Erano le quattro del mattino quando Finfin aveva abbandonato il villaggio congolese. Egli marciò dieci ore senza arrestarsi, credendo sempre di avere alle spalle il re Mao-Kombo ed i suoi sudditi.
La prospettiva di venire preso e decapitato gli aveva date le ali ai piedi.
Quando si arrestò, il calore era diventato così intenso, che gli pareva di trovarsi in mezzo ad una fornace.
Stimando d’aver percorso una trentina di chilometri, si credeva ormai al sicuro e quindi in diritto di prendersi un po’ di riposo. Doveva anche pensare al pranzo, non avendo portato con sé nulla da porre sotto i denti e non avendo fino allora trovato nemmeno un frutto.
Stanco, sfinito dal sudore, si sdraiò sotto la fresca ombra d’un grande tamarindo e si mise a pensare al modo di procurarsi un modesto desinare, se non animale, almeno vegetale pel momento.
Egli sapeva che in Africa gli ananassi sono comunissimi e che si trovano, nella regione congolese, anche nei terreni più incolti; sapeva pure che i banani ed i meloni d’acqua sono del pari abbondanti, specialmente presso le rive dei fiumi e nei terreni umidi, sperava quindi, con un po’ di ricerche, di trovarne.
La selvaggina poi abbondava. Sopra la sua testa, fra i rami del tamarindo, vedeva volteggiare in grosso numero i parrocchetti dalle penne variopinte, e fuggire, fra le erbe, con velocità vertiginosa, lepri e gazzelle, mentre in mezzo alla foresta udiva echeggiare le grida acute e discordi delle scimmie.
Con un colpo di fucile era facile abbattere qualcuno di quegli animali, ma Giovanni temeva che la detonazione potesse guidare sulle sue tracce i congolesi, quindi pel momento lasciò in pace la sua arma.
Non potendo avere un pezzo di selvaggina si decise a far raccolta di frutta.
Si diresse verso il fiume che scorreva a breve distanza e si mise ad esaminare gli alberi. Mentre faceva raccolta di banani, scoperse, su di una grossa pianta, un alveare.
Lestamente, col coltello preso a Mao-Kombo, incise profondamente la corteccia dell’albero e s’impossessò di una grossa torta di cera, ripiena di miele.
Quell’operazione fu compiuta così rapidamente che le api non se ne accorsero subito.
Andò a deporre il miele su di una larga foglia di banano, poi esaminò con attenzione le rive del fiume che erano coperte da un numero infinito di mangli i cui rami si curvavano capricciosamente sulle limpide acque.
Guardando le radici di quelle piante, scoperse attorno ad una di esse, un centinaio di grosse ostriche.
– Ecco una deliziosa colazione – mormorò. Stava per calarsi nel fiume per fare una larga raccolta di quegli eccellenti molluschi, quando vide sorgere bruscamente la schifosa testa d’un grosso coccodrillo.
– Diavolo! – esclamò. – Ci sono dei guardiani troppo pericolosi.
Rinunciò alle ostriche e si accontentò di far colazione col miele profumato preso all’alveare e coi banani.
Ristoratosi un po’, riprese la marcia, volendo frapporre una considerevole distanza fra la sua persona ed i congolesi.
Egli seguiva sempre la riva dello Zimbo, non osando cacciarsi in mezzo alle fitte foreste, almeno pel momento.
La regione che percorreva era estremamente selvaggia. Per una singolare bizzarria che non si poteva attribuire che alla natura del suolo, le due rive del fiume erano ben diverse.
Quella che si trovava di fronte a Finfin era coperta da foreste gigantesche, composte di baobab colossali, di palme di varie specie, di mangli, di sicomori, di festoni di liane e di cespugli fittissimi, mentre quella che il nostro eroe percorreva era desolata, brulla, quasi sabbiosa, con pochi gruppi di alberi.
Anche in mezzo al fiume gl’isolotti, che sorgevano numerosi, erano fertili, coperti di splendide piante che davano loro un aspettò incantevole.
Finfin avrebbe ben desiderato lasciare la sponda che percorreva per passare sull’altra che gli prometteva maggior copia di frutta e di selvaggina, però non osava tuffarsi in quelle acque profonde abitate dai feroci coccodrilli. D’altra parte, restringendosi il fiume, la sua corrente era diventata così rapida in quel luogo, da non poterla vincere. Guardando però attentamente il fiume, verso
l’alto corso, Giovanni s’avvide che in lontananza vi erano delle colline e delle montagne.
– Forse lassù lo Zimbo avrà un corso meno rapido e potrò tentare la traversata – pensò. – Andiamo a vedere.
Riprese il suo fucile e si rimise in cammino, procedendo però lentamente in causa dell’estremo calore che regnava e degli ostacoli che incontrava, essendovi sterpi e crepacci in grande numero.
Dopo tre ore egli si trovò dinanzi ad una palude che gli sbarrava il passo. Cercò di attraversarla, ma ogni volta che si cacciava in mezzo a quelle canne, veniva assalito da nembi di zanzare e di altri insetti voraci i quali lo costringevano a battere sollecitamente in ritirata.
Cercò di girarla a destra e si trovò imbarazzato fra sabbie tenaci, pullulanti del pari d’insetti e soprattutto di certe mosche verdi che lo mordevano crudelmente.
