Yanez non doveva ancora essere giunto al suo appartamento, quando le tende che servivano, come abbiamo detto, di sfondo al letto-trono, su cui si trovava ancora il rajah, s’aprirono e Teotokris comparve. Questi non era ancora completamente guarito e certo il principe non lo aspettava, poiché, nello scorgerlo, non poté frenare un gesto di sorpresa, esclamando nel medesimo tempo:
– Tu!…
– Io, Altezza, – rispose il greco.
– Perché hai lasciato il tuo letto? Codesta è un’imprudenza.
– La gente che appartiene alla mia razza, è la più solida dell’Europa, – disse, – e poi non amo infiacchirmi nel letto.
– Sicché va meglio la tua ferita?
– Fra pochi giorni non rimarrà più, sulla mia pelle, nessuna traccia.
– E perché ti sei alzato?
– Perché volevo ascoltare ciò che diceva quel mylord.
– Non sai dunque che ha vinto?
– Purtroppo, – rispose il greco coi denti stretti. – Eppure io avevo ordita bene la cosa e se perdeva, tu avresti potuto sbarazzarti per sempre di quella spia.
– Spia! – esclamò il rajah.
– Sì, quell’uomo è una spia! – ribatté il greco. – Ed io ne ho le prove.
– Tu!
– Egli era d’accordo con una principessa venuta da non so dove, la quale lo aiutava…
– Tu vuoi spaventarmi, Teotokris? – interruppe il rajah che era diventato grigiastro, e che per l’improvvisa emozione, aveva lasciato cadere sulla ricca coperta del suo letto-trono, il bicchierino di forte liquore che teneva in mano.
– No, poiché anche essendo a letto ho provveduto a tutto.
– In quale modo?
– Facendo rapire e sequestrare l’amica del mylord.
– Per tutti i cateri1 dell’India! Tu hai fatto questo?
– Sì, Altezza – rispose Teotokris.
– E dove si trova ora?
– Nel mio palazzo.
– E tu mi accerti che quella principessa sia una spia?
– E qualche cosa di più ancora posso provare.
– Continua.
– Sembra che ella ti stesse ordendo una congiura per prenderti la corona. I miei uomini e uno de’ tuoi ministri l’hanno costretta a confessare. –
Il rajah che aveva preso dallo sgabello, situato presso il trono, un altro bicchierino, lasciò cadere anche quello senza aver avuto il tempo di vuotarlo.
Un forte tremito assalì quel principe ubriacone, mentre dal suo viso trapelava uno spavento impossibile a descriversi.
– Ma io farò stritolare tutti quei traditori sotto le zampe del mio elefante carnefice! – urlò poscia con uno scatto di furore.
– Allora dovresti cominciare da mylord.
– Perché da lui?
– È l’amico intimo di quella principessa e prima che egli fosse nominato grande cacciatore, la visitava di frequente.
– Chi te l’ha detto?
– Un fakiro che elemosinava nei pressi del Palazzo della misteriosa principessa.
– E nessun’altra prova? Capirai che noi dobbiamo agire colla maggior prudenza. Il mylord può essere stato mandato qui dal viceré del Bengala, e tu sai che gli inglesi sono abituati ad approfittare anche delle più piccole occasioni, per stendere le loro mani rapaci sui principati ancora indipendenti.
– Ma quella principessa è un’indiana e non già una donna bianca.
– Ebbene la farò sfrattare dal mio stato.
– E gli altri?
– Quali altri?
– I complici. Sai che cosa credo? Che faccia parte della congiura un principe di non so quale paese, non di razza bianca però e che è quello stesso che respinse i nostri seikki, quando assalirono la pagoda sotterranea.
– E me lo dici ora, Teotokris! – gridò il re con collera. E vuotando un paio di bicchierini per prendere probabilmente un po’ d’animo, saltò o meglio si lasciò scivolare giù dal letto-trono, mettendosi a passeggiare nervosamente per la piattaforma.
