Il valoroso Teymyr si trovava realmente in condizioni gravissime. Urtando colla poppa contro lo scoglio sottomarino, nel momento in cui il timoniere, per evitare l’isola apparsa
bruscamente dinanzi alla prora, aveva dato precipitosamente il comando di «macchina indietro», qualche punta rocciosa d’una resistenza incalcolabile, aveva spostata una lastra metallica, producendo probabilmente una fessura notevole.
Per colmo di sventura il timone era stato spezzato, un’elica fracassata e l’altra ridotta in così cattivo stato da non poter forse più servire, essendo stati, per la violenza dell’urto, contorti gli alberi motori.
Come il timoniere aveva detto, non vi era pericolo di affondare, essendosi il celluloide subito dilatato otturando lo strappo, ma vi era il pericolo di non poter più uscire dal battello poiché l’acqua avendo invaso il serbatoio poppiero aveva spostato il centro di gravita del battello, sommergendo parte del boccaporto.
Non vi era nemmeno il pericolo di morire asfissiati, perché rimaneva una manichella e quella bastava per rinnovare l’aria interna, tuttavia la condizione era gravissima. La burrasca che imperversava ancora al di fuori poteva spingere il fuso gigante o contro l’isolotto causa di quel disastro o contro le coste della Groenlandia ed arenarlo su qualche bassofondo, immobilizzandolo per sempre o peggio ancora, scagliarlo violentemente fra le scogliere a sfondarsi i fianchi.
I due comandanti, che erano inquietissimi malgrado il loro provato coraggio, giunti nella gabbia di prora si erano affrettati a guardare al di fuori. A quattrocento metri si scorgeva un’isola di dimensioni notevoli, la quale formava dinanzi al battello come un ampio semicerchio. Era coperta di alte rocce rivestite di nevi e di ghiacci e probabilmente disabitata.
Verso l’est si scorgevano il grande banco di ghiaccio e numerosissimi ice-bergs che le ondate facevano cappeggiare pericolosamente, e verso l’ovest, ad una distanza di sei o sette miglia, la costa di Groenlandia, altissima, dirupata ed irta di scogliere.
Il battello fortunatamente veniva spinto al largo dell’isola, in direzione del grande banco, ma vi poteva urtare contro o andare addosso a qualche ice’berg male equilibrato e farsi schiacciare.
Era tornato a galla, nondimeno tutta la poppa si trovava sommersa in causa dell’acqua che aveva invaso il serbatoio ed era rimasto inclinato sul babordo.
Perfino le gabbie si trovavano in parte immerse verso quel lato.
– La nostra situazione è grave, signor Orloff, – disse l’ingegnere, – ma non disperata. Se le pompe funzionano, possiamo riacquistare ancora l’equilibrio.
– Volete riempire il serbatoio di tribordo?
– E quelli di prora. C’immergeremo per poi tornare a galla.
– Il battello non governa più, signore.
– Ci lasceremo trasportare verso il banco e cercheremo di approdare. Abbiamo dei timoni e delle eliche di ricambio.
Lasciarono la gabbia e tornarono nella sala delle macchine, dove si erano radunati i marinai ed i cacciatori.
– Funzionano le pompe? – chiese l’ingegnere.
– Sì, signore – risposero i macchinisti.
– Allora siamo salvi. Si riempiano i serbatoi di poppa e di prora.
I marinai ed i due cacciatori, guidati da Orloff, si misero al lavoro. Tutti i buchi d’immissione furono aperti ed i serbatoi di prora e quello di tribordo si empirono rapidamente d’acqua.
Il battello, equilibrato da tutte le parti, riprese tosto la sua posizione orizzontale, conservando una inclinazione sul babordo, causata dall’acqua che era penetrata dalla squarciatura e che aveva reso pesante il celluloide del fasciame poppiero.
Le eliche laterali, che non avevano sofferto, si misero in movimento in senso contrario e spinsero il battello verso la superficie, malgrado il suo peso considerevole.
Le pompe furono rimesse in opera e ricacciarono fuori, a gran forza, prima l’acqua del serbatoio di babordo, poi degli altri tre.
Un evviva fragoroso rintronò allora nel battello.
Il fuso aveva conservato il suo equilibrio. Solamente verso poppa, a babordo, pendeva un po’, ma gli sportelli si potevano aprire senza tema che l’acqua invadesse la piattaforma. L’ingegnere, Orloff ed i due cacciatori s’affrettarono a salire.
Il Taimyr, spinto dalle onde, non si trovava che a trecento metri dal grande banco; però degli ice-bergs enormi lo circondavano, minacciando di squilibrarsi e di sfracellarlo. Ve n’erano almeno cinquanta attorno a lui ed ondeggiavano pericolosamente, urtandosi gli uni cogli altri con assordanti detonazioni.
