La carica degli jungli-kudgia

Qualche minuto dopo la piccola colonna riprendeva l’interminabile ritirata attraverso le jungle, ritirata che rassomigliava, in certo qual modo, a quella famosa compiuta attravero il Bundelkund da Tantia Topi, il celebre generalissimo degli insorti indiani del 1857, che per un anno intero, insieme alla bellissima rhani di Jhansie, tenne in iscacco ben tre corpi d’inglesi.

Gli elefanti s’avanzavano sempre prudentemente, tastando prima il fango per assicurarsi della solidità del sottosuolo e aspirando l’acqua, che trapelava dalle buche aperte dalle loro zampacce.

L’elefante-pilota, che si era di già calmato, teneva sempre la testa alta e indicava ai compagni, con dei sordi barriti, la via da tenersi.

L’istinto di quell’animale, il più grosso dei cinque, era assolutamente meraviglioso, poiché sapeva scegliere, anche di primo acchito, il posto dove poteva procedere più speditamente.

Degli assamesi non si scorgeva alcuna traccia, tuttavia Sandokan e Tremal-Naik erano più che certi che non avrebbero rinunciato all’inseguimento.

La marcia continuava, sempre lentissima, mettendo a dura prova i muscoli dei pachidermi.

Le macchie di bambù, ora altissimi ed ora invece bassi, grossi e assai spinosi, si susseguivano quasi senza interruzione, ma i banchi di fango non accennavano a terminare tanto presto. Pareva che quella jungla fosse stata un giorno il fondo di qualche immensa palude.

Corvi, bozzagri e cicogne, s’alzavano in grandi stormi all’appressarsi degli elefanti. Altre volte erano bande di superbi pavoni, volatili ritenuti sacri dagli indiani perché rappresentano, secondo le loro strane leggende, la dea Sarasvati, che protegge le nascite ed i matrimoni; oppure coppie di sâras, meglio conosciute sotto il nome di gru antigone, le più belle della famiglia, avendo le penne setacee di una splendida tinta grigio perla, e la testa che è piccola, adorna di piume rosse del più bell’effetto. Sono anche le più grosse perché raggiungono sovente l’altezza di un metro e mezzo ed al pari dei pavoni sono venerate, rappresentando l’emblema della fedeltà coniugale, e forse non a torto, perché vanno sempre appaiate.

Si scorgevano pure cani selvaggi dal pelame corto e bruno fulvo, a scappare attraverso le macchie, e qualche tcita, graziosa e piccola pantera dell’India, che si addomestica con molta facilità e che viene adoperata per la caccia degli antilopi.

Per due ore i pachidermi continuarono a lottare in mezzo ai pantani, facendo subire alle persone che li montavano delle brusche scosse; poi avendo trovato un pezzo di terreno sodo, che formava come una striscia di qualche centinaio di passi su tre o quattro metri d’altezza, tutto coperto di erbe palustri, grosse come lame di sciabole, di cui sono ghiotti tutti i pachidermi, di comune accordo, si arrestarono.

– Sono stanchi, – disse il cornac dell’elefante-pilota, volgendosi verso Sandokan. – E poi qui hanno trovato il loro pasto.

– Avrei amato meglio che continuassero fino a trovare il terreno duro.

– Non deve essere lontano, signore. Vedo all’orizzonte una linea oscura. Laggiù vi devono essere delle foreste di palas e quelle piante non si sviluppano nei terreni acquitrinosi.

D’altronde le nostre bestie non chiederanno che qualche ora di riposo.

– Approfitteremo per fare colazione, se avremo ancora viveri bastanti.

– Faremo presto a provvederci di buoni arrosti, – disse Tremal-Naik. – I volatili sono numerosi e abbiamo due buoni fucili da caccia.

– Accettato, – rispose Sandokan. – Così faremo una piccola punta verso il settentrione, per vedere se gli assamesi continuano a seguirci. –

Scesero tutti improvvisando un accampamento in mezzo alle typha elephantina, come chiamano i botanici quelle piante; ma i viveri non erano sufficienti per tante bocche. Non v’era che un mezzo sacco di biscotti e una mezza dozzina di scatole di carne conservata.

