I raggi della luna, ormai limpidissimi, essendo le nuvole passate oltre, inondavano la montagna e la pianura, l’atmosfera era diventata così trasparente da poter distinguere una massa della mole dell’elefante ad una grande distanza, quasi come se fosse giorno fatto.
Quella luce intempestiva minacciava di compromettere la fuga di Finfin e delle due donne, specialmente ora che gli jagas s’erano accorti della loro scomparsa.
Un inseguimento e probabilmente accanito, era da temersi da un momento all’altro. Forse in quel momento gli antropofaghi li avevan già scoperti e scendevano la montagna di corsa per giungere nel deserto dove pascolavano i loro cammelli ed i loro mahari.
Finfin, malgrado la sua fiducia, cominciava ad inquietarsi, udendo sempre rintronare sulla montagna le urla dei nemici. Egli non cessava dall’eccitare Enogat, il quale, bisogna dirlo, ci metteva tutta la sua buona volontà per guadagnare via.
La povera bestia, malgrado la sua mole, correva senza posa, ansando fortemente, superando già in velocità un cavallo lanciato al galoppo.
Uscito dalla valle, s’era slanciato attraverso l’ultima gola che metteva direttamente nel deserto, senza prendere un istante di respiro.
Giovanni, quando le scosse diventavano meno sensibili, s’alzava in piedi e mantenendosi ritto per un miracolo d’equilibrio, guardava verso la montagna per vedere se gli jagas si avvicinavano.
Namouna, non meno inquieta, non cessava dall’interrogarlo:
— Vengono?
— Non ancora — rispondeva Finfin.
– Mi pare però che le loro grida si avvicinino.
— Anche a me sembra, ma non li vedo ancora.
– Che abbiano preso un’altra via?
— No!… No!… — esclamò vivamente Finfin che si era nuovamente alzato in piedi. – Eccoli! Li vedo scendere verso il sentiero.
— Sono molti? — chiese Namouna con ansietà.
– Una cinquantina.
– Troppi per noi.
– è vero, però sono pronto a difendervi. Avanti, mio bravo Enogat!… Il deserto è vicino!…
I guerrieri jagas scendevano allora la montagna correndo all’impazzata ed agitando freneticamente le armi. Ormai avevano scoperti i fuggiaschi e si preparavano a dare loro una caccia accanita, per riprendersi la regina, che forse credevano rapita da Finfin e l’elefante, il loro fetìccio nazionale.
Quantunque fossero ancora assai lontani, quattro o cinque miglia, di tratto in tratto qualche sparo rimbombava; forse speravano di spaventare i fuggiaschi e di costringerli ad arrendersi.
Enogat, comprendendo che il padrone correva un grave pericolo, divorava la via con crescente lena, quantunque il terreno non fosse favorevole per le sue zampacce.
Il deserto però era ormai a brevissima distanza e su quelle pianure sconfinate si sarebbe trovato a suo agio.
— Presto, allunga sempre il passo, mio bravo Enogat — ripeteva Finfin. — Uno sforzo ancora e noi saremo forse salvi.
L’elefante con un ultimo sforzo uscì finalmente dall’ultima gola e si trovò sul margine del grande deserto.
Cominciava allora ad albeggiare.
Il sole tutto d’un tratto comparve, dapprima rosso come un disco di ferro infiiocato, poi si rischiarò ed i suoi primi raggi, ardenti, come fossero una pioggia di fuoco, si distesero pel deserto, facendo scintillare le sabbie.
Pochi sterpi intristiti, appena sufficienti a nutrire i cammelli e qualche palma si scorgevano attraverso quelle pianure sconfinate, leggermente ondulate. Né un uccello né un animale qualsiasi apparivano in alcuna direzione, ma Finfin pel momento non si preoccupava, tanto più che aveva avuta l’assicurazione di trovare più innanzi delle oasi.
Enogat, sentendo sotto di sé un terreno più confacente ai suoi piedi, aveva presa un’andatura più rapida, dirigendosi verso il nord.
Gli jagas non erano ancora sbucati dalle gole delle montagne, però si udivano, in lontananza, echeggiare le loro grida feroci.
— Ci inseguiranno anche nel deserto? — chiese Finfin a Namouna.
– Certamente – rispose l’ex regina.
– Coi loro mahari vinceranno la corsa del nostro elefante. Quei dannati cammelli corrono come il vento.
– Fortunatamente non ne avranno molti ora – disse Namouna.