Teotokris, appoggiato allo stipite della porta, lo guardava con un sorriso beffardo sulle labbra.
– E dunque? – chiese finalmente il principe, – che cosa mi consigli di fare?
– Accusare direttamente il grande cacciatore e, giacché non osi farlo schiacciare dall’elefante, metterlo sotto chiave.
– E poi?
– Eh! – fece il greco. – In carcere si possono far succedere tante cose.
– Ossia?
– Se passato un certo tempo, senza che il viceré del Bengala inoltri qualche reclamo sull’arresto del suo suddito, un po’ di veleno farà scomparire ogni cosa: carne ed ossa. –
Il rajah lo guardò con ammirazione.
– Tu sei un grande ministro, Teotokris, – disse poi. – Ah! questi europei sono meravigliosi!
– Siete deciso, Altezza?
– Ho piena fiducia di te.
– Lo accuserai direttamente?
– Sì, – rispose il rajah.
– Quando? –
Il rajah pensò qualche momento poi rispose:
– Onde meglio mascherare le cose, questa sera daremo una festa nella sala degli elefanti, e quando l’allegria sarà al colmo, chiederò conto al mio grande cacciatore delle sue relazioni colla misteriosa principessa.
Tu terrai pronti cinquanta seikki, perché quel mylord è sempre armato e non fa un passo se non ha dietro que’ sei brutti musi verdastri.
– Non vi pentirete Altezza?
– No, sono risoluto a troncare la testa a questa congiura. Ho ucciso mio fratello per avere la corona; non la cederò a stranieri finché avrò una goccia di sangue. –
Il greco aprì le tende e scomparve, mentre il principe saliva sul suo trono-letto, allungandosi sulla coperta di seta azzurra fiorita, inzuppata di whisky…
Mentre il greco preparava la perdita di Yanez, questi, che non sospettava nemmeno lontanamente quale tegola stava per cadergli sul capo, specialmente dopo la splendida riuscita della prova e le promesse del rajah, faceva tranquillamente la sua colazione chiacchierando col chitmudgar e coi suoi malesi.
Quantunque le manovre del greco lo preoccupassero non poco, egli era profondamente convinto di dare fra non molto la scalata al trono, e di offrirlo alla sua adorata Surama. Ciò che lo inquietava invece, era la mancanza di notizie da parte di Sandokan e da parte di Surama, che non aveva più riveduta, dopo la sua entrata nel palazzo reale, temendo di comprometterla.
Se avesse saputo che in quel momento ella era già prigioniera del greco! Kubang fortunatamente si guardò bene dall’avvertirlo, confidando nell’audacia della Tigre della Malesia.
Divorata coscienziosamente la eccellente colazione, fattagli preparare dal chitmudgar, si era pacificamente addormentato sull’ampio seggiolone di bambù, colla sigaretta semi-spenta fra le labbra.
I malesi non tardarono ad imitarlo dopo essersi ritirati nella loro ampia stanza che serviva a loro, in certo qual modo, di quartiere.
Era d’altronde l’ora in cui tutti si riposavano, ricchi e poveri, poiché dal mezzodì alle quattro pomeridiane, in tutte le città dell’India, ogni lavoro viene sospeso, per evitare i tremendi colpi di sole, che sono quasi sempre fortissimi, come lo sono i colpi di luna per coloro che durante la notte s’addormentano all’aperto, senza aver la precauzione di gettarsi qualche straccio sul viso. I primi quasi sempre uccidono, i secondi invece accecano o producono gonfiori alla faccia, accompagnati da malessere e da fortissime febbri.
Alle cinque il chitmudgar svegliò il portoghese portando, su un vassoio d’argento, un biglietto profumato ed una piccola scatola d’oro finamente cesellata.
– Ah! – esclamò Yanez, alzandosi. – Il rajah vuole certamente ricompensarmi dell’uccisione del rinoceronte. Se ciò gli fa piacere accettiamo pure. –
La scatoletta conteneva un altro magnifico anello con uno splendido rubino, del valore di qualche migliaio di rupie; la lettera era un invito per una festa che il rajah offriva alla sua corte nella sala degli elefanti.