Nondimeno riuscì a passare per cadere in mezzo ad una vasta distesa di erbe di Guinea, formanti una vera foresta, essendo alte quattro o cinque metri.Giovanni Finfin tentò di avventurarsi in mezzo a quelle gigantesche erbe, ma ad un tratto vide le cime di quelle piante agitarsi in tutti i sensi, quantunque non soffiasse un alito di vento.
– Alto là – mormorò egli. – C’è del pericolo là entro.
Non s’ingannava. Un gran numero di animali selvatici si nascondeva in mezzo a quelle erbe: elefanti, leoni, serpenti neri, serpenti boa, scolopendre velenose.
– Diavolo! – borbottò. – Non ho nessuna voglia di provare la forza degli elefanti o gli artigli dei leoni e tanto meno il veleno dei serpenti.
Egli si mise a cercare se vi era un altro passaggio, ma dovette comprendere che non ne esistevano altri.
Si arrestò un momento, perplesso, pensando sul miglior modo di trarsi d’impiccio.
Se tornava indietro correva il pericolo di ritrovare i negri e di farsi riprendere dalla principessa e dal terribile monarca. Cercare un passaggio verso la riva era cosa assolutamente impossibile, poiché la palude si estendeva fino presso l’acqua, e se avesse voluto tentare la traversata sarebbe stato indubbiamente inghiottito da quel fango tenace e puzzolente.
Avventurarsi fra quelle alte erbe era esporsi ad una morte certa, orribile, e Finfin non lo pensava nemmeno. Solamente l’idea di trovarsi fra i serpenti lo faceva rabbrividire.
Volgere verso sinistra, si sarebbe inoltrato nel deserto, fra sabbie aride e sterpi disseccati, dove sarebbe morto di sete e forse anche di fame o per un colpo di sole. Cosa fare?
– Eccomi imbarazzato – mormorò. – Io non sono pauroso, pure non mi sento l’animo di avventurarmi in mezzo a quelle erbe. Aspettiamo domani per decidere.
Aspettare domani!… Si fa presto a dirlo, ma intanto dove rifugiarsi?… Non v’erano alberi, non vi erano nascondigli, non v’era un posto sicuro da poter accamparsi senza correre il pericolo di venire assalito da qualche bestia feroce.
Mentre pensava, un barrito strepitoso si fece udire in mezzo alle alte erbe. Finfin provò un brivido e s’affrettò a retrocedere.
– Orsù – disse – bisogna decidere qualche cosa.
Ad un tratto si ricordò delle pellirosse del Far-West. Egli non ignorava che quando quegli indiani vogliono spianarsi la via e far sparire una folta foresta ricorrono al fuoco.
– Ho trovato!… – esclamò, tutto giulivo. – Io passerò attraverso le erbe a dispetto degli animali.
Raccolse alcuni sterpi, estrasse l’acciarino e l’esca e li accese.
Un momento dopo una fitta colonna di fumo s’alzava, nascondendo le montagne, poi delle vampe che prendevano rapidamente delle dimensioni gigantesche si distesero, invadendo quella immensa superficie di erbe disseccate.
L’incendio prendeva proporzioni, spaventose, procedendo veloce. L’immensa cortina fiammeggiante si dilatava sempre con un crescendo infernale.
Era uno spettacolo splendido ed insieme pauroso. Da quella fornace ardente uscivano ruggiti, barriti, urla, muggiti, fischi e si vedevano elefanti, leoni, antilopi, gazzelle, bufali e serpenti sorgere da ogni parte e fuggire all’impazzata dinanzi all’elemento distruttore.
Giovanni Finfin, che si era prudentemente nascosto dietro ad alcuni cespugli, ridendosene delle fiamme, vide sfilare a tutta corsa una banda di leoni senza criniera, ma d’una taglia gigantesca, poi degli sciacalli, delle zebre splendidamente rigate, delle giraffe dal lungo collo e dalle gambe smisurate, dei grossi bufali dagli occhi iniettati di sangue, dei grossi cinghiali e cento altri animali a
lui sconosciuti.
Tutti quegli abitanti della gigantesca prateria fuggivano all’impazzata, urtandosi, spingendosi, senza però cercare, in quel momento, di assalirsi gli uni cogli altri, tanta era la loro paura.
In aria poi volavano, gridando e battendo vivamente le ali, aquile, avvoltoi bruttissimi dal collo spelato e mille altri volatili dalle penne brillanti e dai vivaci colori.
Tutti quei volatili voraci aspettavano che l’incendio si fosse spento per gettarsi sugli avanzi degli animali; taluni però, i più ghiotti, venivano asfissiati di colpo essendosi troppo avvicinati a quella immensa fornace e capitombolavano in mezzo alle fiamme dove miseramente perivano.
Pallido, terrorizzato, Giovanni contemplava quello spettacolo spaventevole, seguendo, cogli sguardi smarriti, la fuga precipitosa di tutti quegli animali.
Il fuoco però a poco a poco si estingueva per mancanza di alimento. Dopo d’aver attraversato, come una meteora, l’immensa pianura erbosa, andò a lambire i primi scaglioni delle montagne divorando i pochi alberi che colà crescevano, poi le vampe bruscamente si spensero.
Per qualche tempo una nuvola gigantesca di fumo nero e denso ondeggiò in aria, poi diventò più diafana e più leggera, finché un fragoroso soffio d’aria la portò via.
Animali e rettili erano ormai scomparsi.
Dinanzi agli occhi di Finfin non si estendeva che una grande pianura grigia, coperta di cenere, dove terminava di consumarsi qualche ruminante o qualche animale feroce che non aveva avuto il tempo di abbandonare quella fornace immensa.
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