente la sua corsa verso le coste occidentali della Groenlandia, malgrado quelle montagne di ghiaccio che avrebbero impedito l’avanzarsi di qualsiasi nave.

Mac-Doil e Sandoè si erano messi agli sportelli in compagnia di Kalutunak, sperando di vedere dei pesci, ma l’Oceano Artico, almeno in quelle regioni, pareva molto scarso di abitanti. Erano sempre i soliti narvali, le solite foche, qualche banda di aringhe o di merluzzi. Poterono però osservare una balenottera franca nel momento in cui saliva verso la superficie per respirare o per cercare la sua zuppa di boete. Era lunga dodici o tredici metri, di colore nerastro a riflessi d’acciaio, col capo enorme, la coda conica terminante in una immensa pinna triangolare e le pinne pettorali lunghe almeno due metri.

Vedendo il battello, la balenottera si avvicinò fino a sfiorarlo colle sue pinne, credendo forse che fosse qualche compagna, e lo seguì per alcuni istanti battendo vigorosamente la coda, ma accortasi dell’errore s’affrettò ad innalzarsi, scomparendo agli sguardi attoniti dei due cacciatori e dell’esquimese.

Verso le quattro del meriggio, l’ingegnere, non scorgendo più nelle acque quei riflessi bianchi proiettati dai ghiacci e credendo di aver superata quella formidabile barriera dHce­ bergs, diede il comando di risalire a galla per rendersi conto della situazione e per accertarsi se il mare era libero.

Il Taimyr era già quasi giunto a fior d’acqua, senza rallentare la corsa, quando tutto d’un tratto, avvenne un urto così formidabile, che tutti gli uomini che lo montavano furono atterrati, mentre la mobilia si spostava o si rovesciava.

Le lastre d’acciaio del gigantesco fuso non cedettero, ma rintronarono con un fragore metallico assordante.

– Per centomila foche! – urlò Mac-Doil che era balzato lestamente in piedi.

– È scoppiata la macchina?…

– Fuggiamo! – gridò Sandoé. – Forse stiamo per saltare!

Trascinando con loro l’esquimese che pareva istupidito, si precipitarono verso la scaletta, dove s’incontrarono coll’ingegnere e con Orloff che uscivano allora dalle cabine.

– Dove andate? – chiese l’ingegnere, con voce affatto tranquilla.

– Fulmini! – rispose Sandoé. – È scoppiata la macchina, signore.

– Con vostro permesso, la macchina funziona e continuerà per un bel po’ ancora.

– Non avete sentito quell’urto, signore? – chiese Mac-Doil, stupito della calma dell’ingegnere.

– Bah!… Abbiamo urtato: ecco tutto.

– Contro chi?…

– Lo sapremo presto.

– Ma il battello è immobile, signore!

-Lo so.

In quel momento giungeva il marinaio che fino allora aveva tenuto la ruota del timone, seguito dai macchinisti.

– Ebbene? – chiese l’ingegnere, al primo.

– Si scorge una massa oscura dinanzi la prua del battello – rispose il timoniere. Il signor Nikirka aggrottò la fronte, poi riprese:

– Non è un banco?

– No, signore.

– Ne siete certo?

– Certissimo, signore.

– Funziona sempre la macchina?

– Sì, – rispose un macchinista, – ma le eliche girano senza agire.

– Ciò vuol dire che abbiamo dinanzi a noi una massa ben più enorme del

Taimyr – disse l’ingegnere. – Cosa dite, signor Orloff?…

– Forse abbiamo speronata una nave? – chiese invece il secondo.

– Ma non odo alcun grido.

– Forse una nave abbandonata o un rottame.

– La piattaforma è sommersa?

– Ad un metro di profondità.

– Macchina indietro e fate funzionare le eliche laterali in senso inverso – disse l’ingegnere, dopo qualche istante di riflessione. – Bisogna liberare lo sperone.

In quell’istante il Taimyr cominciò ad inclinarsi verso prora, mentre verso le ultime lastre che si congiungevano allo sperone, si udivano dei violenti scricchiolìi.

Orloff impallidì.

– Udite? – chiese.

– Sì – rispose l’ingegnere, che pareva inquieto.

– Signore, cosa succede? – chiese MacDoil.

– Succede che noi affondiamo assieme alla nave che abbiamo incautamente speronata.

– E non torneremo più a galla?

Il signor Nikirka alzò le spalle, dicendo:

– Non è del mio battello che mi preoccupo, ma degli uomini che forse montano quella nave e che noi, per ora, non possiamo soccorrere.

