Giovanni Finfin dormiva ancora quando venne nuovamente svegliato dalla musica scordata che scendeva per il sentiero accostandosi alla capanna.
Come la mattina precedente si affrettò a balzare in piedi e ad uscire.
Una ventina di capi, preceduti dal supremo stregone e seguiti dai musicanti, si avanzavano verso la dimora dell’uomo bianco. Questa volta però erano quasi tutti inermi, segno evidente che non venivano come nemici.
Pompeo si era pure alzato, però aveva guardato tranquillamente quei negri, senza manifestare la menoma apprensione.
Quando quel numeroso drappello giunse dinanzi alla capanna, il capo che parlava la lingua dei chikani si fece innanzi, salutò cortesemente Giovanni Fin-fin, ponendo un ginocchio a terra e toccando il terreno colla fronte, poi gli disse:
— Noi siamo qui venuti a prendere l’uomo bianco per fargli subire le prove dei guerrieri jagas.
Giovanni finse di non saper nulla e simulando la più alta meraviglia, disse:
– Che il capo degli jagas si spieghi, poiché io nulla comprendo.
— Allora dirò all’uomo bianco che la nostra regina desidera vederlo fra i suoi guerrieri.
— Sono pronto ad obbedirla.
– Devo però avvertire l’uomo bianco che non può venire ammesso fra la casta dei guerrieri, senza subire le prove necessarie, per essere certi della fortezza del suo animo.
— Io non temo alcuna cosa — disse Finfin, con aria spavalda.
— Dovrà subire la prova del ferro. - La subirò.
— Poi quella dell’aria.
– L’aria non fa male.
— Quindi quella del fuoco — continuò il capo jagas.
– Non sono una salamandra, ma diverrò pompiere.
— Poi dovrà affrontare le belve feroci.
– Datemi delle armi e le ucciderò.
— Niente armi.
— Allora voi volete farmi divorare.
– Un bravo guerriero non si lascia mangiare.
– Se non mangiano i guerrieri negri spero che non mangeranno il guerriero bianco.
– Sei deciso a tentare le prove?
– Sono pronto a tutto – disse Finfin.
– Allora l’uomo bianco ci segua.
– Andiamo – disse Finfin. – Mi pare che si tratti di assistere a qualche scena dei frammassoni. Coraggio e avanti. Se Namouna mi ha assicurato che non vi è alcun pericolo, devo credere alle sue parole. D’altronde ha interesse a proteggermi.
Il drappello si rimise in cammino, conducendo con sé Giovanni Finfin. Pompeo aveva tentato di seguire il padrone, ma questi con un gesto imperioso l’aveva costretto a rimanere nella capanna.
Invece di salire verso la rocca, gli jagas presero un sentiero che s’addentrava fra le due montagne, serpeggiando in mezzo ad una cupa selvaggia vallata.
Folte macchie di piante spinose crescevano sui fianchi di quella specie di burrone, proiettando un’ombra assai fitta, tale anzi che talvolta Giovanni si credeva di trovarsi in qualche grande galleria sotterranea.
Dopo mezz’ora di marcia, gli jagas si arrestarono per accendere dei rami resinosi che ardevano come vere torce. Il giovane bretone, quantunque fosse preparato a tutto, cominciò, a diventare un po’ inquieto.
– Dove andiamo? – chiese al capo che parlava la lingua dei chikani.
– Lo vedrai presto – rispose l’jagas, con un sorriso misterioso.
— Vi è ancora molta via da percorrere prima di giungere sul luogo delle prove?
– Meno di quanto tu credi. Seguimi.
Il drappello si rimise in cammino, cacciandosi entro uno stretto burrone dalle pareti tagliate quasi a picco. Colà la luce del giorno non giungeva quasi più poiché le pareti rocciose, invece di allargarsi verso l’alto, si avvicinavano al punto da toccarsi.
Ben presto Giovanni si accorse di non trovarsi più all’aperto. Erano entrati in una galleria sotterranea, la quale descriveva mille serpeggiamenti, mille giri impossibili a tenerseli a mente, almeno per la prima volta.
La marcia fra quell’interminabile sotterraneo, alla luce di quelle torce fumose che gettavano dei riflessi di fuoco sulle pareti rocciose, aveva qualche cosa di lugubre. Giovanni Finfin diventava sempre più inquieto temendo che gli jagas invece di fargli subire le prove per diventare un guerriero della loro nazione, si preparassero a giuocargli qualche brutto tiro.
Ad un tratto il capo degli jagas fece cenno a Finfin di passare dinanzi a tutti, poi gli disse:
— Eccoci sul luogo delle prove: vedremo se tu sarai capace di resistere e di possedere tanto coraggio. Cammina sempre e, se è vero che tu non hai paura, non esitare mai.
Poi tutto d’un colpo le torce si spensero e una oscurità paurosa piombò attorno al povero giovane.
— Diavolo — mormorò. — È così che mi lasciano?
