Il primo compagno

L’ostacolo era stato vinto.

Giovanni Finfin, ormai sbarazzato da quella barriera insuperabile, concentrò la sua attenzione sulle montagne che voleva raggiungere per attraversare il fiume.

Distavano non più di dieci miglia, una semplice passeggiata per le gambe robuste del nostro giovanotto.

L’atmosfera era però così ardente, da non poter affrontare, pel momento, quella traversata. La terra, bruciata da quelle fiammate, tramandava un calore insopportabile.

Giovanni Finfin andò a dissetarsi al fiume ed a rinfrescarsi le membra, poi essendo il calore un po’ cessato, si provò a mettersi in marcia, volendo giungere alle montagne prima che tramontasse il sole.

Avventuratosi sulla pianura, egli si trovò ben presto dinanzi a dei veri stormi di voraci avvoltoi i quali si disputavano ferocemente gli avanzi degli animali.

Alcuni di quei volatili, vedendolo, osarono gettarglisi addosso per atterrarlo e divorarlo vivo, ma Finfin snudò la sciabola che aveva presa nella capanna di Mao-Kombo e con pochi colpi ben assestati ebbe facilmente ragione di quei volatili imprudenti.

La traversata della pianura si compì senza altri cattivi incontri.
Giunto presso le montagne, trovò delle enormi masse granitiche prive totalmente di vegetazione. Si affrettò a deviare verso il fiume colla speranza di trovare un guado. Invece egli si vide dinanzi ad una specie di lago, il quale veniva formato da due fiumi distinti, uno che usciva da una foresta grandissima e l’altro che scendeva dalle montagne.

Sua prima idea fu quella di raggiungere l’uno e di attraversarlo a nuoto, essendo la corrente di quel corso d’acqua poco forte, però un pensiero lo trattenne.
— Se mi getto in acqua bagnerò la polvere ed il fucile — pensò. — Bagnata la polvere sarò in mano del primo nemico che mi si presenta.
Misurò la profondità dell’acqua e s’accorse che non vi era modo di compiere la traversata senza bagnare armi e munizioni.

Desolato ed anche scoraggiato, si lasciò cadere sulla sabbia della riva ed essendo estremamente stanco non tardò ad addormentarsi d’un sonno di piombo.
Il luogo dove s’era fermato; non era del tutto arido. A breve distanza dalla riva si estendevano dei macchioni di cactus che l’incendio aveva risparmiati e un po’ più oltre torreggiava maestosamente un sicomoro di grandi dimensioni.
Al di là di quei pochi vegetali s’estendeva la pianura bruciata.
Finfin dormiva da qualche ora, quando, tutto d’un tratto, fu svegliato da alcune grida che venivano dalla parte della pianura. Aprì gli occhi mezz’assonnati ancora, ma non scoprendo nulla d’allarmante intorno a sé, si rizzò prontamente in piedi afferrando il fucile.

Scorgendo a breve distanza delle rocce si affrettò a salirle e giunto lassù, scorse uno spettacolo che dapprima gli gelò il sangue nelle vene.
Una creatura che a primo aspetto sembrava una negra, mandava delle urla disperate e davanti ad essa si rizzava un serpente boa di dimensioni straordinarie.

Il rettile mandava dei fischi stridenti; i suoi sguardi ardenti si fissavano sulla preda mentre la sua coda sferzava il suolo con grande violenza.
Quella povera creatura continuava a gridare, come se fosse impazzita dallo spavento. Ad un tratto però scorgendo a breve distanza il sicomoro, con uno slancio che sorprese assai il nostro giovanotto, superò la distanza che la separava dalla pianta e serrando fra le braccia il grosso tronco, si mise ad arrampicarsi con una celerilà meravigliosa.

– Ma non è una negra! – esclamò Finfin. – E una scimmia, un pongo della specie delle scimmie troglodite!

L’errore del nostro marinaio non aveva nulla di straordinario. Le scimmie chiamate pongo sono alte cinque piedi e qualche volta anche di più, hanno il volto quasi privo di peli, la fronte larga, lo stomaco e le mani pure privi di pelo, una coda che è appena visibile e sono le scimmie più robuste e più intelligenti di tutta la famiglia dei quadrumani.

Appena il pongo fu sul sicomoro, s’accorse che non era ancora salvo, poiché il boa si era lestamente accostato all’albero e strettolo fra le spire si era pure messo a salire, deciso ad avere la sua preda.