Ciò detto si recò nella gabbia di prora seguito dal secondo, mentre gli scricchiolìi aumentavano ed il battello s’inclinava come se venisse costretto a scendere nei baratri dell’Oceano Artico da un peso enorme.

Ormai non vi era da ingannarsi. Il Taimyr, nel salire alla superficie senza rallentare

la sua velocità, era andato a speronare la carena d’un veliero, forse una nave baleniera; e questa ora, empiendosi d’acqua, lo trascinava a picco non avendo potuto le eliche liberare la prora che doveva essere entrata tutta nella stiva.

Giunti nella gabbia, i due comandanti guardarono dinanzi a loro ed a tre metri di distanza videro una massa enorme, nerastra, entro la quale era penetrato non solo lo sperone, ma un quarto del gigantesco fuso.

– Sì, è una nave – esclamò l’ingegnere, il quale provò un fremito. – Quale disastro abbiamo noi commesso?…

– Ma si udrebbero delle grida, mentre nessun rumore giunge fino a noi – disse Orloff.

– Credete che sia proprio un rottame?

– Lo credo, signor Nikirka. Guardate: non si scorge nessuna ombra sulla superficie del mare, mentre a quest’ora le scialuppe dovrebbero essere state calate in acqua. E poi, quale nave baleniera oserebbe spingersi fino a queste alte latitudini?

Pensate che siamo al settantacinquesimo parallelo.

– Sarà forse qualche nave abbandonata e che le correnti o gli uragani hanno spinta fino qui? Mi dorrebbe immensamente, se io avessi causato un disastro.

– Credo, signore, che dobbiamo più preoccuparci di noi, che di questo rottame che ci trascina a fondo.

Orloff aveva ragione. Quantunque le eliche di poppa funzionassero furiosamente in senso inverso e le eliche laterali turbinassero, il battello non riusciva a liberare lo sperone, mentre la nave, che doveva essersi prontamente riempita d’acqua, affondava rapidamente trascinandolo con sé.

L’ingegnere però non sembrava preoccuparsi di quella discesa involontaria.

– Bah! Riusciremo a liberarci – disse ad Orloff. – Quando giungeremo ad una certa profondità, il Taimyr, spinto dallo sforzo delle acque che tendono a portarlo a galla, abbandonerà la funebre compagnia.

– Non si sarà guastato lo sperone?

– Non temete: è a prova di scoglio e potrebbe sfondare una corazzata senza subire la menoma avaria.

Intanto la nave affondava sempre ed in sua compagnia affondava il battello, il quale vi si era incastrato come un cuneo dentro un albero.

Dalla gabbia di prora, l’ingegnere ed il secondo potevano ormai scorgere attraverso le acque il bordo della nave e parte dell’alberatura, però pareva che l’uno e l’altra fossero in cattivissimo stato, poiché nel primo si scorgevano delle spaccature e nell’altra dei pennoni privi di manovre e semispezzati.

Nessuna scialuppa era stata scorta e nessun volto umano era stato veduto. Doveva quindi trattarsi d’una nave abbandonata e forse da molto tempo.

Il Taimyr l’aveva speronata sotto la poppa, in vicinanza del timone, un po’ a tribordo, aprendole uno squarcio immenso e fracassandole completamente l’asta, in modo da spostare gli ultimi corbetti ed il fasciame.

Cinque minuti dopo la nave ed il suo speronatore scendevano proprio a picco, ma obliquamente.

Le quattro eliche continuavano a turbinare, senza però risultato, anzi non facevano altro che imprimere al battello ed alla nave delle scosse disordinate. A prora si udivano degli scricchiolìi violenti, continui, mentre la poppa, che veniva spinta in alto dallo sforzo delle acque tendenti a condurre a galla quel grande fuso vuoto, continuava a spostarsi. Erano già discesi a quattrocento metri, quando il Taimyr si liberò bruscamente da quella carcassa che lo trascinava negli abissi, abbandonandola al suo triste destino. Allora la nave, che continuava a scendere obliquamente attraverso gli strati acquei, apparve distintamente. Un fremito d’orrore percorse le membra dei due cacciatori e dei due comandanti.

Quella nave era un bel brick di due o trecento tonnellate, coperto di neve e di ghiaccio, con un albero spezzato, i pennoni bracciati a capriccio ed ancora forniti di vele sbrandellate, colle murate sfondate e le cui scialuppe fracassate, ondeggiavano ai suoi fianchi, ancora trattenute dalle corde che le univano alle grue.