– Per Giove! – esclamò nuovamente Yanez. – Il rajah comincia a diventare gentile ed apprezzare i miei servigi. Speriamo d’indurlo a poco a poco a sbarazzarsi di quel briccone di greco. Via quell’individuo, io e Sandokan non avremo da fare altro che allungare le mani e togliere, dalla testa di quell’ubriacone, la corona che gli pesa ormai troppo. –
Si mise in un dito il prezioso anello e siccome la festa doveva cominciare subito dopo la scomparsa del sole, fece un’accurata toeletta, indossando un nuovissimo vestito di flanellina bianca, molto leggero, e stivaloni lucidissimi. Alle reni cinse poi una larghissima fascia di seta a varie tinte, doppiandola in modo da poter nascondere le sue pistole ed il kriss, lasciando solo in vista la scimitarra.
– Non si sa mai quello che può succedere alla corte d’un principe indiano, – mormorò.
Anche i suoi malesi si erano vestiti a nuovo ed avevano ben pulite le loro carabine e le loro scimitarre, empiendosi le tasche e le fasce di munizioni, come se dovessero recarsi ad una partita di caccia, piuttosto che ad una festa, essendo per istinto non meno diffidenti del loro padrone.
Quando Yanez udì squillare nell’ampio cortile i baunk, che sono specie di trombette dal suono acutissimo, e rumoreggiare i grossi tamburi, lasciò l’appartamento preceduto dal chitmudgar, che si pavoneggiava in un ampio dootèe di seta gialla e seguìto dai suoi malesi.
La sala degli elefanti si trovava a pianterreno e s’apriva su uno dei quattro angoli del cortile. Era più vasta e più splendida di quella che il rajah usava pei ricevimenti, con magnifiche colonne ricche di scolture e di dorature, e anche quella non mancava d’un trono.
Era un immenso seggiolone sorretto, come quello del Gran Mogollo, da sei piedi d’oro massiccio, che si dipartivano da una foglia di palma di dimensioni enormi, di legno intagliato. Sopra la spalliera un pavone tutto di bronzo dorato, allargava la sua coda variopinta, che teneva incastrati diamanti, zaffiri e rubini d’un effetto splendido.
Il rajah vi si era già assiso, circondato dai suoi ministri e dai suoi favoriti e riceveva gli omaggi dei pezzi grossi della capitale, offrendo a tutti bicchieri di liquori.
In un angolo dell’immensa sala, su una piattaforma, coperta da un bellissimo tappeto di Persia, una trentina di suonatori soffiavano disperatamente dentro quelle lunghe trombe di rame chiamate ramsinga, o dentro le surnae che rassomigliano alle nostre chiarine, mentre altri pizzicavano le corde di seta delle sitar, che sono le chitarre indiane, o quelle dell’omerti, quello strano istrumento formato con una mezza noce di cocco, coperta per un terzo d’una pelle finissima, o quelle dei sarindàh.
Fra le otto colonne che reggevano la volta della sala, una cinquantina di can-ceni, ossia di danzatrici, tutte bellissime e sfarzosamente vestite, coi petti chiusi entro corazze di metallo dorato, coi lunghi capelli sciolti, che avevano alle estremità dei mazzolini di fiori, eseguivano la danza della ram-genye, la più graziosa di tutti i ballabili indiani.
All’estremità della sala invece altrettanti balok, ossia giovani ballerini, col corpo semi-nudo, dipinto in più luoghi e colle teste ornate di fiori e di nastri, danzavano la ram-genye, eseguendo dei passi difficilissimi, assai ammirati dai numerosissimi spettatori che erano accorsi all’invito del rajah.
Yanez dopo d’aver dato un rapido sguardo a tutti quegli invitati, attraversò la sala sempre seguìto dai suoi malesi e andò a salutare il principe, il quale, in contraccambio, gli offrì una tazza di arak birmano, porgendogliela di propria mano.
