Il Washington pareva aver incontrato una buona corrente aerea. Infatti, la sua velocità, che poche ore prima era di dieci o di dodici chilometri, aumentava di minuto in minuto, allontanandolo da quella pericolosa zona delle calme del Tropico e lo trascinava non più verso le regioni ardenti dell’equatore, ma verso climi più freschi, essendo cambiata la sua direzione.
Ora filava con una rapidità di 42 chilometri all’ora, tendendo ad avvicinarsi alle coste settentrionali dell’Africa e più precisamente a quelle dell’Impero marocchino o del gran deserto del Sahara. È vero che la distanza da superare era immensa poiché, secondo l’ultimo calcolo fatto dall’ingegnere avevano raggiunto appena il 21° meridiano, ma con l’aerostato si possono superare in sole dodici ore parecchie centinaia di miglia, anche con vento moderato.
“Se continuiamo così,” disse l’ingegnere all’irlandese, che aveva finito di mangiare e che ora fumava un’eccellente sigaretta, comodamente sdraiato a prua, “vi prometto di farvi vedere ben presto terra.”
“La costa africana?”
“Non ho questa pretesa, O’Donnell, ma se il vento si mantiene stabile, noi avvisteremo domani sera o dopodomani, le prime Canarie.”
“Siamo spinti verso quelle isole?”
“Sì.”
“Bella occasione per andare a vuotare una bottiglia di eccellente Madera.”
“Beone!”
“Quanto distiamo dal continente africano?”
“Circa 1400 miglia in linea retta, ma noi seguiamo ora una linea obliqua che raddoppierà la distanza”.
“Una miseria per il nostro pallone. Per Giove e Saturno, è stata una grande e meravigliosa invenzione quella dei palloni, Mister Kelly.”
“Lo credo, O’Donnell.”
“È ai fratelli Montgolfier che si deve il merito della scoperta?”
“Spetta a loro il merito di aver fatto librare il primo pallone, ma prima di essi altri valenti uomini avevano cercato di innalzarsi nelle alte regioni dell’aria, e forse non sono riusciti per il poco sviluppo raggiunto ai loro tempi dalla fisica e dalla meccanica. Come sempre, gli italiani, che furono alla testa di ogni scoperta, figurano tra i primi ed è uno dei loro grandi uomini, Leonardo da Vinci, che espresse la possibilità di mantenersi in aria. Francesco Lana, anche questi italiano, nel 1670, in una sua memoria pubblicata nella città di Brera, proponeva di fare il vuoto entro due solidissime lastre di rame assicurando che si sarebbero innalzate. Poi vengono gli inglesi, Cavendish nel 1766 dimostra che l’aria infiammabile è più leggera dell’atmosfera; Black nel 1767 asserisce che un pallone si sarebbe innalzato. L’onore di lanciare il primo spetta a un italiano, Cavalli, nel 1782, ma la sua scoperta viene soffocata dall’entusiasmo suscitata dai fratelli Giacomo e Giuseppe Montgolfìer i quali, il 5 giugno 1783, cioè un anno dopo, lanciano la prima mongolfiera ad aria calda.”
“Ma allora il merito di aver innalzato il primo pallone spetta a Cavalli e non ai fratelli Montgolfìer?”
”Sì O’Donnell, ma gli italiani hanno sempre avuto la disgrazia di non far valere i meriti delle loro invenzioni e di lasciarsele poi rubare dagli stranieri. Ai francesi spetta invece il merito di aver dato una grande spinta alla meravigliosa scoperta, e primi fra tutti figurano Blanchard e Pilâtre. Questo Blanchard, un astuto e audace normanno, pretendeva anzi di aver trovato il modo di dirigere i palloni.”
“Ma se questo modo non si è trovato nemmeno oggi!” esclamò O’Donnell.
“Eppure Blanchard diceva di averlo trovato e per dimostrarlo intraprese la traversata della Manica. Dotato di una certa immaginazione, munisce il suo pallone di una specie di parapioggia, la sua navicella di un timone e di remi che erano mossi da una manovella di sua invenzione, e fa le prime ascensioni, le quali naturalmente lo persuadono dell’inutilità dei suoi oggetti. Nondimeno assicura di aver ottenuto dei brillanti successi e il 7 gennaio 1785 s’innalza sulla roccia di Shakespeare, sulle rive inglesi della Manica, in compagnia del dottor Jeffrey, prendendo con sé un sacco di dispacci. Quella volta però al suo parapioggia aveva sostituito una specie di ventilatore, ripromettendosi di operare meraviglie. Il vento li spinge sopra la Manica, ma per errore di equilibrio, gli aeronauti sono costretti a gettare subito dieci sacchi di zavorra, poi gettano i viveri, le tappezzerie di seta della navicella, i loro mantelli e finalmente anche quel famoso ventilatore, i remi e il timone che essi sapevano essere di nessuna utilità, e discendono a Calais, dopo aver seguito semplicemente il filo del vento. Blanchard proclamò sfrontatamente di aver scoperto il modo di dirigere gli aerostati e il pubblico ebbe il torto di credergli. Gli abitanti di Calais gli conferirono la cittadinanza, quel Consiglio municipale acquistò ad alto prezzo il pallone che si conserva tuttora nel Museo di quella città, fu eretta una colonna in memoria di quella traversata e il re di Francia assegnò al furbo aeronauta una pensione annua di mille scudi. Quella semplice traversata bastò per rendere Blanchard celebre e in seguito milionario.”