Fu quindi decisa subito una partita di caccia, anche per mettere in serbo un po’ di cibo, non essendo le jungle sempre popolate di volatili grossi come i pavoni ed i sâras.

Sandokan e Tremal-Naik si armarono di fucili a doppia canna, di fabbrica inglese, carichi di pallettoni e balzarono risolutamente in mezzo al pantano, seguìti da quattro malesi muniti di carabine e di scimitarre per scortarli.

Attraversato una specie di canale fangoso, trovarono un altro strato di terreno solido, tutto ingombro di bambù, che pareva avesse una estensione maggiore di quello dove si erano arrestati gli elefanti.

In mezzo a quelle canne giganti, dalle foglie verdi pallide, i volatili abbondavano straordinariamente. Gru, pavoni, oche, pappagalli, volteggiavano in tutti i sensi, insieme a grossi stormi di anitre bramine, senza manifestare troppa paura per la presenza di quei cacciatori.

Sandokan e Tremal-Naik non tardarono ad aprire il fuoco e siccome erano entrambi valentissimi cacciatori, in pochi minuti un buon numero di volatili furono raccolti dai quattro malesi di scorta.

Continuando a trovare terreno resistente, s’avanzarono ancora, impegnandosi in mezzo ad una pianura molto vasta, che era coperta di folti cespugli ed anche da qualche piccolo gruppo di palmizi.

– Ecco un posto che servirà magnificamente ai nostri elefanti, – disse Sandokan al bengalese. – Li faremo deviare su questo terreno, così potranno galoppare a loro agio.

– È anche un luogo propizio per fare delle grosse cacce,- aggiunse il bengalese che si era bruscamente arrestato.

– Che cos’hai veduto?

– Della selvaggina, bensì pericolosa, ma molto grossa.

– Non vedo che dei sâras volare dinanzi a noi.

– Guarda presso quella macchia, che si stende a duecento passi da noi. È ben uno jungli-kudgia quello.

– Un bufalo selvaggio, vuoi dire?

– Sì, Sandokan.

– Fra mezz’ora ti saprò dire se le sue bistecche sono veramente squisite, come ho udito affermare più volte.

– Fa’ nascondere i tuoi uomini e cambiamo le armi. Quelle bestie sono a prova di spingarda. –

Presero due carabine colle relative munizioni, diedero ordine alla scorta di cacciarsi in mezzo ad un cespuglio e si allontanarono, tenendosi curvi, onde non farsi scoprire prima di giungere a buon tiro.

Si trattava veramente d’uno di quei giganteschi bufali che, in fatto di statura, nulla hanno da perdere, nel confronto, coi bisonti dell’America settentrionale, colla testa corta, colla fronte alta e larga, armata di due corna ovali, e fortemente appiattite, curvantesi dapprima indietro per rialzarsi poi in avanti, il collo grosso e breve, il dorso gibboso ed il pelame rossiccio.

Dopo le tigri sono le bestie più pericolose che s’incontrano nelle jungle, potendo gareggiare coi formidabili rinoceronti, quantunque per mole siano inferiori a questi.

Raggiungono tuttavia sovente i tre metri, dal muso all’origine della coda, e un’altezza di un metro e ottanta centimetri, e hanno la pelle così spessa, che si adopera per fare degli scudi resistentissimi, a prova di sciabola.

Sono inoltre irascibili, coraggiosi fino alla pazzia e una volta in corsa, non s’arrestano nemmeno dinanzi ad un esercito di cacciatori. Non temono, d’altronde, né le tigri, né le pantere e non esitano ad impegnare, con quei terribili predoni, dei furiosi combattimenti.

Lo jungli-kudgia scoperto da Tremal-Naik pascolava tranquillamente lungo il margine della macchia, senza manifestare alcuna apprensione, quantunque quegli animali abbiano un udito finissimo, che li compensa largamente della loro pessima vista.

Fu appunto quella tranquillità che non fece buon effetto sul bengalese, che conosceva profondamente le abitudini di quegli animali, avendoli già cacciati per molti anni nelle Sunderbunds del Gange.

– Quella calma non mi rassicura affatto, – disse a mezza voce a Sandokan, che strisciava a qualche passo di distanza. – Non deve essere solo. Già di solito marciano a branchi e piuttosto numerosi.

