Pochi minuti dopo, mentre lo straniero si era accomodato su di una pelliccia d’orso, Mac- Doil e Sandoè si trovavano affacendati attorno al fornello, per far bollire un pezzo di prosciutto affumicato ed arrostire una bella lontra che avevano uccisa il giorno innanzi.
Il marinaio era pure giunto portando con sé un grande canestro ricolmo di biscotti, di
scatole di carne conservata, di acciughe, di frutta secche e di bottiglie che parevano piene di vino ed aveva steso su una cassa una tovaglia candida come se uscisse allora allora dalle mani d’una lavandaia. I due cacciatori, che avevano già sbirciate le bottiglie e
quell’apparato insolito
per loro, abituati ai magri e poco variati pasti che erano costretti a fare su quell’isola deserta, si affacendarono tanto, che un’ora dopo erano in grado di offrire una zuppa di pemmican, il prosciutto ed anche l’arrosto.
– Signor Orloff- disse Mac-Doil, con la sua più bella voce. – Vi prego di accomodarvi e di accettare quello che offre la nostra magra dispensa.
– Non credevo di trovare tanto su quest’isola deserta, ve lo giuro – rispose lo straniero, allegramente. – Vi assicuro che farò onore alla vostra cucina di cacciatori a condizione che voi facciate buon viso a queste vecchie bottiglie di vino che vengono dalla lontana Europa.
– Vi faremo onore, signore, – disse Sandoé, – e maggiormente nella nostra qualità di europei.
– Ah!… Siete europei! – esclamò Orloff. – Vi credevo americani.
– No, signore – disse Mac-Doil. – Io sono un isolano delle Ebridi ed il mio compagno delle
FarOer.
– Sì, di Osterò – aggiunse Sandoé.
– Uno scozzese ed un danese – disse lo straniero, fra un boccone e l’altro. – Sono lieto di aver trovato quasi dei compatrioti.
– Siete anche voi europei? – chiese MacDoil. Sì.
I due cacciatori speravano di sapere a quale nazione appartenesse, ma il signor Orloff continuò a mangiare senza aggiungere sillaba.
Tutti e quattro fecero molto onore al pasto, soprattutto all’arrosto di lontra che poteva gareggiare con quello d’agnello, alla carne conservata, alle frutta secche ed alle bottiglie contenenti un vino così delizioso che i due cacciatori non si ricordavano d’averne bevuto di eguale da moltissimi anni.
– Squisito – ripeteva Mac-Doil, messo in buon umore. – Nell’Alaska non se ne beve mai di così eccellente.
– Lo credo – rispondeva Orloff. – Viene dall’Europa.
– Forse di Francia?
– Più lontano ancora – rispose evasivamente lo straniero.
– Ditemi signor Orloff- disse ad un tratto Sandoé, che era diventato assai ciarliero. – Nella vostra traversata avete incontrato nessun mostro marino?…
– Un mostro marino!… – esclamò Orloff, scambiando un rapido sguardo col marinaio. – Non ho veduto nemmeno una foca.
– Non avete udito dei fischi? – chiese MacDoil.
– Nessun fragore, né alcun fischio.
– È strana!…
– E perché, signor MacDoil?
– Perché da alcuni giorni si aggira intorno all’isola un cetaceo misterioso, il quale spaventa le lontre in modo che non possiamo più catturarle.
– Le lontre?… E cosa importa a voi delle lontre?
– È vero, signor Orloff. Non vi abbiamo ancora detto che noi siamo dei cacciatori ai servigi della Compagnia delle pellicce Russo-Americana.
– Ah!… Siete dei cacciatori!… È per questo che vi ho trovato su quest’isola deserta?…
– Sì, signor Orloff.
– E raccogliete le pellicce per la Compagnia. Sì.
– Mi pare che la vostra vita sia poco brillante.
– Poco invidiabile è vero, ma bisogna vivere.
– E guadagnate molto?
