Quella notte nessuno certamente dormì tranquillo in Sadhja.
Il tumburà, quell’enorme e splendido tamburo, ricco di dorature e di pitture, di nastri e di ciuffi di penne di pavone, che gli indiani adoperano solo nelle grandi circostanze, non cessò un solo istante di rullare fragorosamente sulla piazza della cittadella.
Da tutti i villaggi installati sulle chine, o sulle cime delle vicine montagne o nelle profonde gole, si rispondeva a colpi d’hula, altri tamburi, di dimensioni inferiori al tumburà, ma che tuttavia si odono egualmente ad incredibili distanze, o si rispondeva con acuti suoni di trombe di rame e con scariche di fucile.
I prodi montanari della frontiera birmana, avvertiti dall’incessante rullare del tumburà, che qualche grave avvenimento stava per accadere, accorrevano da tutte le parti, in grossi drappelli ed in pieno assetto di guerra: scudi di pelle di bisonte o di rinoceronte, lance, carabine, pistoloni, scimitarre e tarwar affilatissimi.
Forse supponevano che qualche esercito birmano, avesse varcata la frontiera, minacciando la capitale del loro minuscolo stato, avvenimento già parecchie altre volte accaduto.
Certo nessuno s’immaginava che Surama, la figlia del loro adoratissimo capo, che per tanti anni avevano pianto, fosse la causa di tutto quel trambusto.
Quando l’indomani, poco dopo l’alba, Sandokan, Tremal-Naik e Surama entrarono in Sadhja, guidati da Bindar e seguìti dai loro malesi e dayachi, uno spettacolo bellissimo s’offerse ai loro occhi.
Sulla vasta piazza della cittadella, più di mille e cinquecento montanari, che indossavano i pittoreschi costumi dei kaltani, con larghi calzoni variopinti, alta fascia rossa piena d’armi da fuoco e da taglio, casacche con alamari gialli o azzurri ed immensi turbanti, stavano schierati in bell’ordine divisi per compagnia, coi capi dei villaggi alla testa, che avevano per unico distintivo un mazzo di penne di sâras ondeggiante sulle loro fronti.
Khampur che per l’occasione montava un bellissimo cavallo bardato all’orientale, con una lunga gualdrappa rossa a guarnizioni d’oro, appena vide giungere Surama coi suoi protettori, sguainò la sua scimitarra, e l’agitò in alto gridando con voce tuonante:
– Salutate la figlia di Mahur, il vostro defunto signore. Ella viene a ricevere l’omaggio dei suoi fedeli montanari. –
Un grand’urlo, che parve il rombo d’una valanga e che si propagò attraverso le montagne e le vallate, seguì quell’ordine.
– Salute alla rhani di Sadhja! Salute! –
Poi millecinquecento carabine fecero fuoco contemporaneamente in alto, facendo tremare le muraglie mal solide delle case.
– Salute ai miei fedeli montanari! – gridò Surama quando l’eco delle montagne e delle vallate non ripeté più la scarica.
Khampur si avanzò verso Sandokan, che riconosceva ormai come il capo della spedizione, e dopo essere sceso da cavallo gli disse:
– Siamo pronti a muovere alla conquista di Gauhati. Non hai che da scegliere i mille uomini che ti occorrono, sahib.
Ti prometto che essi ti seguiranno anche fino sulle sponde del golfo del Bengala, se tu lo desidererai.
– Scegli tu i migliori; li conosci meglio di me.
– Come vuoi, sahib.
– Sono pronte le barche?
– Sono già due ore che la flottiglia aspetta.
– Hai imbarcati i falconetti?
– Tutti.
– Andiamo a vedere, intanto che tu scegli i tuoi guerrieri. Guidaci, Bindar.
– Eccomi, padrone – rispose il giovane indiano.
Mentre Khampur sceglieva i montanari che dovevano prendere parte alla pericolosa spedizione, Sandokan, Tremal-Naik e Surama, seguìti dai malesi e dai dayachi, scendevano verso il fiume, il quale scorreva, con grande fracasso, fra due immensi muraglioni di granito, alti più di trecento metri e nei quali gli abitanti avevano scavato delle comode gradinate.
Sulla riva, solidamente ancorati, si trovava una ventina di legni, fra bangle e poluar, di cinquanta od ottanta tonnellate di portata, costruiti un po’ rozzamente, ma che pure non dovevano essere cattivi galleggianti.