– Ammazziamo quello li intanto, – disse Sandokan che non voleva rinunciare a quella grossa preda. – Dietro di noi abbiamo i malesi imboscati. A me il primo colpo. –

Lo jungli-kudgia si presentava magnificamente per un buon colpo, poiché in quel momento offriva al tiratore il suo largo petto, lasciando così indifeso il cuore.

Una detonazione secca rimbombò, facendo scappare le gru ed i pavoni, che stavano nascosti in mezzo ai bambù.

Il bisonte indiano, colpito un po’ sotto la spalla sinistra, mandò un lungo muggito, abbassò rapidamente la testa e si avventò verso il luogo ove vedeva ancora ondeggiare la nuvola di fumo.

Quella corsa furibonda non durò più di due secondi, poiché stramazzò pesantemente a meno di venti passi dal cacciatore, agitando pazzamente le zampe.

Era appena caduto, quando i cespugli s’aprirono impetuosamente, sotto un urto irresistibile e quindici o venti bufali, di statura gigantesca, irruppero attraverso la jungla, lanciati ad una carica spaventosa.

– Gambe, Sandokan! – urlò Tremal-Naik, facendo fuoco a casaccio, quantunque fosse sicuro di non arrestare quei furibondi colossi.

I due cacciatori che avevano le ali ai piedi, in pochi istanti raggiunsero i malesi, traendo i bufali nella loro corsa sfrenata; poi balzarono in mezzo al pantano, salvandosi a tempo in mezzo agli elefanti.

Alle loro grida d’allarme, tutti gli accampati, credendo a un nuovo attacco degli assamesi, erano balzati in piedi, afferrando le carabine, mentre i cornac facevano rialzare precipitosamente i pachidermi, che si erano coricati per meglio brucare le alte e durissime typha.

I bisonti, dopo essersi arrestati un momento presso i cespugli, dove poco prima si erano tenuti nascosti i malesi, sperando forse che i cacciatori si fossero imboscati là in mezzo, avevano ripresa la loro carica indiavolata, tutto abbattendo sul loro passaggio.

Parevano tanti enormi proiettili scagliati da qualche colossale pezzo di marina, tanto era il loro impeto.

I bambù, che come si sa, sono resistentissimi, cadevano falciati dai robusti zoccoli di quei demoni, come se fossero semplici giunchi.

Giunti dinanzi allo strato fangoso, s’arrestarono di colpo, piegandosi fino a terra e accavallandosi gli uni sopra gli altri.

– Per Siva! – esclamò Kammamuri, raggiungendo rapidamente i suoi padroni, che si erano messi in salvo sul loro elefante. – Altro che assamesi! Questi sono ben più pericolosi di quei poltroni!…

– Avanti, cornac! – gridò Tremal-Naik. – Se passano lo strato fangoso, assaliranno gli elefanti.

– E voialtri aprite il fuoco! – comandò Sandokan, vedendo che anche tutti i suoi uomini erano già montati.

Otto o dieci colpi di carabina rimbombarono, ma non ottennero altro effetto, che quello di rendere maggiormente furiosi gli jungli-kudgia.

Gli elefanti, aizzati dai cornac, si erano già lanciati coraggiosamente nella fanghiglia, avanzandosi frettolosamente, temendo di dover provare la robustezza e l’acutezza di quelle terribili corna.

I bisonti, vedendoli allontanarsi, anziché calmarsi si misero a muggire spaventosamente ed a spiccare salti; poi si provarono a gettarsi a loro volta nel pantano, ma accorgendosi che le loro gambe, che non avevano lo spessore di quelle degli elefanti, sprofondavano interamente, rimontarono lo strato duro, seguendo su quello i fuggiaschi.

– Che non vogliano lasciarci? – chiese Sandokan che cominciava ad inquietarsi. – Avrei desiderato meglio incontrare gli assamesi.

– Quegli animali sono testardi ed eccessivamente vendicativi – rispose Tremal-Naik. – Aspetteranno che i nostri elefanti trovino un terreno solido per darci battaglia.

– Spero che prima di allora saranno ben decimati.

– Non ci rimane altro da fare, amico.