– Certe annate, se la selvaggina è numerosa e la stagione propizia, possiamo intascare un migliaio di dollari netti d’ogni spesa.
– Mentre la Compagnia colle vostre pellicce ne guadagna cinque o seimila. Non vi è compenso proporzionato alle vostre fatiche ed alle vostre privazioni.
– Lo so, signor Orloff, e per mio conto avrei forse fatto meglio a trafficare in pellicce come mio padre, ma ormai sono legato alla Compagnia per un bel numero d’anni.
Il signor Orloff stette alcuni istanti silenzioso, guardando attentamente i due cacciatori, poi disse a bruciapelo:
– Se qualcuno vi offrisse una somma ragguardevole come una diecina di mille dollari, ditemi, prendereste parte ad una audace spedizione nei paesi dei ghiacci eterni?…
– Per centomila foche!… – esclamò Mac-Doil. – Chi è quest’uomo che mi offrirebbe diecimila dollari?…
– Io vorrei vederlo, – disse Sandoé, – e manderei al diavolo la Compagnia e le sue pellicce.
– Non lo so chi sia, ma ne riparleremo – disse Orloff, con un misterioso sorriso.
– Ehi, Kustoff, un’altra bottiglia.
Il marinaio invece d’una ne levò due dal paniere e le sturò, mettendone una dinanzi al padrone e l’altra dinanzi ai cacciatori.
– Riempite le vostre tazze – disse Orloff. – È gin inglese.
Poi prevenendo Mac-Doil che stava per versargli nel bicchiere, prese sollecitamente la bottiglia che gli stava dinanzi e se lo riempì, facendo altrettanto con quello del marinaio.
– Alla vostra salute – disse.
– Alla vostra, signor Orloff- risposero i due cacciatori.
Il marinaio invece di sedersi alla tavola improvvisata, si divertiva a gettare al cane dei piccoli biscotti che aveva estratti dal fondo del canestro. Dovevano essere eccellenti, poiché Kamo li sgretolava con grande avidità, raccogliendo perfino le briciole.
Mac-Doil e Sandoé intanto continuavano a chiacchierare ed a bere; parevano già molto ebbri e sbadigliavano come due orsi che non dormono da un mese.
Raccontavano al signor Orloff la storia del mostro marino, ma la loro lingua diventava grossa, s’impaperavano e chiudevano involontariamente gli occhi, mentre lo straniero taceva limitandosi a sorridere.
Anche Kamo pareva che fosse stato preso da un sonno irresistibile, poiché si era sdraiato su di una pelle d’orso e russava fragorosamente.
Ad un tratto Sandoé perdette l’equilibrio e cadde fra le braccia del taciturno marinaio che gli si era collocato dietro, come se già prevedesse quella caduta.
Mac-Doil non si era accorto di nulla e lottava col sonno che lo invadeva, ma durò poco. Le forze a poco a poco lo abbandonarono e finì, come il compagno, fra le braccia del marinaio, il quale lo depose a terra.
Il signor Orloff si era alzato.
– Il narcotico ha fatto il suo effetto – disse. – Spero che non si sveglieranno prima di ventiquattro ore e che accetteranno la loro involontaria prigionia.
Si avanzò verso la porta della capanna e scaricò in aria i due colpi della sua pistola. Poco dopo, verso la costa orientale dell’isola, si videro irrompere dal mare due
immensi zampilli d’acqua seguiti tosto da quel gorgoglìo e da quel fischio che avevano tanto inquietati i due cacciatori.
– Stanno per venire – disse Orloff al marinaio. – Andiamo ad incontrarli… Quando Mac-Doil, ancor mezzo assonnato e stordito da quella ebbrezza aperse
gli occhi, con suo grande stupore si trovò coricato in una comoda amaca, la quale subiva delle lente ondulazioni come se si trovasse sospesa nel frapponte d’una nave.