Tese l’orecchio e gli parve di udire uno stropiccìo di piedi che si allontanavano rapidamente attraverso le gallerie.
– Mi hanno abbandonato – disse il bretone. – L’avventura pare che non cominci troppo bene, però non voglio mostrare a quei negri che io sono un pauroso.
Namouna mi ha detto di non temere, dunque avanti senza esitare.
Fece appello a tutto il suo coraggio e si mise in cammino colle mani tese, per non urtare improvvisamente contro qualche punta rocciosa e rompersi la testa.
Aveva fatto appena pochi passi quando si sentì sfiorare il volto da un corpo freddo e che aveva qualche cosa di vischioso. Si gettò prontamente indietro, facendo un gesto di disgusto.
— Qualche grosso pipistrello — disse. — Il diavolo se lo porti! Quegli uccellacci mi fanno schifo.
Stette un momento immobile, poi avanzò lentamente, sempre colle mani tese, finché sentì dinanzi a sé una massa granitica. Tastando, la seguì per parecchi metri, poi s’arrestò nuovamente udendo dei sibili che parevano venissero di sotto terra.
— Che cosa c’è ancora? — si chiese.
Quasi contemporaneamente giunse a lui un odore sgradevole che non gli era sconosciuto.
— Qui c’è puzzo di rettili — borbottò, mentre un freddo sudore gli bagnava la fronte. – Che stia per venire avvelenato e stritolato da qualche boa o da qualche pitone?
Tese l’orecchio ed udendo quei sibili venire dalla sua destra, balzò rapidamente innanzi, seguendo la parete di sinistra.
– La prima impressione è passata – disse, arrestandosi nuovamente. – Ora che ci penso, io credo che queste prove non siano affatto pericolose. Diamine! Se quei serpenti fossero stati liberi non avrebbero esitato a gettarsi su di me. Andiamo a provare le altre emozioni.
Continuò il cammino, ora scendendo ed ora salendo, tenendo una mano sempre appoggiata alla parete sinistra, finché un sordo fragore che pareva prodotto dall’irrompere d’un corso d’acqua, giunse fino a lui.
– Cosa sta per succedere ora! – si chiese. – Prima questo fragore non si udiva; che quei selvaggi vogliano farmi prendere un bagno? Se credono di spaventarmi coll’acqua, s’ingannano assai.
Il fragore cresceva rapidamente, come se qualche torrente avesse sfondata una diga e si precipitasse attraverso le gallerie.
Dover affrontare una improvvisa inondazione in mezzo a quell’oscurità, non doveva essere certo un piacere, pure Finfin attese tranquillamente che l’acqua lo raggiungesse.
Dopo pochi istanti un’ondata irruppe nella galleria, urtando bruscamente il nostro eroe.
Passò subito oltre, ma altre si seguivano sempre più grosse e l’acqua in breve cominciò a montare, muggendo cupamente.
Giovanni la sentiva aumentare a poco a poco, sempre più fredda, sempre più gorgogliante, come un gelido sudario.
In poco tempo gli toccò le ginocchia; poi il ventre, poi il petto, quindi gli giunse alle spalle.
Il bretone non aveva certamente paura dell’acqua, essendo un abile nuotatore, anzi tale da poter reggersi a galla un paio d’ore e forse più, perciò alzò le braccia per essere pronto a mettere in azione i suoi muscoli.
Già stava per slanciarsi, quando s’accorse che la galleria saliva rapidamente dinanzi a lui.
– Credo che non vi sia bisogno di gettarsi a nuoto – mormorò.
S’appoggiò alle sporgenze della parete ed aiutandosi colle mani e coi piedi salì il pendìo, uscendo completamente da quell’acqua gelata che gli faceva provare dei brividi poco gradevoli.
Giunto in una nuova galleria, le tenebre bruscamente si dissiparono di qualche po’. Non si poteva dire che la luce del giorno entrasse nella galleria, però ci si vedeva abbastanza.
Da dove penetrava quel po’ di chiaro? Giovanni Finfin non se lo seppe dire.
Forse le rocce erano formate di una sostanza vetrosa, forse da quarzi leggermente opachi che permettevano la filtrazione della luce esterna.
Il bretone si trovava allora in una caverna assai spaziosa e molto alta e che pareva di natura vulcanica, essendovi grandi ammassi di pomici, di basalti neri e di lave raffreddate.
A destra ed a sinistra si vedevano poi delle rocce enormi, che parevano si mantenessero ritte per un miracolo d’equilibrio. Una scossa, foss’anche debole, sarebbe bastata per farle capitombolare.
All’altra estremità della caverna, scorreva un torrente rapido, quello che Fin fin aveva attraversato. Quel corso d’acqua, alcuni passi più lontano, si precipitava con gran fracasso entro un profondo abisso.
Giovanni nello scorgerlo provò un brivido.
– Un passo falso che avessi fatto e sarei capitombolato là dentro – disse. – Birbanti di negri!