Dei cadaveri coperti di pellicce si agitavano sul suo cassero, spinti e respinti dalle acque. Qualcuno di quando in quando veniva portato in alto, dove lo si vedeva roteare per alcuni istanti su se stesso, come se avesse riacquistata la vita e poi ridiscendere ondeggiando.

Già alcuni pesci, dei delfini gladiatori, erano accorsi alla nave e vi giravano intorno, pronti a precipitarsi su quelle disgraziate vittime dei freddi polari.

– Una nave baleniera? – chiese l’ingegnere ad Orloff, con accento triste.

– Sì, signor Nikirka – rispose il secondo. – Vedo a poppa il fornello per la fusione del grasso.

– A quale nazione apparterrà?…

– Possiamo forse saperlo.

– È vero.

L’ingegnere si era avvicinato ad un portavoce che comunicava colla sala della macchina e colla gabbia del timoniere ed aveva dato alcuni comandi.

Il battello che veniva trasportato a galla allontanandosi dalla nave affondante, arrestò la sua ascensione e poco dopo tornava ad inabissarsi, descrivendo una grande curva.

La nave baleniera, che a poco a poco spariva, in pochi istanti fu raggiunta ed il Taimyr descrisse attorno ad essa un cerchio, fugando i feroci delfini gladiatori che si erano già gettati sui cadaveri.

Passando sotto la poppa, delle lettere bianche, ancora ben distinte, apparverosopra il quadro, lungo il coronamento.

– Labrador-S. Johns – lesse l’ingegnere.

– Una nave baleniera di Terranuova – disse Orloff.

– Riposate in pace – mormorò MacDoil.

Il Taimyr riprendeva la salita verso la superficie. La nave, che aveva ormai raggiunti i fondi tenebrosi, non si distingueva che come una massa confusa. Continuava a scendere obliquamente, con una ondulazione marcata, lasciandosi indietro qualche cadavere che l’acqua, essendo meno fredda, faceva staccare dalla coperta, sciogliendo il ghiaccio che ve lo teneva aderente.

A poco a poco la grande massa scomparve negli strati inferiori, mentre il Taimyr s’innalzava frettolosamente, come se avesse paura di venire attirato nei tenebrosi abissi dell’Oceano Artico.

Quando Mac-Doil udì la prora balzare sull’acqua e vide un raggio di sole scendere dalla gabbia della lampada elettrica, emise un sospirone, mentre l’ingegnere ed Orloff si guardavano a lungo.

– Chissà – mormorò il primo.

– Speriamo – rispose il secondo.

– Venite, signor Orloff.

– Vi seguo signore.

Salirono entrambi sulla piattaforma, essendo già stati aperti i boccaporti e girarono gli sguardi all’intorno.

A due o trecento metri dalla poppa galleggiavano numerosi rottami. V’erano un albero a cui erano ancora appesi dei pennoni, dei pezzi di fasciame, un battello colla chiglia in aria, poi dei barili, delle casse, degli attrezzi. Era quanto rimaneva della nave baleniera.

– Quale triste incontro – disse l’ingegnere. – Se fossi superstizioso, lo direi un funebre presagio.

– Il vostro battello è solido – rispose Orloff.

– Sì, ma anche i banchi saranno enormi.

– Abbiamo le torpedini.

– Saranno capaci di aprirci un varco sotto i banchi, che avranno uno spessore enorme?

– Ci basterà una fessura per lanciare le manichelle e provvederci d’aria.

– Lo vedremo, signor Orloff.

– Credete che siamo vicini?…

– Non sentite quest’aria freddissima?…

– Sì, la sento e ciò indica che gli ice-fields non devono essere molto lontani.

– Guardate le loro avanguardie. Ecco là dei piccoli campi che scendono dietro le montagne di ghiaccio.

– È vero, signor Nikirka. Torniamo ad inabissarci?

– Vedo un vasto canale aperto attraverso a quel banco e che mi pare si prolunghi assai. Se troveremo il passo chiuso, lo forzeremo a colpi di sperone e vi passeremo sotto.

– Andiamo ancora all’est?

– Sì, fino a che vedremo le coste della Groenlandia.

– Volete sbarcare su quelle coste?

– Sì, prima di tentare la grande traversata sottomarina, cercheremo dì provvederci di un po’ di carne fresca per tenere lontano lo scorbuto e poi, le provviste non sono mai troppe in queste regioni.

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