Credendo ancora di sognare o di essere ubriaco, si alzò a sedere cercando colle mani la sua pelliccia d’orso; invece trovò sotto le dita una grossa e tiepida coperta di lana.
Girò all’intorno uno sguardo meravigliato e s’accorse subito di non trovarsi più nella sua capanna.
– Dove sono? – si chiese. – Che sia ancora addormentato?… Toh!… Cos’è questo rumore!… Si direbbe che sono su di un battello a vapore o che io…
S’interruppe guardando ancora all’ingiro, colla più viva curiosità ed in preda ad una certa inquietudine.
Si trovava in una stanzetta quadrata, lunga tre metri e larga un po’ meno, alta solamente due, illuminata da una lampada racchiusa in un globo di vetro, la quale proiettava una luce leggermente azzurrognola ed intensa.
Sotto la sua amaca vi era un rotolo di pellicce, quelle che aveva seccate e salate alla capanna, le due casse contenenti le sue vesti e quelle di Sandoé e coricato su di un grosso tappeto di feltro stava Kamo, il quale continuava a russare.
Dalla parte opposta, sospesa a due anelli infissi nel soffitto, ondeggiava un’altra amaca la quale pareva che fosse occupata da un individuo, poiché lo si udiva russare.
– Per centomila trichechi! – esclamò l’ebridano, pizzicandosi furiosamente le braccia. – Sogno o sono desto?… Dove sono io?… Cos’è accaduto dopo il banchetto fatto assieme a quell’Orloff?… Che io sia diventato pazzo o che quel delizioso gin mi abbia annebbiato gli occhi in modo da vedere doppio o triplo?…
Si lasciò scivolare dall’amaca e gli parve che il pavimento risuonasse come se fosse di metallo.
Tese gli orecchi ed udì distintamente dei colpi sordi simili a quelli che producono gli stantuffi delle macchine a vapore, quantunque non sentisse quell’odore acuto che tramanda il carbon fossile, né il grasso adoperato nel lubrificare i diversi pezzi dei meccanismi. Contemporaneamente s’accorse che quel salotto subiva delle oscillazioni, da destra a sinistra.
– Ma questo è rollìo! – esclamò. – Un antico mozzo non può ingannarsi.
Si curvò sul molosso e lo scosse ruvidamente chiamandolo per nome, ma Kamo pareva che fosse stato ubriacato con quel gin traditore, poiché continuava a dormire e non accennava a svegliarsi così presto.
– Per mille balene! – esclamò Mac-Doil. – Non mi raccapezzo più e temo che quella dannata isola fosse davvero stregata… Eh! Vi è qualcuno che russa su quell’amaca e foss’anche il diavolo in persona, lo prenderò pel naso e lo costringerò a spiegarmi tutti questi misteri. S’aggrappò bruscamente all’amaca imprimendole una tale oscillazione da svegliare anche
un morto e si issò, strappando via la coperta di lana. Un grido di sorpresa e di gioia gli sfuggì.
Sandoè!.
L’afferrò pel naso stringendoglielo fortemente e gridando:
– Ehi, amico, svegliati, per mille merluzzi!…
Il danese diede segno di vita con uno sternuto fragoroso, seguito da un formidabile:
– Corna di narvalo!…
– Di narvalo o di rinoceronte, balza giù – disse Mac-Doil. – Ti giuro che ti si rizzeranno i capelli apprendendo ciò che succede qui o che ti verrà per lo meno la pelle d’oca per ventiquattro ore.
– Lo dici seriamente, MacDoil?…
– Se lo dico!… Scendi e…
Un fischio acuto che si ripercosse nella cameretta cori grande fragore, gli gelò le parole sulle labbra, seguito subito da quel noto gorgoglìo che avevano udito presso le coste dell’isola.
– Fulmini!… – urlò Sandoè.
– E lampi!… – gridò l’ebridano.