Il principe sembrava molto di buon umore, forse anche perché era ormai molto alticcio; però aveva negli sguardi un certo lampo falso che non sfuggì al portoghese, che era un osservatore profondo. Non vedendo però fra i ministri il greco, si rassicurò alquanto e dopo aver vuotata la tazza, andò a sedersi su uno dei divani, che giravano tutto intorno alla sala.
Le danze si seguivano alle danze, ora accompagnate dal bin, dal sitar e da altri istrumenti a corda, come usano gli indiani ed ora dal tobla, dall’hula e dal sarindàh, come usano invece i mussulmani dell’India centrale e settentrionale.
Le can-ceni ed i balok facevano meraviglie, dando prova d’una resistenza incredibile.
Di quando in quando una turba di servi, splendidamente vestiti, che reggevano degli immensi vassoi d’argento o d’oro, irrompevano nella sala, offrendo agli invitati pasticcini, gelati, bibite di varie specie, o delle pipe già cariche di eccellente tabacco, o scatole piene di betel.
Già la danza durava da un paio d’ore quando, con sorpresa di tutti, si vide regnare una improvvisa agitazione sulla piattaforma del trono.
I ministri che fino allora erano sempre stati seduti presso il trono, bevendo e fumando, si erano alzati discorrendo animatamente fra di loro e gesticolando, mentre il rajah era balzato giù dal trono, facendo dei gesti che parevano di collera.
Ufficiali salivano e scendevano dalla piattaforma, come per ricevere e dare ordini.
– Che cosa può essere successo? – si chiese Yanez a cui non era sfuggito quel tramestìo. – Che sia scoppiata qualche rivoluzione in qualche parte del regno? –
Si era appena fatta quella domanda quando vide il rajah lasciare la piattaforma e scomparire dietro una tenda, subito seguìto da uno dei suoi ministri. Quasi nel medesimo tempo un ufficiale della guardia si diresse verso il divano ch’egli occupava.
Yanez vedendolo accostarsi, provò una stretta al cuore. Gli era balenato subito il sospetto che Sandokan avesse tentato qualcuno dei suoi audaci colpi di testa e che gli fosse toccata qualche disgrazia.
– Mylord, – disse l’ufficiale, fermandoglisi dinanzi e curvandosi, onde i vicini non potessero udirlo. – Il rajah desidera parlarti.
– Che cosa è avvenuto?
– Lo ignoro: so solo che mi ha detto di condurti senza indugio da lui.
– Ti seguo – rispose Yanez forzandosi a mostrarsi tranquillo.
I malesi che stavano appoggiati alla parete, vedendo il loro padrone alzarsi, si erano staccati per seguirlo, ma l’ufficiale fu pronto a dire:
– Il rajah desidera parlare al suo grande cacciatore senza testimoni, perciò voi dovete rimanere qui. È l’ordine che ho ricevuto.
– Rimanete pure, – disse Yanez volgendosi verso i malesi.
Fece colla mano un gesto che voleva dire:
– Tenetevi pronti a tutto. –
Poi seguì l’ufficiale, mentre le danze continuavano animatissime e gl’istrumenti musicali facevano echeggiare di allegre melodie l’ampia sala degli elefanti.
Uscirono da una delle due parti che si aprivano ai due lati del trono, e Yanez si trovò in una saletta ammobigliata con molto gusto, con divani, specchi e lampadari bellissimi. Il rajah era là, seduto su una poltrona di bambù, appoggiata contro una tenda, che doveva nascondere di certo qualche porta.
Non aveva con sé che un ministro e due ufficiali della sua guardia.
Yanez comprese di primo acchito, dall’espressione alterata del viso, che il rajah non era più di buon umore.
– Che cosa desiderate, Altezza, da me? – chiese Yanez fermandosi a due passi dal principe. – Vi è qualche altra caccia da organizzare?