La povera scimmia continuava ad urlare pel terrore. Correva da un ramo all’altro spingendosi verso le estremità più flessibili, poi retrocedeva come se fosse affascinata dagli sguardi ardenti del terribile rettile.
Giovanni Finfin ebbe pietà del povero quadrumane.
Si slanciò verso l’albero impugnando la sciabola e con un colpo disperato tagliò in due il serpente. Quella lama doveva essere stata fabbricata a Toledo, per non rimbalzare sulle dure scaglie del mostro.

Il primo movimento della scimmia, nel veder cadere il rettile, fu quello di salire più in alto. Doveva senza dubbio sapere che l’uomo è un animale ancora più terribile delle fiere delle foreste, quindi non mostrava, almeno pel momento, nessuna intenzione di fare conoscenza col suo salvatore.

Appollaiata sui più alti rami, s’accontentava di guardare il giovanotto con un misto di stupore e di diffidenza.

Giovanni dal canto suo più non si occupava della scimmia. Egli s’era sdraiato all’ombra d’un gruppo di rocce e si era messo a cenare, divorando con grande appetito alcune frutta che aveva raccolte al mattino. La scimmia, comprendendo di non aver nulla da temere da parte del suo salvatore, dopo una lunga esitazione abbandonò il suo rifugio e si calò dolcemente a terra, mettendosi a guardare il giovanotto il quale continuava tranquillamente a mangiare.

Maggiormente rassicurata, fece alcuni passi innanzi, poi, dopo un’altra esitazione, si accostò al giovanotto il quale le porse alcune frutta.
La povera bestia, completamente guadagnata da quel presente, prese le frutta divorandole avidamente, poi s’accoccolò dinanzi al nostro eroe manifestando con delle leggere grida e cogli occhi una vera gioia.

Quando ebbe divorata la sua parte di cena, risalì sul sicomoro e credendo di divertire Giovanni, si mise a fare degli esercizi ginnastici straordinari, balzando da un ramo all’altro e facendo dei capitomboli sorprendenti. Intanto la notte calava rapidamente.

Il nostro giovane bretone, invece di starsene inoperoso ad osservare le stelle, fece raccolta di rami secchi con i quali circondò interamente il suo piccolo accampamento, quindi li accese onde proteggersi contro gli assalti delle bestie feroci.

Ciò fatto si diresse verso il fiume, rinnovò la sua provvista d’acqua e fece un’altra raccolta di rami morti, per aver fuoco fino all’alba.

La scimmia vedendolo occupato in quella raccolta scese dal sicomoro e si mise ad aiutarlo. Essendo dotata di una forza straordinaria, portò al campo un vero carico di legne secche, capace di alimentare il fuoco per ventiquattro ore.
Finfin, contento di quell’aiuto, ebbe un sorriso ed una carezza pel povero quadrumane.

– Tu sei un bravo compagno – gli disse. – Fra noi due, faremo la traversata dell’Africa, se lo vorremo.

Il pongo, come se avesse compreso, lo ringraziò con una pantomima assai espressiva che dimostrava tutta la soddisfazione che provava.
I due amici si assisero in mezzo al cerchio di fuoco, ed essendo stanchi chiusero subito gli occhi.

Giovanni però, prima di affidarsi al sonno, aveva avuto la precauzione di mettersi accanto le armi.

La notte calava con quella celerità che si vede solamente sotto l’Equatore.
In quelle regioni niente decrescenza del giorno, niente mezze tinte: o giorno o notte. è vero però che alla notte l’atmosfera è tale da permettere di vederci quasi come fossero le prime ore del giorno.

Nessun rumore pel momento turbava il silenzio che regnava sulle rive del fiume, ma ben presto dovevano cominciare molti strani e svariati mormorìi.
Infatti qualche ora dopo, le foreste parvero si risvegliassero. Si udivano dei gracidii, dei fischi, dei mormorìi, dei fremiti sommessi. Pareva che dei milioni di esseri infinitamente piccoli brulicassero sotto l’oscura volta delle piante, o che un esercito immenso marciasse quasi silenziosamente su ambo le rive del fiume.

Ad un tratto però quei mormorìi si cambiarono in clamori strani e paurosi. I leoni, le pantere, i leopardi, le jene, gli sciacalli, i rinoceronti, gli ippopotami, i bufali e gli elefanti prendevano parte al concerto, con un fracasso assordante.
Giovanni però, vinto dal sonno, non udiva nulla e continuava a dormire placidamente come se si fosse trovato nel miglior letto della Francia intera. Se dormiva il padrone, vegliava però la scimmia.