– MacDoil!… Sandoè!…
– Dove siamo noi?…
– Dove?… Dove?… Per centomila milioni di trichechi!… Noi siamo… nel ventre del mostro!…
Sandoè si era precipitato giù dall’amaca coi capelli irti ed il viso trasfigurato da un terrore inesprimibile e si era lanciato innanzi come se volesse fuggire, ma era andato ad urtare contro la parete opposta.
– Vuoi romperti il naso?… – chiese MacDoil.
– Dove siamo noi?…
– Lo so io forse?…
– Cosa è accaduto?…
– Non so dirtelo, confesso però che mi pare di aver paura.
– Dove sono quel signor Orloff ed il suo marinaio?
– Scomparsi tutti e due.
– Che fossero due diavoli?…
– Non ho mai creduto ai diavoli, però comincio a credere che lo fosse di certo quel signore… Per mille merluzzi!… Ancora il fischio!… Dove siamo noi?…
In quell’istante una porta si era bruscamente aperta ed una voce calma, tranquilla, aveva pronunciato in inglese queste strane parole:
– Noi, signor Mac-Doil, ci troviamo a duecentocinquanta miglia dallo stretto di Behering ed a dodici metri di profondità. Siete soddisfatto?…
I due cacciatori udendo quella voce si erano voltati rapidamente e si videro dinanzi un uomo di statura media, di forme robuste, dallo sguardo limpido ed ardito, d’un nero brillante, coi capelli pure neri e leggermente ricciuti, con una barba corta e divisa in due sotto il mento e colla pelle bianco-rosea. Poteva avere trentacinque come quarant’anni, ma era più probabile che ne avesse meno che di più, a giudicarlo dalla freschezza delle sue carni, quantunque fra i
capelli che gli sfuggivano sotto un berretto di pelle di lontra, si scorgesse un principio di canizie.
Indossava un vestito completo di pelle di foca, munito di cappuccio ed aveva le gambe strette da uose simili a quelle che usano i cacciatori della Compagnia della baia di Hudson. Mac-Doil gli si era lanciato incontro, esclamando con voce strozzata:
– Avete detto, signore?…
– Che ci troviamo a duecentocinquanta miglia dallo stretto di Behering – rispose lo sconosciuto, con voce tranquilla.
Ed …
– A dodici metri sotto la superficie del mare.
Sandoè, nell’udire quella risposta, si era appoggiato alla parete come se le forze gli fossero improvvisamente mancate, mentre Mac-Doil faceva due passi indietro, col più vivo terrore scolpito in viso. Diamine!… Vi era da spaventarsi!…
Trovarsi dodici metri sotto il mare voleva significare, almeno pei due cacciatori, che stavano per venire ingoiati vivi dalle onde dello stretto di Behering.
Lo sconosciuto s’accorse senza dubbio ciò che passava pel capo dei due disgraziati cacciatori, poiché disse, sorridendo:
– Non spaventatevi, Mac-Doil, e nemmeno voi, Sandoè. Sebbene navighiamo a dodici metri di profondità ed abbia dato il comando di scendere di altri cinquanta metri, non correte
alcun pericolo, vi dò la mia parola.
– Altri cinquanta metri!… – esclamò Mac-Doil. – Noi affogheremo tutti, signore!… Se voi volete andare a tenere compagnia ai pesci, accomodatevi, ma noi non ne abbiamo alcun desiderio, almeno per ora.
– Volete risalire?…
– Sì, signore.
– Sì, sì!… – esclamò Sandoè. – Mi pare di avere l’acqua alla gola e di essere già pieno come un otre che scoppia.
Lo sconosciuto s’appressò alla parete opposta, premette un bottone che i due cacciatori non avevano prima di quel momento osservato, poi disse:
– Ecco fatto: fra pochi istanti rivedrete il sole.
– Il sole!… Mac-Doil!… Io credo di diventare pazzo o di essere in preda ad uno spaventevole sogno.