– Forse, mylord – rispose bruscamente il rajah; – ma dubito molto che si dia l’incarico a te, questa volta.
– Perché, Altezza?
– Perché potresti essere tu la selvaggina. –
Yanez con uno sforzo prodigioso trattenne un sussulto, poi guardando bene in viso il principe gli chiese freddamente:
– Volete scherzare, Altezza, o guastare la festa?
– Né l’una, né l’altra cosa.
– Allora spiegatevi meglio. –
Il rajah s’alzò e facendo un passo innanzi, gli chiese a bruciapelo:
– Chi è quella principessa indiana? –
Per la seconda volta il portoghese fu costretto a fare un nuovo e più terribile sforzo, per mantenersi calmo e non tradirsi.
– Di quale principessa intendete parlare, Altezza? – domandò mentre impallidiva a vista d’occhio.
– Di quella che ha il suo palazzo dinanzi la vecchia pagoda di Tabri.
– Ah! – fece Yanez tentando di sorridere. – Chi è stato quell’imbecille che vi ha detto che quella è una principessa?
– Non importa che te lo dica, mylord.
La conosci tu?
– Da molto tempo.
– Chi è?
– Una bellissima indiana, che io ho scoperta nel Mysore, e che m’accompagna sempre nei miei viaggi, perché ella mi ama ed io l’amo. Siete ora soddisfatto, Altezza?
– No, – rispose seccamente il principe.
– Che cosa desiderate di sapere ancora?
– Sapere quale motivo ti ha spinto a venire nel mio regno.
– Ve l’ho già detto: la passione per le grosse cacce.
– In tale caso non si conducono tanti uomini.
– Non ne ho che sei.
– E quelli che occupavano il tempio sotterraneo e che mi sono sfuggiti di mano? –
Yanez, malgrado il suo straordinario coraggio, si sentì vacillare.
– Quali? – chiese dopo un breve silenzio. – Io non so di quali uomini vogliate parlare.
– Non li conosci tu?
– Non so chi siano, né per quale motivo si siano rifugiati in quella pagoda.
– È strano che la tua donna non te n’abbia mai parlato.
– Chi? – chiese Yanez con impeto.
– Quella che chiamano la principessa.
– Quella fanciulla conoscere quegli uomini! Chi v’ha narrato ciò, Altezza? È una infamia codesta!
– L’ha confessato ella stessa. –
Yanez portò ambo le mani alla fascia dove teneva nascoste le pistole e guardò ferocemente il principe.
Una bella collera, a poco a poco, lo invadeva. Aveva capito perfino troppo e si sentiva mancare il terreno sotto i piedi.
– Altezza! – disse con voce minacciosa, – che cosa avete fatto di quella fanciulla?
– L’abbiamo fatta rapire.
– Miserabili! – tuonò Yanez con accento terribile. – Chi vi ha dato il permesso? –
Il rajah che aveva preso un animo insolito per l’eccitamento dei liquori poco prima tracannati, rispose prontamente:
– Da quando un principe, che regna assoluto, deve chiedere dei permessi agli stranieri, mylord?
– Io vi ho reso dei servigi.
– Ed io ti ho pagato.
– Un uomo come me non si compera, né con diecimila, né con cento mila rupie, m’avete capito, Altezza? –
Si strappò dalle dita i due anelli e li gettò con disprezzo a terra dicendo:
– Ecco che cosa ne faccio io dei vostri regali. Fateli raccogliere dai vostri servi. –
Il rajah un po’ atterrito da quello scoppio d’ira e da quell’atto, rimase silenzioso, limitandosi ad aggrottare la fronte.
– Altezza, – rispose Yanez con rabbia concentrata, – voi avete agito non come un principe, bensì come un malandrino. Ricordatevi però che io sono un suddito inglese, che sono per di più un mylord, che la mia donna è sotto la protezione del governo inglese, e che alle frontiere del Bengala vi sono truppe sufficienti per invadere il vostro stato e conquistarlo.