L’intelligente quadrumane, udendo quei fracassi, sussultava e guardava ansiosamente il suo giovane salvatore.

D’improvviso si accostò a Giovanni e lo urtò violentemente.
Il giovanotto, svegliato di soprassalto, aprì gli occhi e vide la scimmia che cercava di nascondere il capo sotto la sua giacca e gli si stringeva addosso mandando delle piccole grida.

Comprendendo che qualche cosa di grave stava per accadere, guardò al di là della barriera di fuoco e scorse subito due animali dal corpo allungato, colla pelle coperta di belle macchie gialle e nere, che lo guardavano con occhi ardenti che mandavano bagliori fosforescenti.

Erano due leopardi del Congo, animali pericolosissimi che non temono l’uomo.

Giravano entrambi intorno al fuoco per vedere se vi era qualche apertura che permettesse loro di giungere sino a Finfin ed alla scimmia.
– Oh!… Oh!… – mormorò Giovanni, afferrando risolutamente il fucile. – Che brutta nottata mi si prepara! Se que’ due furfanti mi piombano addosso è finita per me.

In quell’istante uno dei due leopardi fece udire un lungo mugolìo, che pareva un lontano ruggito, ed una dozzina di leopardi, meno grandi dei due primi che ronzavano attorno al fuoco, però non meno feroci, fece la sua comparsa.
Quei nuovi nemici digrignavano i denti e gettavano sguardi fiammeggianti sulla preda umana e sulla scimmia.

— Vediamo se la carabina di quell’eccellente capitano Dorsemaine è buona a qualche cosa – disse Finfin. – Bisogna dare una lezione a quei bricconi prima che si slancino.

Alzò il fucile, carico d’una palla di grosso calibro e mirò il leopardo più grosso.

— Vediamo — riprese Finfin, con grande sangue freddo — se l’arma non sbaglierà, sarò più sicuro in avvenire.

Mirò qualche minuto, poi fece partire il colpo.

Il leopardo, colpito in pieno petto, si rizzò sulle zampe deretane, fece un balzo straordinario, poi ricadde stramazzando sulla sabbia. La palla lo aveva fulminato. Il secondo leopardo ed i piccoli ne ebbero abbastanza e fuggirono precipitosamente rientrando nella boscaglia.

La scimmia, vedendo cadere il pericoloso avversario, prese dalle mani di Fin fin il fucile e si provò a tirare, avendo seguita attentamente la manovra, però il colpo non partì per la semplice ragione che non era stata introdotta una nuova carica.

– Se sarai brava, t’insegnerò ad adoperarlo – disse Finfin ridendo – vedo che hai delle eccellenti disposizioni.

Riprese l’arma, la caricò con grande cura, poi si coricò nuovamente, certo di non venire più disturbato.

Lieto di quel primo successo e sicuro della perfezione del suo fucile, il nostro bretone non tardò a riprendere il sonno interrotto da quel pericoloso avvenimento e lo continuò fino a che il sole venne a risvegliarlo.
Sua prima cura fu di cercare il cadavere del leopardo, ma non vide che un ammasso di ossa. Altri animali, del pari feroci, lo avevano spolpato.

– Partiamo – disse Finfin alla scimmia. – Cercheremo di attraversare il fiume.
Si gettò in ispalla il fucile, mangiò l’ultimo banano dandone un po’ alla scimmia, poi si rimise animosamente in marcia, scalando le rocce per giungere sulla cima di quella catena di colline.

Lo preoccupava però il timore di non poter trovare anche colà un guado che gli permettesse di attraversare quel corso d’acqua.
Ad un tratto gli venne un’idea.

– Se costruissi una zattera? – pensò.

Una zattera? E perché no? è bensì vero però che una simile costruzione richiedeva del tempo e degli utensili.

Del tempo? Ne aveva finché voleva a sua disposizione. Degli utensili? Forse che non aveva la sua buona sciabola la quale poteva funzionare, fino ad un certo punto, da ascia?

– L’idea mi sembra buona – disse. – Andiamo a vedere se possiamo metterla in esecuzione.

Lieto di quella felice ispirazione, si mise ad arrampicarsi con maggior lena, aiutandosi colle mani e co’ piedi e giunse in una specie di gola la quale andava a terminare sulla riva del fiume.