– Né l’uno, né l’altro – rispose lo sconosciuto. – Seguitemi!
Aveva aperta la porta ed aveva cominciato a salire una scaletta di ferro così stretta che un uomo vi passava a stento.
Mac-Doil e Sandoé, spinti da una irresistibile curiosità, si erano lanciati dietro di lui.
Una luce limpida che non somigliava a quella che rischiarava la cameretta, scendeva a fiotti da una grande apertura che si trovava in cima alla scala: era la luce del sole.
I due cacciatori, sempre più stupiti, si precipitarono innanzi e si trovarono su di una specie di piattaforma, cinta all’intorno da una robusta cancellata di ferro, attorno alla quale venivano ad infrangersi le onde.
– Ecco il sole – disse quel misterioso personaggio, additando l’astro diurno che splendeva in un cielo senza nubi.
Mac-Doil e Sandoé mandarono due grida.
– Noi siamo… – disse il primo.
– Su di un battello sottomarino – rispose lo sconosciuto.
L’ebridano ed il suo compagno erano rimasti come istupiditi dalla sorpresa.
Appoggiati l’uno all’altro, guardavano ora la piattaforma che sporgeva dall’acqua appena un metro e che pareva formata di lastre d’acciaio coi margini incastrati l’uno dentro l’altro e
che aveva una superficie di quattro metri sì in lungo che in largo; ora il mare che era completamente deserto e le cui onde venivano a morire contro l’estremità inferiore della cancellata ed ora quello strano personaggio che colle braccia incrociate sul petto li guardava con tutta calma.
Senza dubbio si chiedevano in seguito a quali straordinari avvenimenti si trovavano,
dopo quella famosa bottiglia di gin, a bordo di quel battello sottomarino che fino allora avevano scambiato per un mostro, e così lontani dalla loro isola; e cercavano lo scopo di quel rapimento.
– A bordo d’un battello sottomarino! – esclamò ad un tratto Mac-Doil che a poco a poco si rimetteva dallo stupore. – Ma…
– Parlate – disse lo sconosciuto, vedendo che l’ebridano si era arrestato.
– Volevo chiedervi se voi siete un pirata.
– E perché?…
– Perché?… Per centomila trichechi!… Chi vi ha autorizzato a portarci via dalla nostra isola?…
Voi.
Udendo quella risposta, assolutamente inaspettata, Mac-Doil guardò Sandoè con due occhi che parevano quelli d’un vero pazzo.
– Noi!… – esclamò. – O che quel gin ci ha scombussolato il cervello o che…
– Continuate – disse lo sconosciuto. – Volete forse dire che non vi rammentate più ciò che avete detto?
– Eh, per centomila merluzzi!… La memoria l’ho ancora buona, signore!
– Non sembra, Mac-Doil, poiché io sono l’uomo che accettava i vostri servigi al prezzo di diecimila dollari.
– Fulmini!… – esclamò Sandoé.
– E lampi! – aggiunse l’ebridano.
– L’uomo dei diecimila dollari!…
– Allora sia il benvenuto!…
Lo sconosciuto sorrise, dicendo:
– Ecco che diventate ragionevoli e ne sono lieto.
– È per questo che ci avete rapiti?… – chiese l’ebridano.
– Sì, MacDoil.
– Potevate farne a meno, poiché per guadagnare tale somma, vi assicuro, signore, che vi avremmo seguiti anche in capo al mondo.
– Ma forse non su d’un battello sottomarino.
– È vero – disse Sandoé, ridendo. – Ci eravamo fissati in mente che fosse un mostro spaventevole e non so se vi avremmo seguiti.
– Vedete che Orloff aveva ragione di ubriacarvi e di somministrarvi un buon narcotico.
– Il signor Orloff?… – esclamarono i due cacciatori. – Dov’è?…
– Eccomi – rispose una voce allegra.
Orloff, che appariva in quel momento in cima alla scala, balzò agilmente sulla piattaforma.
