Mentre Enogat correva attraverso il deserto, Giovanni Finfin e Pompeo, solidamente attaccati sulla gobba d’un cammello mahari, seguivano i loro rapitori.
Gli jagas, pienamente sconfitti, avevano abbandonata l’oasi più che in fretta e tornavano verso il loro rifugio, un’altra oasi in mezzo al grande deserto e che si chiamava Ain-Noubas, ossia delle otto fontane.
Dall’accampamento dei bornesi a quell’oasi misteriosa correva una distanza enorme, ma i cammelli mahari sono dotati d’una resistenza incredibile e di una velocità straordinaria.
Non è raro il caso di mahari che hanno potuto percorrere, in sole dodici ore, perfino centocinquanta miglia.
Giovanni Finfin e Pompeo, scortati da quindici jagas montati del pari su dei cammelli, impiegarono solamente undici ore a giungere in una seconda oasi lontana cento miglia da quella dei bornesi, undici ore però di corsa sfrenata ed incomoda all’eccesso.
Infatti quando videro le prime palme di quel giardino perduto fra le sabbie, avevano le membra talmente fracassate da non poter fare più il menomo movimento.
Giunti all’ombra di quelle piante i guerrieri jagas li liberarono dalle corde, lasciandoli cadere brutalmente al suolo e si misero ad osservarli con viva curiosità, senza però nulla dire.
– Cosa vorranno fare di noi? – si chiese Finfin con una certa ansietà. – Io temo che vogliano prepararci qualche brutta sorpresa.
Pompeo invece di riflettere aveva dato segni di una violenta collera, tentando, ma inutilmente, di rompere le solide corde che gli legavano ancora i piedi ed i polsi.
Se fosse stato libero, non avrebbe esitato a far conoscere a quei predoni, il peso delle sue braccia e la potenza de’ suoi muscoli.
Due ore trascorsero così, poi giunsero in quell’oasi tutti gli altri cavalieri che avevano preso parte all’assalto dei bornesi. Alcuni di quei cavalieri avevano potuto rapire alla carovana degli schiavi e parevano contenti anche di quel magro bottino.
Il capo degli jagas, sapendo che fra i prigionieri vi era un uomo bianco, si affrettò ad andarlo a visitare.
Quel capo selvaggio, era un negro di alta statura, con una bella testa dai lineamenti regolari, che tradivano l’incrocio del sangue africano con l’arabo, col petto ampio e le membra muscolose.
I suoi capelli erano leggermente increspati e d’una tinta grigio-ferrea del più strano effetto.
Egli indossava una specie di camicia assai lunga, bianca a righe rosse e stretta alla cintura da una fila di grosse uova di struzzo.
Per armi aveva uno spadone che portava appeso alla spalla sinistra ed un lungo fucile incrostato di laminelle d’argento e di pezzi di madreperla.
Vedendo Finfin, parve assai stupito di quella tinta bianca e non lo fu meno nel vedere Pompeo, animale che mai aveva trovato nel deserto. Probabilmente lo scambiava per un essere umano appartenente ad una razza sconosciuta.
Il capo, dopo di aver guardato a lungo Finfin e la scimmia, ordinò a due dei suoi uomini di liberarli dai legami.
Il bretone, sentendosi libero, con uno sforzo si alzò in piedi, chiedendo al capo che cosa voleva farne di lui.
Pompeo invece, appena vide cadere le corde, balzò alla gola dell’uomo che gli stava più vicino e lo avrebbe certamente strangolato se Finfin non lo avesse arrestato con un grido imperioso.
Il capo, che aveva già armato precipitosamente il fucile, comprese certamente che quell’uomo peloso obbediva al giovane bianco e parve che fosse riconoscente a quest’ultimo di aver salvata la vita ad uno de’ suoi guerrieri.
Diede alcuni ordini e poco dopo alcuni negri offrivano ai due prigionieri dei datteri, delle focacce di maiz e del latte di cammella.
– Buon segno – disse Finfin. — Ciò significa che questi negri non hanno intenzione di lasciarci morire di fame. Vedremo poi che cosa vorranno fare di noi.