In quel luogo il corso d’acqua era più ristretto e la corrente, limpidissima, meno impetuosa.

Più innanzi invece, la corrente, rinchiusa fra la foresta da una parte e le rocce della montagna dall’altra, appariva più rapida.

Le onde si slanciavano innanzi in una corsa disordinata, muggendo fragorosamente e trascinando con loro degli isolotti composti di terra e di radici che si staccavano dalle due rive.
Guardando quegli isolotti, Finfin ne scorse uno già quasi staccato, trattenuto solo alla riva da alcune liane le quali però non dovevano tardare a rompersi.
– La zattera è trovata senza perdere tempo a costruirla – disse il giovane bretone.

Aveva osservato che i rami d’un mangilo si allungavano verso quell’isolotto e che quindi, con un po’ di destrezza e di agilità, non era difficile lasciarsi cadere su quell’ammasso di radici e di terra.
Sicuro del fatto suo, non esitò più.

Tagliò una lunga pertica per poter dirigere quel singolare galleggiante, poi si arrampicò sull’albero, si spinse fino ai rami che si protendevano sul fiume e con uno slancio ben misurato andò a cadere in mezzo all’isolotto.
La scimmia, quantunque nulla potesse comprendere di quella manovra, lo aveva seguito senza esitare.

Quando Finfin si trovò sulla zattera e si fu assicurato che doveva galleggiare benissimo, con pochi colpi di sciabola recise le liane che la tenevano unita alla riva.

L’isolotto, spinto dalla corrente, partì rapido balzando agilmente sulle onde e girando rapidamente su se stesso, con grande paura della scimmia.
In pochi minuti superò lo stretto della montagna e si trovò in quel laghetto che già Finfin aveva notato.

La corrente colà ridiventava quasi tranquilla, tanto che l’isolotto s’avanzava appena appena, con un leggero dondolìo.

Spinto dalla pertica del giovane bretone, si diresse verso la riva opposta dove si vedevano delle superbe foreste e poco dopo si arenava in mezzo alle prime radici dei mangli.

Giovanni e la scimmia si affrettarono a sbarcare su quella riva incantevole.
Una leggera brezza soffiava dalla parte dei boschi, portando a Giovanni mille profumi deliziosi, sprigionantisi dai cespi di splendidi fiori che crescevano all’ombra di alberi giganti che occupavano la riva.

Le aloè, le tuberose, gli amaranti, crescevano a profusione, mostrando i loro fiori, dalle tinte delicate. Se ne vedevano dovunque, specialmente lungo le rive d’un piccolo corso d’acqua che serpeggiava nella foresta come un grande nastro d’argento.

Le piante fruttifere non mancavano, anzi lungo le rive si vedevano sorgere in gran numero, confusi, amalgamati, banani dalle foglie gigantesche, dei mangli carichi di frutta lucenti, dei melogranati, dei sicomori e sotto di essi una grande quantità di ananassi che altro non chiedevano che di venire raccolti.
In mezzo ai rami ed alle liane, volteggiavano cinguettando, parrocchetti rossi, verdi e gialli e delle grandi cacatoe color del fuoco o bianche come l’avorio, con un pennacchio giallo dorato sul capo. Invece sulle cime dei grandi alberi, bande di scimmie eseguivano una ginnastica indiavolata.

Alla vista di quel fiumicello, sulle cui rive vi erano tante piante e tanti fiori esalanti acuti aromi ed alla vista di quell’acqua limpida come un cristallo, Finfin si sentì prendere da un desiderio irresistibile di fare un bel bagno per rinvigorire le membra bruciate dal sole e rammollite dal sudore.
Si sbarazzò rapidamente delle vesti e si lasciò cadere in acqua, fra due giganteschi tamarindi che incurvavano i loro rami sul fiume.

La sensazione fu deliziosa. Nulla può eguagliare la voluttà che si prova nel trovarsi in un’acqua limpida, fresca, dopo aver sofferto molto caldo.
Finfin, felice, si rovesciò sul dorso, si tuffò, tornò a galla, poi si lasciò trasportare dalla corrente.

La scimmia, vedendo il suo padrone gettarsi in acqua, aveva subito dato segno d’un vivo terrore. I quadrumani non hanno mai amato, a dire il vero, l’acqua, anzi le scimmie non sanno nuotare, quindi il terrore dell’amica di Finfin era naturale.