– Basteranno, – disse Sandokan, dopo aver dato una rapida occhiata alla flottiglia. – Ogni barca può contenere comodamente una cinquantina di persone sotto-coperta.
– Perché sotto-coperta? – chiese Tremal-Naik.
– Noi dovremo figurare, fino a Gauhati, come onesti trafficanti che vanno a vendere le loro merci nel Bengala, – rispose Sandokan. – Voglio giungere alla capitale incognito e senza destare sospetti.
Se il rajah o meglio il greco, sapessero qualche cosa dei nostri progetti, radunerebbero di certo tutte le truppe che si trovano nell’Assam e questo non deve avvenire.
Il nostro colpo di mano deve essere fulmineo.
Caduto il rajah, più nessuno si occuperà certo di accorrere in sua difesa ed il popolo accetterà, senz’altro, il fatto compiuto ed acclamerà la sua bella e giovane rhani.
È così che si fa la politica nel tuo paese, è vero?
– Tu eri destinato a diventare un grand’uomo di stato, – rispose Tremal-Naik.
– È quello che mi diceva anche Yanez, – rispose Sandokan ridendo.
I primi drappelli di montanari giungevano in quel momento preceduti dai loro rispettivi capi.
Sandokan diede ai suoi uomini le disposizioni per l’imbarco.
Si prese, innanzi a tutto, il più grosso poluar della flottiglia, che era stato armato con sei falconetti e che poteva servire benissimo come nave ammiraglia, specialmente se montata dai malesi, abili marinai e formidabili artiglieri, imbarcando Surama, Tremal-Naik e Kammamuri, oltre i prigionieri.
Occorse non meno di un’ora prima che i mille montanari si fossero imbarcati e accomodati alla meglio sotto i ponti, non dovendo mostrarsi che sotto le mura della capitale del rajah, onde non destare degli allarmi, che avrebbero potuto produrre delle conseguenze incalcolabili.
Alle sette del mattino la flottiglia salpava le ancore, scendendo il Brahmaputra a gruppi di tre o quattro legni, misti fra bangle e poluar, essendo solamente questi armati di falconetti.
Il primo giorno di navigazione fu senza incidenti. Soli pochi legnetti furono incontrati, che salivano la corrente, portando agli abitanti delle montagne dei carichi di riso. Anche il secondo fu senza allarmi.
Nessuno aveva fatto caso a quel numero, un po’ insolito di navigli, non essendo il Brahmaputra troppo frequentato, quantunque sia una delle più grandi arterie fluviali dell’India settentrionale.
Avendo i malesi, i dayachi ed i barcaiuoli di Khampur, arrancato vigorosamente tutto il giorno, ed essendo stati molto favoriti dalla corrente che scorreva più rapida e dal vento che soffiava deciso da levante, alla sera giungevano di fronte all’imboccatura del canale che conduceva nella palude dei coccodrilli.
– Dobbiamo fermarci nel nostro vecchio rifugio per qualche giorno, – disse Sandokan a Tremal-Naik. – È assolutamente necessario che ci assicuriamo innanzi a tutto l’aiuto dei seikki e di avere notizie di Yanez, prima di piombare su Gauhati.
– E se vi è qualche legno del rajah nella palude?
– Lo caleremo a fondo dopo d’averlo abbordato, – rispose risolutamente la Tigre della Malesia.
Poi alzando la voce gridò:
– Ehi, Kammamuri! Da’ ordine ai nostri uomini d’imboccare il canale. –
Il poluar che marciava sempre alla testa della flottiglia, cambiò subito rotta e si cacciò entro il passo, seguìto subito da tutti gli altri legni, che avevano già ricevuto l’ordine di regolarsi sempre sulle mosse della così detta nave ammiraglia.
Come già Sandokan aveva previsto, nessun legno del rajah stazionava nella palude.
I seikki, cacciati dal fuoco che aveva già divorato interamente la jungla di Benar, disperando ormai di ritrovare i loro avversari, dovevano aver fatto ritorno a Gauhati, sicché la flottiglia dei montanari poté gettare indisturbata le sue ancore all’estremità della palude, presso una riva coperta di folte piante sfuggite, chissà per quale caso, all’incendio spaventevole che aveva divorato la jungla su tutta la sua estensione.
Sandokan, mentre gli equipaggi preparavano la cena, fece chiamare Bindar ed il demjadar dei seikki.