Quand’ebbero mangiato e bevuto a sazietà, il capo li fece nuovamente legare, però questa volta lasciò loro liberi i piedi, facendo loro comprendere che potevano, volendolo, anche passeggiare.
– Che disgrazia che non sia qui Enogat – disse Finfin. – Avendo i piedi liberi noi potremmo raggiungerlo e fuggire. Mio povero Pompeo, non sai adunque nulla del nostro amico?
La scimmia mandò un grido di tristezza e cacciò la sua testa fra le gambe del padrone.
— Orsù, non disperiamo, Pompeo — disse Finfin. — Enogat è un animale intelligente e forse riuscirà a trovarci. Quantunque sia pesante fa dei passi giganteschi ed in una giornata percorre un bel numero di leghe.
Mentre il bretone e la scimmia riposavano, gli jagas avevano raccolta molta legna secca ed avevano acceso un fuoco capace di arrostire un bue intero.
Poco dopo alcuni guerrieri conducevano dinanzi a quel gigantesco braciere due prigionieri rubati ai bornesi e con due colpi di sciabola li uccidevano.
Privati della testa, quei poveri corpi, ancora palpitanti, furono messi ad arrostire.
— Ah! Canaglie! — esclamò Giovanni, con ribrezzo. — Sono caduto nelle mani di antropofaghi! Se anche a me è riservata una tale sorte, ho avuto torto a fuggire dalla corte di Mao-Kombo. Lì almeno sarei diventato principe.
Mentre quei feroci cannibali divoravano il pasto umano, Giovanni s’era messo ad osservarli ed aveva notato che non parevano appartenere tutti alla medesima razza.
Vi era una grande varietà di tipi, come se quella tribù fosse stata formata da un grande numero d’individui provenienti da altri paesi.
Vi erano dei negri yolof, riconoscibili per la loro pelle assai oscura, per le loro labbra che sono assai grosse e sporgenti, per il naso assai schiacciato, i capelli corti e crespi e la barba rada e arricciata; vi erano però altri che avevano lineamenti più regolari e la tinta più o meno bruna, e qualcuno anche che sembrava appartenere alla razza mora delle coste del Mediterraneo.
Nondimeno, quantunque dovessero appartenere a razze diverse, parlavano tutti la medesima lingua ed avevano gusti ed abitudini identiche.
Come spiegare quel singolare fenomeno?
Nulla di più facile per chi conosce gli jagas.
Questa tribù che vive nel grande deserto ed anche nei dintorni del lago Mera vi, ha la triste abitudine di sotterrare vivi i bambini che nascono presso di loro.
Si capisce che con quel barbaro sistema la tribù ben presto finirebbe di esistere.
Per ovviare a quel grave incidente, gli jagas fanno delle scorrerie nei paesi vicini ed anche lontani e vanno a rapire i bambini agli altri, facendo loro adottare i propri usi e le proprie abitudini detestabili.
Ecco il motivo per cui fra di loro si trovano tanti tipi diversi.
Quando gli jagas ebbero terminato il loro pasto, legarono i prigionieri sul dorso dei cammelli e si rimisero in viaggio attraverso le sconfinate pianure sabbiose.
Giovanni e Pompeo erano stati messi su di un cammello il quale si trovava alla testa della lunghissima colonna.
Presso di loro però si trovava il capo, il quale pareva che non si fidasse molto di quell’uomo bianco e del suo compagno villoso. Probabilmente ci teneva molto a far vedere al suo popolo quei due singolari prigionieri.
Quella seconda marcia, sotto un sole cocente, in mezzo a sabbie ardenti, quasi prive di oasi, fu lunghissima e mise a dura prova la pazienza del povero bretone.
Quattro giorni dopo però, gli jagas giungevano finalmente nella loro oasi chiamata delle otto fontane. Vi giungevano stremati da quelle lunghissime marce, assai faticose nel deserto.
Solamente i cammelli erano in ottimo stato, anzi parevano si fossero quasi allora messi in viaggio.
Quei preziosi animali sono davvero instancabili e sono capaci di marciare dei mesi interi senza soffrire sotto quei climi ardenti. In cambio di quegli impagabili servigi si accontentano d’un cibo scarso ed anche cattivissimo, d’un cibo che altri animali rifiuterebbero.