Temendo però che il padrone non potesse più ritornare alla riva, si mise a mandare delle grida acute ed a seguirlo lanciandosi da un albero all’altro con una destrezza ammirabile per non perderlo di vista.

Giovanni, contento di provare una deliziosa frescura, non aveva fatto caso della scimmia. Nuotando appena appena quel tanto che bastava per mantenersi a galla, si lasciava trasportare sempre dalla corrente che era, d’altronde, lentissima in causa del poco pendìo del letto.

Ad un tratto giunse in un punto dove il fiume si estendeva considerevolmente e dove crescevano in gran numero delle piante acquatiche che portavano degli splendidi fiori purpurei.

Temendo d’imbarazzarsi fra le foglie e le radici di quelle piante, si era arrestato.

Già si preparava a dirigersi verso la riva quando un odore di muschio, caldo e acre, colpì il suo naso. Quel profumo detestabile egli lo aveva già sentito altre volte.

Dove? Egli cercava di ricordarselo senza riuscirvi.
D’improvviso sentì un corpo duro e scabroso ad urtarlo malamente.

– Cos’è questo? – si chiese con qualche ansietà. – Che un nemico sconosciuto si nasconda fra queste piante acquatiche?

Giovanni non era uomo da spaventarsi facilmente, però ebbe un terribile sospetto.

– Che vi siano dei coccodrilli? – si chiese.

Temendo di non essersi ingannato si mise a nuotare rapidamente verso la riva, chiamando la scimmia la quale si trovava tra i rami d’un albero sporgenti sul fiume.

Il giovane bretone non aveva fatto quindici passi quando scorse, sulle due rive del fiume, quindici o venti schifosi coccodrilli che battevano le loro enormi mascelle come se si aguzzassero i loro lunghi denti.

– Brrr!… Che brutti mostri!… – esclamò.

Calcolò la distanza che lo separava da quei pericolosi avversari per vedere se avrebbe avuto il tempo di raggiungere la riva prima che gli tagliassero la via e s’accorse che non era cosa facile approdare in quel luogo.
Tornò rapidamente indietro e facendo forza di braccia e di gambe tagliò vigorosamente l’acqua per rimontare il fiume.

Cominciava già a lusingarsi di poter sfuggire a quei mostri, quando vide aprirsi dinanzi le piante acquatiche e comparire, fra le foglie ed i fiori rossi, la testa d’un gigantesco sauriano.

– Diavolo!… – esclamò, rabbrividendo. – La situazione diventa grave!…
Virò prontamente di bordo e si mise a nuotare disperatamente seguendo la corrente, per passare dinanzi a quella doppia fila di avversari che lo contemplavano dall’alto della riva.

Lavorando vigorosamente di braccia s’allontanò celeremente, poi d’un tratto si arrestò.

Un altro sauriano aveva mostrato il suo dorso rugoso, coperto di grosse piastre ossee.

Il rettile emerse la testa e vedendo la preda umana si mise a nuotarle incontro per addentarla.

Il pericolo era gravissimo e la fuga ormai impossibile.

I due mostri, còme se si fossero messi d’accordo, marciavano incontro al povero bretone, battendo le mascelle armate di lunghi denti giallastri.

— Sono perduto!… — mormorò il giovanotto.

Nondimeno volle tentare un ultimo sforzo. Si tuffò interamente e passò sotto il ventre del coccodrillo che gli veniva incontro.

Quella manovra, d’una audacia straordinaria, era stata certamente indovinata dai sauriani che vegliavano sulle rive del fiume, poiché quando il nostro eroe emerse per respirare una breve boccata d’aria, si trovò dinanzi ad un terzo nemico.

Giovanni Finfin si credette realmente perduto e si sentì rizzare i capelli sul capo.

In quel momento, alzando gli occhi, scorse all’estremità d’un grosso ramo che si protendeva sul fiume, il volto intelligente della grossa scimmia.

Il bravo quadrumane, comprendendo il grave pericolo che correva il padrone, scendeva precipitosamente il ramo e tenendosi sospeso coi piedi tendeva le robuste braccia. - Ah!… Il mio bravo compagno! – gridò Finfin, che si sentì aprire il cuore alla speranza.

La scimmia gli stava sopra. Allungò rapidamente le braccia, lo afferrò per le mani e con una scossa vigorosa lo trasse dall’acqua, sottraendolo alle bocche gigantesche dei sauriani.

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