“Che cosa saremmo diventati noi se avessimo annunciato ed eseguito, a quei tempi, la traversata dell’Atlantico?”
“Uomini immortali, O’Donnell,” disse l’ingegnere ridendo.
“E invece ci prendono a cannonate!”
“L’italiano Zambeccari, lo sventurato aeronauta che morì bruciato, un uomo intelligente e ardito, tiene uno dei primi posti tra i primi navigatori dell’aria, per le sue innumerevoli ascensioni e le sue scoperte. Egli diede ai palloni e alle mongolfiere esatte proporzioni, regolando la forza ascensionale degli uni e delle altre, e modificò notevolmente il sistema adottato da Pilâtre, sostituendo alla paglia, che questi bruciava nel camino per dilatare il gas, una lampada ad olio minerale, ed eliminando il tubo conduttore, avendo constatato la sua assoluta inutilità. Poi viene Robert, poi altri italiani, i Lunardi, gli Andreoli e tanti altri, che apportarono dei miglioramenti negli aerostati e si studiarono di cercarne, ma senza soddisfacenti risultati finora, la direzione.”
“Una domanda. Mister Kelly.”
“Parlate.”
“Se si costruisse un pallone immenso, di una forza ascensionale enorme, potrebbe giungere fino alla luna?”
“Avete intenzione di andarvi a stabilire sulla luna, O’Donnell?” chiese l’ingegnere, schiattando in una fragorosa risata. “Il vostro progetto sarebbe inattuabile, amico mio, perché pare che a una certa altezza l’idrogeno si tramuti in aria calda.”
“Per quale motivo?”
“I fisici non sono ancora riusciti a spiegare questo strano fenomeno. Io so che fu lanciato un pallone dotato di una certa forza ascensionale, privo della navicella e di aeronauti ma munito di strumenti atti a precisare e a conservare le altezze che doveva toccare. Quell’aerostato raggiunse i 20.000 metri, poi cadde precipitosamente, e quando fu ripreso si trovò che conteneva aria calda.”
“Allora rinuncio al mio progetto, Mister Kelly,” disse O’Donnell.
“Vi credo, tanto più che a 20.000 metri sareste morto congelato e asfissiato, senza vedere la luna ingrandita di un millimetro.”
Mentre così discorrevano, la notte era calata e l’aerostato aveva ripreso la sua discesa con una certa rapidità, trovandosi nel mezzo di una corrente di aria piuttosto fredda, quantunque non avesse abbandonato gli ardenti paraggi del tropico. Alle nove aveva già toccato i mille metri e non accennava ad arrestarsi; alle dieci, solo seicento metri lo dividevano dall’oceano. O’Donnell, che era assai stanco si coricò a poppa, mentre l’ingegnere si sedeva a prua fumando una sigaretta, in attesa che trascorresse il suo quarto di guardia. Il vento si manteneva sempre fresco, trasportando il Washington con la velocità di sedici miglia all’ora, ma aveva subito una notevole modificazione nella direzione poiché ora soffiava verso il nord.
Mister Kelly non si inquietava però, anzi si rallegrava quantunque non si avvicinasse alle coste africane. Egli sperava di raggiungere i paralleli europei e di trovare, più tardi, una corrente che lo spingesse verso la Spaglia o il Portogallo.
Verso le undici, volendo guardare i suoi strumenti per accertarsi dell’altitudine e della velocità del vento, accese una candela. Si era appena alzato per accostarsi alla murata di babordo, alla quale erano appesi gli strumenti, quando gli parve di udire echeggiare un grido. Sorpreso al massimo grado, guardò in alto, credendo che lo avesse emesso qualche grosso uccello marino, ma non vide nulla traversare il cielo stellato: guardò giù, ma nulla distinse sulla nera superficie dell’oceano.
“È strano,” esclamò. “Che qualche nave passi sotto di noi? Una nave! Ma si vedrebbero i fanali di posizione, mentre sull’oceano non scorgo alcun punto luminoso.”