– Non sono che a trecento metri, e le nostre carabine hanno una portata più che doppia.

– Gli è che il dondolìo degli elefanti renderà il nostro tiro molto difficile. –

Sandokan prese la carabina, si piantò per bene sulle gambe, appoggiando il petto contro l’orlo superiore della cassa, e puntò l’arma, aspettando che l’elefante pilota trovasse qualche punto su cui poggiare con minor violenza, le sue zampacce.

Trascorse qualche minuto, poi Sandokan lasciò partire il colpo, approfittando d’un istante di sosta del pachiderma.

La palla, quantunque ben diretta, andò a spezzare una delle corna del bisonte, che guidava la truppa e che era il più colossale di tutti.

L’animale si fermò un momento, sorpreso, senza dubbio, di vedersi cadere dinanzi una delle sue principali difese; poi riprese tranquillamente la marcia, come se nulla fosse avvenuto.

– Saccaroa! – esclamò Sandokan, deponendo l’arma ancora fumante, per prenderne un’altra che gli porgeva Kammamuri. – Quegli animali valgono i rinoceronti.

– Te l’ho detto, – disse Tremal-Naik.

Sandokan tornò a puntare l’arma, mirando ancora il capo-fila, essendosi promesso di abbatterlo a qualunque costo.

Due minuti dopo un altro sparo rimbombava e la palla passava oltre senza aver colpito nessuno del branco.

– Tu sprechi il piombo, – disse il bengalese.

– Ho ancora una palla.

– Confesserai almeno che si spara male, stando sul dorso d’un elefante, e che per distruggere tutto quel branco, dovremmo consumar tutte le munizioni.

– Ciò che non desidero affatto, non sapendo se gli assamesi ci seguono ancora o, se sono tornati indietro.

– Uhm! Lo dubito: sono testardi come gli jungli-kudgia. –

Riprese la carabina e per la terza volta l’alzò, aspettando il momento favorevole.

Una nuova fermata dell’elefante pilota, il quale era sprofondato nel fango fino alle ginocchia, rimanendo immobile per qualche istante, gli permise di sparare il suo ultimo colpo.

Il bisonte mandò un lunghissimo muggito, poi si fermò bruscamente abbassando la testa fino quasi al suolo, colla lingua pendente.

Tutto il branco si era fermato, guardandolo e muggendo. Aveva compreso che il capo doveva essere stato gravemente ferito.

Il colossale bisonte non accennava a muoversi. Tenera sempre la testa bassa e dalla sua bocca, assieme ad una bava sanguigna, uscivano dei rauchi muggiti, che diventavano rapidamente fiochi.

– Sta per morire! – esclamò Sandokan.

In quel momento il bisonte cadde sulle ginocchia, affondando il muso nel fango. Tentò ancora di rimettersi in piedi; le forze invece bruscamente gli mancarono e si rovesciò su un fianco.

– Pare che sia proprio morto, è vero Tremal-Naik? – disse Sandokan, tutto lieto di quel successo insperato.

– Tu hai provveduto agli sciacalli ed ai cani selvaggi una buona preda, che avrebbe servito a meraviglia anche a noi, – rispose il bengalese. – Tu tiri, come Gengis-khan lanciava le sue frecce.

– Non lo conosco, né mi occupo di sapere chi sia.

– Un meraviglioso conduttore di esercito ed un famoso arciere. –

I bisonti, dopo d’aver fiutato a più riprese il loro capo e di aver manifestata la loro rabbia con muggiti possenti, avevano ripresa la marcia, camminando quasi parallelamente agli elefanti.

Vi era da augurarsi che quel pantano si prolungasse indefinitivamente, o almeno fino alle falde delle montagne di Sadhja, ciò che era impossibile a sperarsi.

Per altre due ore gli elefanti continuarono a marciare, ostinatamente seguìti dai bisonti. Trovato un altro strato solido, che formava come un isolotto in mezzo alla fanghiglia della circonferenza di tre o quattrocento passi e coperto d’alberi di varie specie, Sandokan comandò una seconda fermata.

Era una precauzione necessaria, poiché il mezzodì era già trascorso e continuando ad avanzare, senza alcun riparo, potevano buscarsi qualche terribile colpo di sole, non meno fatale del morso dei velenosissimi cobra-capello.