– Tu mi hai offeso, mylord, – rispose il rajah con collera.
– Non me ne importa. Rendimi quella fanciulla o io…
– Che cosa oseresti fare?
– Non ti terrò più in conto di un principe.
– Ed io ti risponderò invitandoti a deporre le armi.
– Io! – gridò Yanez balzando indietro.
– Tu, mylord, devi averne sotto la tua fascia, – disse il rajah.
– Un inglese quando si trova in paesi ancora barbari, non lascia mai le sue pistole.
– Allora sarò costretto a fartele togliere colla violenza. –
Yanez incrociò le braccia sul petto e guardandolo fisso con tono di sfida:
– Provatevi e vedrete che cosa succederà qui… –
Il rajah, visibilmente spaventato dall’audacia del portoghese, era rimasto silenzioso, volgendo gli occhi ora verso l’una ed ora verso l’altra delle sue guardie, come per chiedere una pronta protezione.
Il suo ministro, che tremava come se avesse avuta la febbre, aveva battuto prudentemente la ritirata verso una delle due porte della sala degli elefanti.
– Dunque? – chiese Yanez vedendo che il principe non si decideva a riprendere la parola.
– Mylord, – disse finalmente il rajah riprendendo un po’ di coraggio, – ti dimentichi che ho qui più di duecento seikki, pronti a dare il loro sangue per me?
– Lanciatemeli addosso: io sono qui ad aspettarli.
– Allora deponi le armi.
– Mai!
– Finiamola! – gridò il rajah esasperato. – Ufficiali, disarmate quest’uomo!
– Ah! è così che tu tratti il tuo grande cacciatore? – gridò Yanez.
In tre salti attraversò la stanza e si precipitò nella sala tuonando:
– A me, malesi!… –
Aveva estratte le pistole e le aveva puntate verso la porta, pronto a fulminare i due ufficiali della guardia, se lo avessero seguìto.
I malesi, udendo la voce del loro capo e vedendolo precipitare fra le danzatrici e gli spettatori colle armi in pugno, balzarono innanzi come tigri, armando precipitosamente le carabine e puntandole verso la folla.
Un immenso grido di terrore echeggiò nella vasta sala.
– Via tutti! – gridò Yanez, – o comando il fuoco! –
Le danzatrici, i suonatori e gli spettatori, che erano inermi e che ormai sapevano quanto fosse audace il grande cacciatore, si rovesciarono confusamente verso la porta, che metteva nel cortile d’onore, pigiandosi e gareggiando accanitamente per giungere prima all’aperto. Urlavano tutti in preda ad un vivissimo spavento, credendo in buona fede che la scorta del grande cacciatore, si preparasse a far fuoco dietro le loro spalle.
Yanez approfittò di quella confusione per chiudere le due piccole porte di bronzo massiccio, che mettevano nelle vicine stanze ed a sprangarle, onde impedire ai seikki d’irrompere nella sala.
Quando gli ultimi spettatori, dopo essersi schiacciati presso l’uscita, riuscirono a loro volta a mettersi in salvo nel cortile, i malesi chiusero con gran fracasso anche quella porta, che era pure di bronzo, e così spessa da sfidare il fuoco d’un pezzo d’artiglieria.
– Ora – disse Yanez, – prepariamoci a vendere cara la pelle, amici.
Sappiate che tutto è stato scoperto, che Surama è stata rapita, e che non si sa nulla di Sandokan.
Non ci resta che di morire, ma noi vecchie tigri di Mompracem, non abbiamo paura della morte. Avete molte munizioni?
– Quattrocento colpi – rispose Burni.
– Peccato che Kubang non sia ritornato a tempo. Vi sarebbe una carabina di più.
Come mai non si è più fatto vivo?
– Capitano, che sia stato assassinato? – disse uno dei cinque malesi.
– Può darsi – rispose Yanez. – Vendicheremo anche lui. Burni, tu pel momento prenderai il posto di Kubang.