Ascoltò alcuni minuti, tendendo gli orecchi e questa volta udì distintamente una voce umana che sbalzava dall’oceano.
“O’Donnell!” gridò.
L’irlandese che aveva il sonno leggero si svegliò bruscamente.
“Tocca il quarto?” chiese.
“Non ancora, ma volevo chiedervi se avete udito un grido.”
“No, Mister Kelly: dormivo come un ghiro.”
“Udite…”
Un grido come una chiamata disperata, era giunto ai loro orecchi. Pareva che venisse dal nord, cioè nella direzione in cui l’aerostato veniva spinto.
O’Donnell benché non fosse superstizioso mormorò:
“Che sia la voce del negro?… Si dice che i morti sull’oceano riappaiono.”
“Fole di marinai,” disse l’ingegnere.
“Ma chi supponete che sia? Qualche grosso pesce forse?”
“No: era un grido umano.”
“Zitto…”
“Ancora?”
Nelle tenebre si udì distintamente una voce argentina, una voce quasi da fanciullo, a gridare: “Help!… Help!”
Kelly e l’irlandese si curvarono sul bordo della scialuppa e scrutarono avidamente la nera distesa dell’Atlantico, sperando di scorgere qualche cosa, ma l’oscurità era troppo intensa.
“È un inglese!” esclamò O’Donnell.
“O un americano,” disse l’ingegnere.
“E mi parve la voce di un fanciullo.”
“Forse è un naufrago.”
“E lo lasceremo perire, Mister Kelly?”
“Ah no!” Fece con le mani una specie di portavoce e gridò con voce tonante: “Chi siete?”
“Un naufrago,” rispose la voce di prima.
“Siete solo?”
“Solo.”
“Potete mantenervi a galla fino all’alba?”
“Monto un canotto.”
“Siete un ragazzo?”
“Un mozzo.”
“Vi salveremo.”
“Grazie, buon signore!”
“Non perdiamo tempo, O’Donnell,” disse l’ingegnere. “Il vento ci trasporta con notevole difficoltà e non bisogna scendere fuori di vista.”
“Sacrificheremo dell’altro gas?”
“È necessario, O’Donnell. Fortunatamente l’idrogeno è condensato, e non ne perderemo molto per abbassarci di cinque o di seicento metri.”
Impugnò le due funicelle che pendevano dai due fusi e con uno strappo aprì le due valvole di sfogo. Tosto in alto udirono dei leggeri scoppiettii e si sparse intorno alla navicella un acuto odore d’idrogeno.
“Spegnete la candela,” disse l’ingegnere.
O’Donnell obbedì, poi calò le due àncore a cono per rallentare la discesa e frenare il pallone. Il Washington si abbassava con un largo dondolio, descrivendo di quando in quando dei giri concentrici.
“Basta,” disse l’ingegnere, lasciando andare le due funicelle.
Le due valvole si chiusero, ma l’aerostato continuò ad abbassarsi con notevole rapidità. I due coni e la guide-rope sommersero e tosto rallentarono la sua marcia discendente, mantenendolo a sessanta metri dalla superfìcie dell’oceano.
“Vedete nulla?” chiese O’Donnell all’ingegnere che aveva puntato un canocchiale da notte.
“Sì, mi pare di scorgere una piccola striscia nera scivolare sull’oceano.”
“È lontana?”
“Tre o quattro chilometri.”
“Allora fra poco il naufrago sarà qui. Come mai un ragazzo si trova perduto in mezzo all’Atlantico e solo?”
“Lo sapremo più tardi. Udite lo sbattere dei remi?”
“Mi pare di udire un lontano rumore. Ci vedrà quel mozzo ?”
“Accendete una torcia: gli servirà da faro.”
La sottile striscia nera avanzava sempre verso il pallone e si distingueva ormai senza bisogno di cannocchiale e si udiva anche nettamente lo sbattere dei remi. In capo a mezz’ora era lontana poche centinaia di metri, su di essa si scorgeva una forma umana di piccole dimensioni, la quale manovrava i remi con grande energia.
“Coraggio, giovanotto!” gridò Mister Kelly.
“Grazie signore,” rispose il naufrago.
In pochi minuti superò la distanza, abbandonò il canotto, si fermò alcuni istanti sul primo nodo della guide-rope per riposarsi, poi si arrampicò con l’agilità di un gatto e raggiunse la navicella.
O’Donnell lo afferrò per le braccia e lo depose nella scialuppa.
“Grazie,” ripeté il naufrago.
Poi, dopo aver girato lo sguardo ardente sulle casse e sui barili che ingombravano la scialuppa, mormorò: “Da bere!… Da bere, signori!… Muoio di sete!”
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