D’altronde tutti avevano fame, non avendo potuto prepararsi la colazione durante la prima fermata, in causa dell’attacco furioso degli jungli-kudgia.

Il luogo non era stato scelto male, poiché un largo canale fangoso li difendeva dall’attacco di quei testardi animali; e poi su quell’isolotto assieme a parecchie palme ed a piante d’areca, si vedevano degli ham, ossia dei manghi, carichi di frutta oblunghe di tre o quattro pollici di lunghezza, che sotto la buccia dura e verdognola, contengono una polpa giallastra, d’un sapore aromatico squisitissimo e salubre se ben matura.

Il campo fu subito improvvisato alla meglio, all’ombra delle piante, poiché anche gli elefanti soffrono assai il calore; anzi tenendoli troppo esposti, corrono il pericolo di veder la loro pelle screpolarsi, formando così delle piaghe nella carne viva, che sono talvolta difficilissime a guarirsi. Gli è perciò che i loro cornac li spalmano di grasso, specialmente sulla testa.

Furono accesi parecchi fuochi e furono messi ad arrostire i volatili abbattuti da Sandokan e da Tremal-Naik.

Mentre gli arrosti rosolavano infilzati nelle bacchette di ferro delle carabine, e attentamente sorvegliati da una mezza dozzina di cuochi improvvisati, Sandokan, Surama ed il bengalese, scortati da alcuni dayachi, esploravano l’isolotto, per far raccolta di frutta, non avendo ormai più nemmeno un biscotto.

La loro gita non fu inutile, poiché oltre a molli manghi, furono tanto fortunati da scoprire un paio di mahuah, piante preziosissime, che non a torto vengono chiamate la manna delle jungle, perché danno, dopo la caduta dei fiori, che sono pure mangiabilissimi, quantunque sappiano di muschio, delle grosse frutta col mallo violaceo, contenenti delle mandorle bianche eccellenti, lattiginose, colle quali gli indiani si preparano delle focacce gustosissime, che surrogano benissimo il pane.

La colazione, abbondantissima, essendo tutti i volatili grossissimi, fu divorata in pochi minuti; poi tutti, Sandokan e Tremal-Naik eccettuati, si stesero sotto la fresca ombra delle palme, a fianco degli elefanti, i quali stavano consumando una enorme provvista di teneri rami e di foglie, non potendosi dare a loro né farina di frumento impastata, né la solita libbra di ghi per ciascuno, ossia di burro chiarificato.

I due capi, che sospettavano sempre un attacco degli assamesi, e che da veri avventurieri non sentivano bisogno di riposarsi, avevano riprese le loro armi, per sorvegliare le due rive dell’isolotto. Volevano anche assicurarsi di ciò che facevano i bisonti, che poco prima avevano veduto ancora gironzolare al di là della fanghiglia.

Percorso l’isolotto tutto all’ingiro, scorsero nuovamente gli jungli-kudgia. Si erano sdraiati al di là del canalone, brucando le dure erbe palustri che crescevano presso di loro.

Vedendo apparire i due cacciatori, in un attimo furono tutti in piedi, cogli occhi iniettati di sangue, sferzandosi rabbiosamente i fianchi colle loro lunghe code infioccate.

Muggivano ferocemente e dimenavano freneticamente le teste, come se si provassero ad avventare delle cornate.

– Qui non siamo più sul dorso degli elefanti, – disse Sandokan. – È questo il momento di decimarli. –

Accostò le mani alle labbra e mandò un lungo fischio. Subito malesi e dayachi si precipitarono verso la riva.

– Fucilatemi quelle canaglie, – disse a loro Sandokan. – È tempo di finirla con questo inseguimento che dura da troppo tempo. –

Fu una scarica terribilissima quella che partì. Su diciotto bisonti, undici caddero morti o moribondi; gli altri, vista la mala parata, si allontanarono a corsa sfrenata, mettendosi in salvo fra le moltissime macchie di bambù, che coprivano la jungla settentrionale.

I nostri fuggiaschi non scorgendo più i bisonti, fecero ritorno all’accampamento, sicuri di potersi finalmente riposare senz’essere più disturbati.