– Perché?…
– La spedizione che s’è diretta verso il sud deve averli condotti con sé quasi tutti.
– Allora possiamo sperare di sfuggire loro – disse Finfin. – Il mio archibugio è vecchio, però non mi sembra in cattivo stato e le munizioni abbondano. Anche Pompeo non tira male e qualche cosa farà anche lui. Oh!… Eccoli!…
Gli jagas, dopo una corsa furiosa, erano apparsi sul margine del deserto, però sette soli erano montati su dei mahari; gli altri s’erano provvisti di cammelli comuni, animali troppo lenti per misurarsi colle gambe di Enogat.
I sette guerrieri montanti i mahari si spinsero risolutamente nel deserto, eccitando, con grida indiavolate, le loro cavalcature.
— Non sono che sette — disse Finfin — però sono tutti armati di fucili e noi presentiamo un bersaglio troppo grosso. Bisognerebbe cercare qualche rifugio e attenderli colà.
Si volse verso l’ex regina degli antropofaghi, che era occupata a guardare i suoi feroci ex sudditi e le disse:
— Una domanda, signora.
– Parlate.
– Conoscete qualche rifugio?…
— Qualche oasi?
— Sia un’oasi o no, non m’importa, a me basta di trovare qualche gruppo di piante per mettermi al coperto dalle scariche di quegli inseguitori. Fra un’ora essi saranno a tiro se continuano quella corsa.
– So dove si trova una piccola oasi, ma colà non troveremo acqua forse.
– Non importa, per ora; è lontana?
– è situata dietro quelle colline di sabbia.
— Un’ora di marcia — disse Finfin, guardando le colline indicate da Namouna.
– Forse avremo il tempo sufficiente per giungervi e per imboscarci. Avanti, Enogat! Più tardi ti riposerai con comodo.
La caccia era cominciata con grande vigore da parte degli jagas.
I sette mahari eccitati colle fruste che li percuotevano senza posa, divoravano la via per guadagnare sull’elefante. Si vedevano salire e scendere a rotta di collo le ondulazioni assai marcate del deserto, tendendo i loro lunghi colli ed abbassando e rialzando vivamente la loro testa.
Pareva che ad ogni istante dovessero cadere a terra ed invece riprendevano la corsa con lena crescente, sollevando nuvoli di sabbia impalpabile.
Enogat però non si perdeva d’animo e si slanciava pure innanzi con grande impeto, soffiando fragorosamente.
Non ostante però i suoi sforzi, i mahari, più lesti e più agili, guadagnavano a vista d’occhio, con grande contentezza dei loro padroni e con molte apprensioni da parte di Finfin e delle due donne.
Dopo mezz’ora di corsa sfrenata però, Finfin scorse, dall’alto d’una collinetta di sabbia, una specie d’isola verdeggiante, ricca di numerosi palmizi i quali formavano dei folti boschetti.
— Finalmente! — esclamò. — Fra dieci minuti noi saremo al sicuro.
I sette guerrieri distavano allora solamente un chilometro e quasi avessero indovinato il disegno dei fuggiaschi, raddoppiavano le grida e le sferzate per giungere addosso a loro prima che potessero guadagnare l’oasi.
Qualcuno s’era provato a far fuoco con risultato assolutamente negativo, avendo una portata assai corta quei vecchi moschettoni.
Enogat, accortosi della vicinanza dell’oasi, aveva raddoppiata la corsa. Con un ultimo e più impetuoso slancio che per poco non fece capitombolare le due donne, superò una collinetta più alta delle altre e si cacciò in mezzo ai palmizi dove si arrestò esausto, cadendo sulle ginocchia.
Giovanni Finfin e Pompeo si erano lasciati scivolare a terra, poi avevano aiutato le due donne a scendere.
– Tenetevi nascoste dietro l’elefante – disse il bretone. – La sua massa basta per ripararvi dalle palle degli jagas.
– E voi? – chiese Namouna.
– Io e Pompeo andiamo ad arrestare l’invasione.
– E se una palla vi colpisce? – chiese l’ex regina con inquietudine.
– S’incaricherà Enogat di condurvi in salvo. Egli è intelligente ed obbedirà agli amici del suo padrone.
— Non temo per me, ma per voi. - Bah! I guerrieri jagas sono pessimi bersaglieri.
Ciò detto, Finfin e Pompeo si slanciarono attraverso le palme armando precipitosamente i loro fucili.
Quell’oasi, perduta come un’isoletta in mezzo ad un oceano di sabbie, non aveva più di millecinquecento metri di circuito, però era assai graziosa e pittoresca.