Poca acqua calda, semi-imputridita, e qualche po’ d’orzo secco e delle erbe dure ed amare costituiscono il loro principale nutrimento. D’altronde il deserto non potrebbe offrire di più.
Come si sa vi sono due specie di cammelli: i mahari che sono da corsa e che per velocità e resistenza superano i migliori cavalli del mondo ed i djemel, ossia con due gobbe.
I primi vengono adoperati come cavalcature e sono adoperati anche in guerra; i secondi invece, che camminano sempre lentamente, non essendo capaci di correre, vengono adoperati pel trasporto delle mercanzie. Sia gli uni che gli altri, rendono alle popolazioni del deserto dei servigi che nessun altro animale potrebbe dare.
Non si creda però che sia dolce la loro andatura, anzi tutt’altro. Per colóro che non vi sono abituati, cagiona degli acuti dolori alle reni e sovente una specie di mal di mare.
Finfin aveva provato a sue spese il modo di viaggiare, durante quelle lunghissime marce. Infatti quando fu segnalata l’oasi, il povero giovanotto si sentiva le ossa peste e se quel viaggio fosse durato ancora, probabilmente non avrebbe resistito.
La carovana, giunta nell’oasi, si trovò su di una pianura ondulata, cosparsa di palme e coltivata a maiz, dove gli occhi di Finfin, bruciati dal calore del deserto e dalla rifrazione delle sabbie, potevano riposarsi un po’ su quel verde.
Un ruscello solcava la pianura correndo verso l’est. Forse quel corso d’acqua andava a gettarsi nel lago Meravi sulle cui rive sorge là città degli jagas.
Attraversata quella pianura, la carovana si inoltrò entro una profonda vallata fresca e ricca di verdura, entro la quale scorreva il ruscello poco prima accennato, descrivendo delle curve capricciose.
Giunti all’estremità, i cavalieri cominciarono a salire un sentiero che pareva fatto dalle capre e che si inoltrava fra due montagne di natura calcarea.
Sulla cima di uno di quei picchi, terminanti in forma di cono, si alzava la fortezza degli jagas. Un villaggio che visto dal basso rassomigliava ad un gigantesco nido d’aquila. Quell’asilo era inaccessibile, non avendo che quel sentiero che conduceva lassù. Un esercito che avesse voluto forzare quel passo, avrebbe avuto indubbiamente la peggio.
Giunti a metà della montagna il sentiero si divise in due: l’uno conduceva alla rocca, abitata dai soli guerrieri e dalle loro donne, l’altro invece metteva capo ad un piccolo villaggio abitato dai giovani guerrieri ancora celibi.
In quel punto si distingueva il lago Meravi, un vasto bacino di parecchie leghe d’estensione, incassato fra le montagne.
Gli jagas, giunti a quella biforcazione si divisero, i giovani coi prigionieri si diressero verso il villaggio e gli altri proseguirono la loro marcia per giungere alla rocca.
Il villaggio dei giovani guerrieri si componeva di una cinquantina di capanne, disposte senza ordine, alcune situate sul pendìo del monte ed altre entro una specie di conca assai vasta.
Fu in una di quelle capanne che Finfin e Pompeo furono relegati, in attesa delle decisioni che avrebbero preso il re ed i capi degli jagas.
– Cosa accadrà ora di noi? – si chiese Finfin quando si trovò solo. – Che m’ingrassino per mangiarmi poi alla corte, o che mi tengano schiavo per sempre?
Ed Enogat? Dove sarà l’elefante? Ah! Se si trovasse con me, la libertà non sarebbe difficile ad acquistarsi. Speriamo di uscir presto da questa angosciosa situazione.
La prima notte che le sentinelle s’addormentano noi fuggiremo, dovessimo correre centomila pericoli in mezzo al deserto.
Non ostante le sue apprensioni Giovanni Finfin si sdraiò su di un letto di foglie e s’addormentò profondamente per riparare le proprie forze.
In quanto a Pompeo si mise a girare e rigirare per la capanna, colla speranza di trovare una via per fuggire. Non avendo trovata alcuna apertura, dopo di aver brontolato a lungo, si coricò vicino al padrone cercando d’imitarlo.
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