Verso le quattro pomeridiane, quando l’intenso calore cominciava a scemare, l’accampamento fu levato e gli elefanti, sempre preceduti dal pilota, riprendevano le mosse.

Mezz’ora dopo ritrovavano finalmente il terreno solido. La jungla paludosa era stata attraversata e cominciava quella secca, con distese di eterni bambù lisci e spinosi, di erbe altissime semi-bruciate dal solleone, di immensi cespugli con qualche gruppo di mindi, quei graziosi arbusti dalla corteccia bianchiccia, foglie verdi pallide e lunghi grappoli di fiori, d’un giallo delicato e dal profumo delizioso.

Era il momento di spingere i pachidermi a gran corsa, per lasciare definitivamente indietro gli assamesi, se ancora li seguivano.

Una brutta sorpresa però attendeva i fuggiaschi e si preparavano a offrirla gli implacabili bisonti.

Nessuno più pensava a quegli animali, che non si erano fatti più vedere dopo la disastrosa sconfitta, che avevano subìta sul margine della fanghiglia, quando una improvvisa agitazione si manifestò fra gli elefanti.

Il pilota pel primo si era fermato dimenando la proboscide e lanciando dei sonori barriti.

– In guardia, signori! – gridò il cornac, volgendosi verso Sandokan e Tremal-Naik, che si erano alzati scrutando le folte macchie che li circondavano.

– Noi abbiamo dimenticato gli jungli-kudgia, – disse Tremal-Naik.

– Ancora quelle canaglie! – esclamò Sandokan furioso.

– T’ho già detto che tu non li conosci.

– Questa volta li stermineremo!

– Non ci resta altro da fare, se vogliamo continuare tranquillamente la marcia. –

Sandokan alzò la voce.

– Tenetevi pronti tutti! Fuoco accelerato e mirate meglio che potete. –

Gli elefanti, malgrado i colpi d’arpione, non si muovevano e non cessavano di barrire. Si erano piantati solidamente sulle zampacce, colla proboscide ben alta, pronta a vibrare colpi vigorosi e le teste basse colle lunghe zanne tese innanzi.

Avevan fiutato il pericolo prima degli uomini e si preparavano a sostenere gagliardamente l’urto degli avversari, proteggendosi vicendevolmente i fianchi, per non farsi sventrare dalle aguzze corna di quegli indemoniati animali.

I malesi ed i dayachi, tutti appoggiati ai bordi delle casse, colle dita sui grilletti delle carabine, erano pronti ad appoggiarli e ben risoluti a difenderli.

Gli jungli-kudgia s’avvicinavano, sfondando con slancio irresistibile le macchie. Le altissime canne oscillavano in diversi punti, poi cadevano abbattute dalle corna d’acciaio dei colossi animali.

La carica, a giudicarlo dalle mosse disordinate dei bambù, doveva avvenire per diverse direzioni. Gli astuti e vendicativi animali, non si slanciavano più in una sola massa, per non cadere in gruppo come sulle rive della fanghiglia.

– Eccoli! – gridò ad un tratto il cornac.

Un bisonte, dopo d’aver sfondato con un ultimo urto una vera muraglia di bambù spinosi, comparve all’aperto e si slanciò, con impeto selvaggio, contro l’elefante pilota, colla testa bassa, per piantargli le corna in mezzo al petto.

Fu così fulmineo l’attacco, che Sandokan, Tremal-Naik, Kammamuri e anche Surama, la quale si era pure armata, essendo una buona bersagliera, non ebbero nemmeno il tempo di far fuoco.

L’elefante-pilota però vegliava attentamente. Alzò la sua possente tromba, poi quando si vide l’animale quasi fra le gambe, lo percosse furiosamente sulla groppa.

Parve un colpo di spingarda. Lo jungli-kudgia stramazzò di colpo, colla spina dorsale fracassata da quella tremenda sferzata.

S’udì quasi subito un crac, come se delle ossa si spezzassero sotto una pressione spaventevole.

Il pachiderma aveva posato ambe le zampe posteriori sul moribondo, schiacciandogli la testa.