Stava intento a guardare quella nera voragine, quando una roccia enorme, perduto l’equilibrio, precipitò quasi addosso a Finfin.
Quel masso del peso di parecchie tonnellate, seguì il pendìo della caverna e scomparve nell’abisso.
Per alcuni secondi Finfin lo udì rotolare con un sordo fragore, lungo le pareti scabrose di quella franatura, poi udì un cupo rimbombo che fece tremare le pareti della caverna. Quel colpo, paragonabile allo scoppio di un mortaio, si ripercosse lungamente entro le tenebrose gallerie, destando l’eco.
Finfin fremette.
— Comincio ad averne abbastanza di queste prove — disse. — Per poco che queste emozioni continuino, mando al diavolo anche la regina! Attraversò la caverna e trovata una nuova galleria vi si cacciò sotto. Colà l’oscurità era tornata fortissima.
Finfin camminò per alcuni minuti, poi tutto d’un tratto sentì mancarsi il suolo sotto i piedi.
Chiuse gli occhi mandando un grido di disperazione, credendo di essere precipitato in qualche abisso.
La caduta però non durò molto. Era piombato quasi subito su di un letto di liane flessibili, intrecciate come una rete ed era rimasto sospeso nel vuoto.
– Ah! Furfanti! – esclamò. – Credevo di dovermi fracassare le ossa. Ed ora, dove sono io? Avessi almeno una candela!
Stette alcuni altri minuti disteso su quelle liane per rimettersi dall’emozione, poi allungò le braccia ed alla sua sinistra trovò una parete la quale pareva che fosse stata tagliata a gradini.
– Proviamo a scendere – disse Finfin, tergendosi il freddo sudore che gli bagnava la fronte.
Si aggrappò ai margini delle rocce e si mise a scendere quella specie di scala tagliata nella parete, con grande precauzione per non scivolare e precipitare nel vuoto. Dopo due minuti si trovò in fondo. Dov’era? Impossibile saperlo poiché l’oscurità era sempre profonda.
Marciò innanzi a casaccio e s’accorse di essere in un’altra galleria.
– Avanti – disse. – Sono sulla buona via! Continuò ad avanzarsi per parecchie decine di metri, poi sentì che le due pareti s’allargavano bruscamente.
– Una nuova caverna? – si chiese. – Avanti sempre! Io non temo più nulla. Un concerto spaventevole, scoppiato d’improvviso, lo inchiodò al suolo.
Da tutte le parti si udivano urla terribili di bestie feroci in furore. Erano ruggiti di leoni, miagolìi rauchi di leopardi, urla diaboliche di sciacalli, scrosci di risa di jene, lamenti di coccodrilli.
Pareva che tutte le bestie del continente africano fossero state riunite in quella caverna.
– Ho capito – disse Finfin. – Un’altra prova!… Bah!… Le bestie devono esser nascoste e ben legate.
Attraversò la caverna con un sorriso sdegnoso sulle labbra e, senza che un muscolo del suo corpo trasalisse, si diresse verso un punto luminoso che era comparso in lontananza.
Ben presto degli odori acri che parevano prodotti da zolfo bruciato si sparsero per l’aria, minacciando di soffocarlo. Venivano dalla parte di quel punto luminoso, come se laggiù si trovasse l’inferno.
Finfin si turò il naso, attraversò velocemente la distanza e si trovò in una terza caverna dove bruciavano degli enormi fastelli di legna secca cosparsi di materie resinose.
In mezzo a quella caverna Finfin vide un negro inginocchiato al suolo, colle mani e coi piedi legati, e presso di lui un guerriero jagas che teneva in mano una pesante sciabola.
– Che cosa vorrà da me quell’antropofago? – si chiese il bretone. – Forse che io uccida quel povero schiavo?… è pazzo se lo spera.
Il guerriero jagas gli era mosso incontro porgendogli la sciabola e dicendogli: – Uccidi!…
– No – disse Finfin.
– Uccidi!… – ripetè il guerriero.
Finfin stava per rispondere con un nuovo rifiuto, quando un masso si spostò e un’onda di luce solare invase la caverna.
Il capo jagas che parlava la lingua dei chikani comparve e mosse incontro a Finfin, sorridendo.
– Tu sei un valoroso — gli disse. — Hai affrontate tutte le tremende prove da uomo intrepido, e la nostra nazione è orgogliosa di adottarti e di proclamarti
guerriero.
– Sono finite le prove? – chiese Finfin, affettando una straordinaria noncuranza.
– Sono finite.
— Mi aspettavo di peggio.
Il capo jagas lo guardò con meraviglia.
Il tuo cuore non ha adunque tremato?… – gli chiese. — No, davvero.
– Allora sei il più valoroso di tutti. Vieni, i capi ti aspettano per consegnarti le armi, poi verrai condotto dalla regina.
– Andiamo – disse Finfin tranquillamente – anche questa avventura è finita meglio di quello che credevo.
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