Nello scorgere quei colossi, l’ingegnere era diventato pallido. Il battello era sfuggito ad un gravissimo pericolo per trovarsi dinanzi ad un altro forse peggiore.
Non potendo più governare, né muoversi, né evitare quei giganti del polo, poteva venire, da un istante all’altro, sventrato o schiacciato come una nocciuola.
– Siamo perduti! – esclamò involontariamente l’ingegnere. – Se non raggiungiamo il banco, periremo tutti.
– Signor Nikirka, – disse Orloff, – abbiamo il canotto.
– È vero… ma… abbandonare il mio Taimyr, ora che mi ha portato fino al polo…
– Non vi è da scegliere, signore – disse Mac-Doil. – Bisogna fuggire o nessuno rivedrà i mari d’Europa.
L’ingegnere taceva. Colle braccia incrociate sul petto, i lineamenti alterati, la
fronte cupa, lanciava sguardi corrucciati su quei colossi che sempre più si stringevano attorno al povero Taimyr. Pareva che un’aspra battaglia si combattesse, in quei supremi istanti, nel cuore dell’audace esploratore polare. Ma il pericolo incalzava e forse i minuti erano contati pel battello. Un ritardo, anche piccolo, poteva essere fatale a tutti.
– Signor Nikirka – disse Orloff che vedeva, con angoscia, avanzarsi gli ice’bergs. – Decidetevi!…
– Decidermi! – rispose l’ingegnere con voce tremula. – Il mio Taimyr è perduto!… Poi ricacciando in fondo al cuore l’emozione che gli montava alla gola, chiese:
– Quanti uomini può portare il canotto? Tre.
– Che s’imbarchino prima i cacciatori e Kalutunak. Poi volgendosi verso Mac-Doil, continuò:
– Seguitemi.
Il cacciatore si slanciò dietro di lui senza parlare. Scesero nel salotto, poi entrarono in una cabina ammobiliata con molta eleganza.
L’ingegnere aprì un cassetto d’una scrivania d’ebano ad intarsi di madreperla, prese un pacco di carte e le consegnò all’ebridano, dicendo:
– Può mancare a me il tempo di salvarmi. Ecco le mie note di bordo, una lettera che, nel caso che io ed il mio equipaggio dovessimo perderci, potrà esservi utile e quarantamila dollari. Affrettatevi: sento che l’ultima ora del Taimyr sta per scoccare. Quando risalirono sulla piattaforma, i marinai avevano lanciato in acqua un piccolo canotto che era appena capace di portare tre persone. L’esquimese e Sandoé si erano già imbarcati.
– Partite e raggiungete il banco – disse l’ingegnere. – Se vedrete il battello ancora galleggiante, manderete Kalutunak per imbarcare due altre persone.
Chissà!… Forse potremo salvarci tutti.
– Verrò io a salvarvi signore – gridò Mac-Doil. – Ohe!… Forza alle braccia!…
Il canotto si era allontanato rapidamente, seguito da Kamo che nuotava vigorosamente, latrando. L’ingegnere, Orloff ed i loro marinai erano rimasti sulla piattaforma, mentre il battello, sospinto dalle onde, errava fra gli ice’bergs come un rottame qualsiasi.
I due cacciatori e l’esquimese arrancavano con furore per giungere presto al banco e per evitare le strette dei colossi polari. Tutti e tre si sentivano invasi da sinistre inquietudini e pur remigando, voltavano di frequente il capo verso il battello.
– Forza!… Forza, amici!… – ripeteva l’ebridano.
– Il Taimyr sta per venire circondato!…
Il canotto spinto innanzi dai remi vigorosamente manovrati, filò rapido come una freccia attraverso gli ìce-bergs e potè finalmente giungere presso il margine dell’immenso campo di ghiaccio.
– Presto, salite! – gridò MacDoil.
Sandoè e Kalutunak presero le carte dell’ingegnere e s’arrampicarono sul banco mettendosi in salvo. L’ebridano stava per riafferrare i remi, quando udì echeggiare delle grida di terrore in direzione del battello.
– Gran Dio!… Cosa succede?… – esclamò.
– Mac-Doil!… – urlò Sandoè, che si copriva il viso colle mani. – Sono perduti!…
Quasi nel medesimo istante s’udì una formidabile detonazione. Due ice’bergs, perduto l’equilibrio, si erano urtati rovesciandosi sopra il battello.
Si udì uno stridore metallico, poi un cupo rimbombo, quindi uno scoppio terribile.