Gruppi fitti di datteri la coprivano, spargendo al di sotto una benefica e fresca ombra, e molti aloè spuntavano qua e là mostrando le loro bacchette adorne, in alto, d’uno splendido fiore.
Forse l’acqua non mancava sotto il suolo e fors’anche qualche animale aveva cercato rifugio in quel piccolo paradiso. Anche degli uccelli si mostravano, volando di ramo in ramo e beccando le frutta zuccherine delle palme.
Giovanni e Pompeo, attraversata l’oasi, andarono ad imboscarsi in mezzo ad un fitto macchione di palmizi, i cui tronchi erano più che sufficienti per ripararli dalle palle dei nemici. Gli jagas si trovavano allora solamente a sei o settecento metri. Sapendo che l’uomo bianco era coraggioso e abile bersagliere e che la scimmia era dotata d’una robustezza eccezionale, avevano rallentata la
corsa indemoniata dei loro mahari.
— Cominciano a diventare prudenti — mormorò Finfin. — Buon segno! Non avremo da sudare molto a metterli in fuga. Ehi, amico Pompeo, cerca di non sprecare inutilmente le munizioni; sono troppo preziose per noi.
La scimmia dilatò la sua bocca mostrando i suoi denti acuti e battè la canna del suo archibugio come per rassicurarlo.
In quel momento Finfin udì le foglie secche stridere dietro di sé. Si volse bruscamente temendo che qualche nemico fosse giunto fino a lui e si trovò dinanzi all’ex regina.
— Perdonate se vi ho raggiunto — diss’ella.
– Che cosa desiderate, signora? Questo posto è troppo pericoloso per voi – disse Finfin.
– So adoperare il fucile anch’io, uomo bianco, ed ho pensato che posso esservi più utile della vostra scimmia.
– Ma voi vi esponete alle palle di quei bricconi, signora.
– Non ho paura – rispose Namouna fieramente. – Mio padre ed i miei fratelli mi hanno insegnato a sfidare i pericoli senza tremare.
– Ebbene, signora, noi ci difenderemo insieme.
Prese il fucile di Pompeo e lo consegnò all’ex regina, la quale lo puntò verso il primo negro, con calma e molto sangue freddo.
– Aspettate che si avvicinino di più – le disse Finfin. – Non faremo fuoco che a colpo sicuro.
– Sperate di fugarli?
– Ho questa certezza, signora. Essi temono l’uomo bianco, la scimmia e l’elefante. Guardate come diventano prudenti quei messeri. Non si sentono troppo sicuri della vittoria.
Gli jagas si erano allora arrestati e dall’alto delle loro cavalcature cercavano di discernere il luogo ove si erano nascosti i fuggiaschi.
Giovanni Finfin che non voleva farsi scoprire, fece coricare l’ex regina e Pompeo ed attese che si avvicinassero, prima di cominciare il fuoco.
L’irresolutezza dei sette guerrieri non durò molto. Decisi a tentare il colpo, spinsero innanzi i loro cammelli, avanzandosi l’uno dietro l’altro per offrire meno bersaglio.
Avevano impugnati i loro moschettoni e parevano pronti a servirsene.
Finfin si volse verso l’ex regina, dicendole:
– A voi il primo che si mostra meglio, e a me il secondo. Mirate con calma e cercate di abbattere il cavaliere invece del cammello.
— Sono sicura del mio colpo — rispose Namouna.
Puntarono entrambi i fucili e mirarono attentamente i rispettivi avversari. Gli jagas si trovavano allora a soli duecento metri.
D’improvviso due detonazioni rimbombano ed i due primi cavalieri, colpiti con esattezza matematica, allargano le braccia e stramazzano al suolo.
Gli altri cinque fanno fuoco a casaccio, colpendo i tronchi dei palmizi, poi balzano a terra, raccolgono i loro due compagni boccheggianti e fuggono disperatamente, seguiti dai due mahari rimasti privi dei cavalieri.
– Evviva! – urlò Finfin, salutando quella fuga con un terzo sparo, però inoffensivo.
Gli jagas ne avevano abbastanza, almeno pel momento. Sferzando spietatamente le loro rapide cavalcature, in breve scomparvero dietro ai monticeli! di sabbia.
– Grazie, uomo bianco – disse Namouna che era raggiante per quell’insperato successo. – Forse ora siamo salvi.
— Allora andiamo a fare colazione — disse Finfin.
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