– Ecco il momento di operare, – disse a loro. – Noi siamo pronti a giuocare la suprema partita.
– Ed io sono sempre ai tuoi ordini, sahib – rispose il capo della guardia. – Ho avuto il tempo di conoscerti e preferisco servire sotto di te, piuttosto che sotto il rajah ed il suo favorito, due bricconi che non hanno mai saputo far nulla di buono.
– Io spero che tu diventerai un bravo ufficiale della rhani, giacché è a quella fanciulla che spetta il trono e non a me, – rispose Sandokan. – Prendiamo gli ultimi accordi.
– Ti ascolto.
– Sei sicuro che nessuno dei tuoi guerrieri ti tradirà?
– Non avere il più lontano dubbio su di ciò. Rispondo io per tutti. Che cosa dovrò fare?
– Impadronirti innanzi a tutto del favorito del rajah.
– E poi?
– Liberare immediatamente l’uomo bianco che si trova prigioniero in uno dei sotterranei del cortile d’onore. Affiderai a lui, momentaneamente, il comando delle tue truppe.
È un uomo che vale quanto me e d’un coraggio a tutta prova. Tu farai quello che ti dirà lui.
– Dovrò rimanere nel palazzo?
– Se vedrai che gli assamesi opporranno resistenza ai miei montanari, accorrerai in nostro soccorso e li prenderai alle spalle.
Di quanti uomini, senza la tua guardia, potrà disporre il rajah?
– Di tre o quattromila, – rispose il demjadar.
– Con artiglierie?
– Due dozzine di vecchi cannoni.
– E gli uomini sono solidi?
– I cipay terranno certamente duro, sahib, ma quelli non sono che sette od ottocento.
– Non lascerò a loro il tempo di barricarsi, – disse Sandokan. – Entreremo in città di sorpresa. Ed ora a te, Bindar.
– Comanda, padrone – disse il giovane indiano che aspettava di essere interrogato.
– Tu accompagnerai il demjadar e t’informerai come meglio potrai del capitano Yanez.
– A questo ci penso io, sahib – disse il capo dei seikki. – Appena giungerò alla corte interrogherò i miei uomini.
– Ma tu come giustificherai la tua prolungata assenza? – chiese Tremal-Naik, che assisteva al colloquio insieme a Khampur ed a Surama. – Il rajah vorrà sapere dove sei stato finora.
– Ho già pensato a ciò, – rispose il demjadar. – Gli dirò che mi sono occupato di dare la caccia ai rapitori del suo primo ministro Kaksa Pharaum, e che le ricerche mi hanno condotto molto lontano da Gauhati.
Il rajah non dubiterà di quanto racconterò io.
– Allora tu, Bindar, entro domani, verrai a raggiungerci, – disse Sandokan volgendosi al giovane indiano. – Aspetto tue notizie prima di salpare le ancore.
– Prima del tramonto io sarò qui, padrone.
– Conto su di te. –
Sandokan fece mettere in acqua un piccolo gonga, che aveva fatto imbarcare sul suo poluar prima di lasciare Sadhja, e fece cenno al demjadar ed a Bindar di prendere il largo, dicendo:
– A domani notte: checché debba succedere, ricordatevi che io non ricondurrò a Sadhja questi valorosi montanari. –
I due uomini scesero nel gonga, afferrarono i remi e si allontanarono rapidamente, scomparendo ben presto fra le tenebre.
– Ora, – disse Sandokan, – possiamo cenare. –
Anche quella notte nessun molesto avvenimento turbò la calma che regnava fra gli equipaggi della flottiglia, sicché tutti poterono dormire tranquillamente, malgrado i concerti assordanti degli sciacalli ed i rauchi brontolii dei coccodrilli, i quali giravano in gran numero intorno ai legni colla speranza che qualche battelliere cadesse fra le loro mascelle spalancate.
L’indomani Sandokan, quantunque non avesse veramente dubbi sulla fedeltà del demjadar, forse pel suo istinto sospettoso, mandò un drappello di montanari, guidati da Kammamuri, verso la bocca del canale ed un altro, sotto la direzione di Sambigliong, verso la jungla, onde sorvegliassero il fiume ed i dintorni.
Quelle precauzioni furono però assolutamente inutili, poiché il primo drappello non vide che qualche bangle carica d’indaco scendere la corrente, ed il secondo non scorse, fra le ceneri della jungla, che qualche banda di cani selvaggi.