Le acque, spinte in alto da una forza prodigiosa, s’innalzarono in forma d’una gigantesca colonna, scagliando a destra ed a sinistra enormi massi di ghiaccio, poi ricaddero formando un’onda gigantesca la quale si rovesciò, con impeto irresistibile, contro il banco.
Il canotto, sollevato di colpo, fu scaraventato sull’ice-field e capovolto, mentre l’ebridano batteva il capo con tale violenza contro la punta di qualche hummok, da perdere i sensi.
Quando Mac-Doil rinvenne, si trovò coricato in fondo al canotto, a fianco di Kamo, il quale cercava di riscaldarlo col proprio alito, e colla testa fasciata.
Sandoè e Kalutunak, entrambi tristi, taciturni, arrancavano con sovrumana energia, uno a poppa e l’altro a prora, quasi sepolti fra un ammasso di pelli ancora bagnate, di tavole, di rottami d’ogni specie.
Pareva che la burrasca fosse cessata, poiché il canotto procedeva senza rollare, né beccheggiare, né si udivano i muggiti delle onde, né gli ululati sinistri del vento polare. L’ebridano s’alzò a sedere facendo uno sforzo, tanto era debole e portò le mani al capo indolenzito chiedendo:
– Dove sono io?…
Sandoè ritirò i remi e si volse verso di lui, sorridendogli tristamente.
– Come stai, Mac-Doil? – gli chiese.
– Provo degli acuti dolori al capo, ma… Sandoè… parlami di loro… parlami…
– Perduti – rispose l’isolano, con voce singhiozzante.
– Non si è salvato nessuno?…
– No, Mac-Doil. L’oceano ha inghiottito tutto.
Successe un lungo silenzio: i due cacciatori si guardavano cogli occhi umidi, mentre l’esquimese, non meno triste di loro, lasciava andare i remi prendendosi il capo fra le mani e Kamo mandava dei lunghi guaiti.
– Sei certo, Sandoè? – chiese finalmente l’ebridano.
– Sì, Mac-Doil. Abbiamo esplorato i ghiacci vicini un giorno intero.
– È stato sfracellato il Taimyr. Sì.
– Dai ghiacci?…
– Sì, dagli ice’bergs prima e poi da uno scoppio spaventevole.
– Da uno scoppio?… Le torpedini, Sandoè!… L’urto ha fatto scoppiare le torpedini.
– Od i cilindri dell’ossigeno.
– Quale orribile disastro!… E proprio ora, quando il mistero polare era stato svelato e stavamo per rivedere i mari d’Europa!… Povero signor Nikirka, povero Orloff!… Ed ora, dove andiamo noi?…
– Fuggiamo al sud, MacDoil.
– Dove siamo noi?…
– Chi può dirlo?… Da dodici ore arranchiamo come due galeotti.
– Da dodici ore!… Quanto sono rimasto svenuto io?…
– Trentasei ore.
– Mi ero ferito gravemente?…
– Hai riportata una contusione al capo, che poteva produrti gravi conseguenze.
– Sì – disse Mac-Doil, come parlando fra sé. – Mi ricordo vagamente di essere stato scagliato sul banco e di aver provato un acuto dolore al capo. Ma cos’era
la mia ferita in confronto alla morte di tutti quei valorosi?… Distruggersi così quel capolavoro ammirabile che ci aveva condotti fino al polo!… Spegnersi in così orribile modo le vite di quegli audaci navigatori e quando stavano per recare in Europa la notizia della grande scoperta!… Chi crederà ora a noi?… San-doé!… Sandoè!… Sono stati perduti i documenti che l’ingegnere mi aveva affidati in quel supremo istante?…
– No, Mac-Doil. Sono stati conservati gelosamente.
– Dimmi, siamo lontani dal luogo del disastro?
– Forse quaranta miglia
– Ritorniamo.
– Cosa speri di ritrovare?
– Il cadavere dell’ingegnere e quelli dei suoi compagni.
– Sono stati polverizzati tutti dall’esplosione.
– Ritorniamo, rinnoviamo le ricerche, Sandoè. No.
– Che importa a noi il tempo?… Il freddo non ci fa paura.
– Il freddo no, ma bensì la fame, MacDoil.
– La fame!…
– Sì, poiché da trentasei ore non abbiamo posto sotto i denti una briciola di pane e siamo già esausti.
– Non abbiamo viveri adunque?
– No, Mac-Doil e nemmeno i nostri fucili. Solamente Kalutunak ha potuto salvare il suo rampone, e quest’arma a cosa potrà giovare?… Fuggiamo verso il sud o seguiremo nella tomba lo sfortunato ingegnere ed i suoi compagni, seppellendo con noi la notizia della scoperta del polo boreale.
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