– Va bene, capitano. –
In quell’istante, ad una delle due porte che comunicavano colle stanze, si udì echeggiare un colpo sonoro che parve prodotto dall’urto d’una mazza di metallo, seguìto subito da una voce imperiosa che gridava:
– Aprite, ordine del rajah! –
Yanez che stava dirigendosi già verso il portone di bronzo, immaginandosi che l’attacco più vigoroso sarebbe stato tentato da quella parte, tornò prontamente indietro, gridando a sua volta:
– Va’ a dire a S. A. che il suo grande cacciatore non ha pel momento alcun desiderio di ricevere i suoi ordini.
– Se non obbedisci, mylord, farò abbattere le porte.
– Ma dietro le porte troverai degli uomini pronti a tenerti testa, perché tutti noi siamo risoluti a vendere carissima la nostra pelle.
– Rifiuti, mylord?
– Assolutamente.
– È la tua ultima parola?
– Sì, l’ultima – rispose Yanez.
La voce non si fece più udire.
Yanez s’accostò alla porta di bronzo che metteva sul cortile e si mise in ascolto.
Al di fuori si udiva un brusio di voci, come se molti uomini si fossero radunati dinanzi alla porta.
– Saranno i seikki del rajah, – mormorò. – Per Giove! La faccenda minaccia di diventare seria! Non poter avvertire Sandokan!
Come finirà tutto ciò? Non potremo resistere indefinitamente, e questa porta, per quanto robusta, finirà per cadere. –
Ad un tratto trasalì!
Aveva udito un barrito spaventevole, come quello d’un elefante in furore, rimbombare a breve distanza dalla porta.
– Ah per Giove! Io non avevo pensato a questo! – esclamò. – A me, malesi! –
I cinque uomini si ripiegarono rapidamente verso il centro della sala.
– Che cosa dobbiamo fare, capitano Yanez? – chiese Burni.
– Prendere tutti questi divani, queste sedie ed innalzare una barricata dietro la grande porta di bronzo. –
Non aveva ancora terminato di parlare che già i malesi erano al lavoro. Bastarono pochi minuti a quegli uomini infaticabili, per elevare dietro alla porta una barricata imponente, più per intralciare il passo all’elefante che per arrestarlo. Yanez però era sicuro di abbatterlo a colpi di carabina, prima che potesse scagliarsi attraverso la sala.
– Dietro a tutti questi divani, ci difenderemo a meraviglia, – disse ai malesi. – Rimanga un uomo solo a guardia delle due porticine. L’attacco si farà qui per ora. –
In quell’istante un altro e più formidabile barrito si fece udite al di fuori, seguìto da alcune grida. Erano i cornac che eccitavano l’animale a dare addosso alla porta.
– Tutti intorno a me! – comandò Yanez. – Qualunque cosa accada, non lasciate la barricata, o morrete schiacciati dalle porte di bronzo. –
Un rombo metallico fece tremare perfino le pareti della vasta sala e oscillare spaventosamente le massicce porte di bronzo.
L’elefante aveva dato il primo cozzo colle parti deretane.
– Che forza prodigiosa hanno questi pachidermi! – mormorò Yanez. – Sette od otto di questi colpi ed il varco sarà aperto. –
Trascorse mezzo minuto d’angosciosa aspettativa per gli assediati, poi un altro urto fu dato alla porta, la quale oscillò dalla base alla cima. Parve che fosse scoppiata qualche grossa granata, o che gli assedianti avessero dato fuoco ad un mortaio di grosso calibro.
Ne seguì un terzo, poi un quarto, sempre più violento. Al quinto le porte, svelte dai cardini, piombarono con un fragore assordante addosso ai divani, schiacciandone un gran numero, ma rinforzando nel medesimo tempo colla loro massa, la barricata.
– Amici! – gridò Yanez, che era già preparato a quella caduta – prepariamoci a dare a questi indiani una lezione che faccia epoca. –
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