Un’ora prima del tramonto, dai montanari che vegliavano verso il fiume, fu segnalato un gonga, montato da due uomini, che si avanzava velocissimo verso il canale.
La notizia trasmessa subito a Sandokan, destò una viva ansietà fra l’equipaggio.
– Non può essere che Bindar! – esclamò la Tigre della Malesia, raggiante.
– E l’altro? – avevano chiesto ad una voce Surama e Tremal-Naik.
– Sarà qualche barcaiuolo suo amico, suppongo. –
Infatti un quarto d’ora dopo, il piccolo battello compariva, muovendo a gran forza di remi verso la nave ammiraglia.
Subito un grido di gioia sfuggì dalle labbra di Sandokan:
– Bindar e Kubang, il capo della scorta di Yanez! –
Il gonga che filava come una rondine marina, abbordò il poluar sotto la poppa ed il montanaro ed il malese in un baleno furono a bordo.
Tutti si erano affollati intorno ai due nuovi arrivati per interrogarli. Sandokan con un gesto imperioso li fece diventare muti.
– Prima a te Bindar, – disse.
– I seikki sono tutti ai tuoi ordini, – rispose il giovane assamese. – Sono bastate poche parole dal demjadar per deciderli.
– Quanti sono?
– Quattrocento.
– Aspettano il nostro attacco?
– Sì, padrone.
– E Yanez?
– È sempre prigioniero, quantunque trattato con tutti i riguardi possibili ed è stato già avvertito dal demjadar di tenersi pronto.
– Non lo hanno sfrattato?
– No.
– Ah! – esclamò Surama, con una esplosione di gioia intensa. – Il mio caro sahib bianco!
– Taci, fanciulla, – disse Sandokan ruvidamente.
– Perché non lo hanno ancora condotto alla frontiera bengalese?
– Il demjadar mi ha detto che il favorito ha mandato dei corrieri a Calcutta, per accertarsi se il capitano è veramente un mylord inglese.
– E nel caso che non lo fosse farlo ammazzare, – aggiunse Sandokan. – Sono tornati?
– No, sahib.
– Quando giungeranno, il loro padrone non regnerà più sull’Assam. Ora a te Kubang.
– Per mezzo del maggiordomo che il rajah aveva messo a disposizione del suo grande cacciatore, ho avvertito il capitano Yanez che non abbia nulla da temere.
– Non vi è pericolo che lo avvelenino?
– No, Tigre della Malesia, perché il carceriere è un parente del maggiordomo e fa prima assaggiare i cibi ad un cane.
– Surama, ti raccomando quel maggiordomo e quel suo parente – disse Sandokan volgendosi verso la giovane. – Forse quei due uomini hanno salvata la vita al tuo fidanzato.
– Non li dimenticherò, Sandokan, te lo prometto.
– Hai altro da dire, Kubang? – riprese poi la Tigre della Malesia.
– Vorrei chiederti un favore.
– Parla.
– Di vendicare i miei amici che formavano la scorta del capitano Yanez, – disse il malese con voce commossa.
Il viso di Sandokan si fece cupo.
– Non era necessario che tu lo chiedessi, amico – disse con voce stridula. – Sai che la Tigre della Malesia non perdona. Saranno tutti vendicati. –
Quindi volgendosi verso Khampur, il capo dei montanari, gli disse:
– Darai ordine a tutti gli equipaggi, che alla mezzanotte salpino le ancore e che i falconetti siano carichi e pronti a trasportarsi in città. Avremo probabilmente bisogno di un po’ di artiglieria, per controbattere quella degli assamesi, se avranno il tempo di condurla al fuoco.
– Sarai obbedito, sahib – rispose il montanaro. – Tutti i miei uomini sono impazienti di combattere e di dare una corona alla figlia di Mahur.
– Li ringrazierai da parte mia, – disse Surama, – e dirai a loro che non scorderò giammai di dover ai prodi montanari di Sadhja il mio trono.
– Vieni, Tremal-Naik – disse Sandokan. – Andiamo a preparare il nostro piano. –
A mezzanotte precisa la flottiglia salpava le ancore e coi poluar in testa, essendo i più grossi ed i meglio armati, lasciava silenziosamente la palude dei coccodrilli, scendendo il Brahmaputra su due colonne.
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