– Bravo pilota! – gridò Tremal-Naik. – Questa sera avrai doppia razione di typha! –

Altri tre bisonti erano comparsi sbucando da diverse direzioni e caricando all’impazzata. Uno fu subito fulminato da una scarica dei malesi e dei dayachi, il secondo andò a cacciarsi fra due elefanti della retroguardia e subito schiacciato prima che avesse potuto far uso delle sue corna, ed il terzo, ferito e forse gravemente da una palla di Sandokan, voltò le spalle rientrando nelle macchie, forse per morire là dentro in pace.

Giungeva però il grosso, formato fortunatamente da cinque soli animali, gli unici superstiti della numerosa truppa.

L’accoglienza che ebbero fu tremenda. I malesi ed i dayachi che avevano avuto il tempo di ricaricare le armi, li ricevettero con un vero fuoco di fila, arrestandoli in piena corsa ed il peggio fu quando gli elefanti, aizzati dai cornac, caricarono a loro volta abbattendo con gran colpi di proboscide quelli che, quantunque gravemente feriti, tentavano ancora di rialzarsi.

– Ehi, Tremal-Naik! – gridò allegramente Sandokan. – Che questa volta la sia proprio finita?

– Vorrei sperarlo, – rispose il bengalese che non era meno lieto di quel completo successo.

– E quello che si è rifugiato nella jungla, vada a cercare altri compagni?

– Le truppe di bisonti non s’incontrano ad ogni passo e poi ogni gruppo fa da sé e non si unisce mai agli altri. Facciamo le nostre provviste, giacché la carne qui abbonda, mentre noi siamo a secco. Il filetto e le lingue di questi animali, godono fama di essere bocconi da re. –

Gli elefanti furono fatti inginocchiare e tutti scesero a terra, senza l’aiuto delle scale, correndo verso quelle enormi masse di carne.

Non fu però impresa facile spaccare quelle gobbe per trarne i filetti. I bisonti indiani, al pari di quelli americani, offrono delle resistenze incredibili anche dopo morti, per lo spessore enorme delle loro ossa che sono a prova di scure.

I malesi, dopo essersi invano affaticati, dovettero lasciare il posto a Bindar ed ai cornac più pratici di loro. Fatta un’abbondante provvista di lingue e di carne scelta, la carovana riprese la marcia, rimontando verso il settentrione con passo abbastanza celere, malgrado gli ostacoli che presentava incessantemente l’interminabile jungla.

Non fu che verso le otto della sera, nel momento in cui il sole precipitava all’orizzonte e dopo d’aver percorse ben quaranta miglia in poche ore, che Sandokan diede il segnale della fermata a breve distanza dalla riva destra del Brahmaputra, il quale piegava pure, in senso inverso, a settentrione, scendendo dall’imponente catena dell’Himalaya.

Non essendo improbabile che in quel luogo vi fossero molti animali feroci, Tremal-Naik e Kammamuri fecero improvvisare dai malesi e dai dayachi, uno stecconato di bambù, intrecciati e accendere anche, ad una certa distanza, numerosi falò; poi le tende furono rizzate per difendersi dai colpi di luna, che nell’India non sono meno pericolosi di quelli di sole, poiché dormendo col viso esposto all’astro notturno, sovente ci si sveglia ciechi affatto.

La cena fu deliziosa e, come si può ben immaginare, abbondantissima. Gustate furono specialmente le lingue dei bisonti, che erano state messe a bollire in un pentolone di rame.

I flying-fox, quei brutti vampiri notturni, dalle ali nere, che quando sono interamente spiegate, misurano insieme perfino un metro e che hanno il corpo rivestito da una folta pelliccia rossastra, e la testa che somiglia a quella della volpe, cominciavano a descrivere in aria i loro capricciosi zig-zag, quando Sandokan, Surama e Tremal-Naik, si ritirarono sotto la loro tenda, sicuri di poter passare finalmente una notte tranquilla.

Gli altri li avevano già preceduti. Solo Kammamuri e Sambigliong, con quattro dayachi, erano rimasti a guardia del campo, potendosi dare che qualche tigre, qualche pantera, si celassero nei dintorni e tentassero, quantunque i fuochi ardessero sempre, qualche colpo sugli addormentati.

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