– Spero che mi avrete perdonato il brutto tiro giuocatovi – diss’egli, stringendo la mano ai due cacciatori.
– Sì, a condizione che ci fate assaggiare ancora quel delizioso gin, senza narcotico però – disse Mac-Doil, ridendo.
– A colazione ve ne offriremo dell’altro, è vero signor Nikirka?…
– Sì – rispose colui che portava quel nome.
Poi, dopo d’aver dato uno sguardo al mare, riprese:
– Vi lascio con questi nuovi arruolati, signor Orloff.
Salutò i due cacciatori e scese nell’interno del battello mentre questo, che fino allora era rimasto immobile, si metteva in cammino lasciandosi a poppa due scie spumeggiantii e candidissime.
– Partiamo? – chiesero l’ebridano e Sandoè, aggrappandosi alla cancellata per mantenersi in equilibrio.
– Abbiamo fretta di giungere allo stretto di Behering – rispose Orloff. Mac-Doil gli si avvicinò e guardandolo fisso, riprese:
– Signor Orloff, spero che ci darete delle spiegazioni. Diecimila dollari, in fede mia, sono una bella somma e sono felice di potermeli guadagnare, ma voglio sapere almeno dove si andrà e cento altre cose.
– Sono a vostra disposizione, Mac-Doil, parlate.
– Dove andiamo noi, innanzi tutto?
– Verso il nord.
– Per quale motivo?…
– Lo ignoro io stesso. Il comandante supremo del battello è l’ingegnere Olao Nikirka ed io non sono che il suo secondo o meglio l’uomo che dirige il Teimyr dietro gli ordini che riceve.
– Non sapete dove si va?…
– Alla Terra di Bande, per ora.
– Che si vada lassù o più oltre, poco c’importa; è vero Sandoé?… Vorrei però sapere se il nostro arruolamento durerà molto.
– Sei mesi e forse meno. Se per circostanze indipendenti dalla volontà del comandante, il vostro arruolamento dovesse prolungarsi, avrete doppia paga.
– Quel signor Nikirka deve essere ben ricco per regalare migliaia di dollari.
– Potete giudicarlo da questo meraviglioso battello che gli costa non meno di centocinquantamila dollari.
– Spero che potremo visitare questo battello.
– Quando lo desiderate.
– Una domanda ancora, signor Orloff. Dite.
– Siete americano voi?
– No, finlandese come il comandante.
– Oh! Dei russi!… Un’altra cosa desidererei sapere. Era il vostro battello che si aggirava intorno alla nostra isola?…
– Sì, MacDoil.
– Per quale motivo?
– Era avvenuto un guasto nella macchina e non potevamo tornare a galla senza ripararlo.
– Siete stati voi ad illuminare l’isola? – chiese Sandoè.
– Sì: volevamo vedere quali erano gli abitanti.
– E ci avete scorti?
– Perfettamente – rispose Orloff. – Io e Nikirka eravamo sulla piattaforma muniti di ottimi cannocchiali.
– Vi eravamo necessari noi? – chiese MacDoil.
– Ci eravamo immaginati che voi foste due cacciatori della Compagnia Russo-Americana, avendovi già scorti il giorno che ci tiraste quel colpo di rampone e quelle due moschettate e, sapendo che la Compagnia non arruola che dei valenti tiratori, avevamo pensato che voi avreste potuto esserci utilissimi fra i ghiacci. Ecco il motivo per cui cercammo di avervi a bordo del Teimyr.
– Credo che abbiate avuto ragione. Ora che sappiamo che il formidabile mostro
è un battello sottomarino, non ci rincrescerà affatto di fare un viaggio verso le regioni polari in così buona compagnia, guadagnando per di più una somma ingente. È così, Sandoé?…
– Sì, MacDoil.
– Volete ora visitare il battello? – chiese Orloff.
– Siamo a vostra disposizione.
– Seguitemi, adunque.
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