Generalmente si crede, quasi da tutti, che il deserto sia uniforme e che sia formato esclusivamente da pianure sabbiose aridissime, senza piante e senza acqua.
Questa credenza è assolutamente falsa.
In mezzo a quelle pianure senza fine si trovano dei gruppi di palmizi, delle oasi ridenti e anche delle sorgenti abbastanza fresche e così abbondanti da dissetare delle carovane numerosissime.
Anche le tinte non sono uniformi nel deserto e vi è una grande diversità fra il giorno e la notte. I colori sono svariati, le mezze tinte del tramonto e dell’aurora splendide, ed anche fra quelle pianure sabbiose si possono godere degli spettacoli superbi.
Nel momento in cui raggiungiamo la carovana che conduceva Giovanni Fin fin verso le misteriose città del deserto africano, il sole stava per tramontare fra un mare di fuoco. Non una nube su quel cielo purissimo, non un atomo qualsiasi. Non un alito di vento agitava le grandi foglie del palmizi e nessun rumore si udiva in quelle sterminate pianure sabbiose.
Il disco del sole, rosso come una lastra di rame incandescente, aveva preso delle proporzioni gigantesche, mentre le ombre degli uomini e degli animali si allungavano smisuratamente di passo in passo che l’astro scendeva verso il tramonto.
La carovana che marciava dalle quattro del pomeriggio s’era arrestata sul margine d’una oasi, mettendo al centro gli animali per proteggerli contro gli assalti delle belve feroci, essendo numerose anche nel deserto.
I leoni, le tigri, i serpenti non scarseggiano, specialmente nei dintorni delle oasi, attendendo il passaggio degli struzzi e delle gazzelle per nutrirsi.
Oltre le fiere però vi sono anche i pirati del deserto, tribù nomadi che vivono per lo più di saccheggi, assalendo le carovane che incontrano nelle loro continue emigrazioni.
Pericolosissimi sono soprattutto al sud del grande deserto gli jagas, negri feroci, coraggiosi e che dicesi siano anche antropofaghi.
Distribuita la cena e divoratala, bornesi e schiavi si coricarono in mezzo ai palmizi ed in mezzo alle balle di mercanzia, le quali erano state disposte in modo da formare una specie di trincea.
Alcune sentinelle a cavallo erano state mandate nel deserto per vegliare e si vedevano andare e venire, armate dei loro lunghi fucili. Di quando in quando per avvertire che facevano buona guardia, intonavano delle monotone canzoni.
Giovanni Finfin, coricato sotto un grande sicomoro che cresceva sul margine dell’oasi, cercava invano di dormire.
Tristi pensieri lo tenevano sveglio. Pensava alla sua cattiva situazione, a Pompeo, all’elefante, alla Francia, al buon curato di Sant Enogat e al capitano dell’Aglae e si chiedeva insistentemente se non avrebbe trovato una occasione propizia per riacquistare la libertà. L’idea di finire i suoi anni in schiavitù lo spaventava al massimo grado.
Era così immerso ne’ suoi pensieri, quando una foglia alla quale era attaccato un piccolo ramo gli cadde addosso.
Non soffiando il menomo alito di vento alzò il capo, guardando attraverso il nero fogliame del grand’albero.
La luna splendeva ancora, però il sicomoro aveva una vegetazione così fitta da non potersi distinguere nulla attraverso i suoi rami.
Credendo che quella foglia fosse caduta accidentalmente tornò a coricarsi, ma dopo qualche istante un altro ramoscello cadde colpendolo sul naso. Non trovando la cosa naturale s’alzò prontamente mormorando:
– Che ci sia qualcuno nascosto lassù? – e guardò di nuovo in aria con grande attenzione, per vedere chi poteva essere l’autore di quello scherzo, e fra le tenebre proiettate dal fogliame potè distinguere due occhi brillanti come due carboni, che si tenevano fissi verso il suolo.
– Che vi sia qualche animale lassù? – si chiese con un po’ d’inquietudine.
Ad un tratto un pensiero attraversò il cervello del giovane bretone. – Che sia Pompeo? — si chiese.
Quella speranza gli aveva fatto battere vivamente il cuore.
Guardò nuovamente e vide un’ombra gigantesca, quasi umana, disegnarsi fra la cupa ombra delle foglie e dei rami.
Accostò le mani alle labbra e formando una specie di portavoce, chiamò dolcemente:
— Pompeo! Pompeo!
L’ombra umana abbandonò il centro dell’albero, si portò verso l’estremità di un ramo solido ma flessibile, e tenendosi aggrappata pei piedi si allungò verso Finfin fino a toccarlo.
Il bretone aveva trattenuto a gran pena un grido di gioia.
— Mio bravo Pompeo! — esclamò. — Finalmente ti ritrovo.
E si mise ad accarezzare la scimmia gigante la quale pareva fuori di sé per la gioia d’aver ritrovato il suo padrone.
Dopo quelle prime carezze Pompeo allungò le sue poderose braccia, strinse il giovane bretone al petto e con uno sforzo erculeo lo levò in aria deponendolo fra i rami del sicomoro.
Quando gli fu accanto cominciò a mandare delle deboli grida di gioia, ma Finfin, temendo che le sentinelle le udissero, si affrettò a dire al bravo scimmione:
– Zitto, mio fedele amico. Se i bornesi se ne accorgono, siamo perduti, bisogna essere prudenti se vuoi che restiamo liberi.
Pompeo lo comprese perfettamente, perché cessò dal gridare. Stette accanto al padrone alcuni minuti, poi si alzò di tratto e si mise a correre attraverso i rami come se cercasse qualche cosa.
Poco dopo tornò verso il padrone, se lo prese fra le robuste braccia e raggiunto così dei più grossi rami si spinse verso l’estremità, procurando di non cadere. Accanto al sicomoro ne crescevano degli altri i quali si prolungavano verso il centro dell’oasi.
Pompeo, tenendo sempre ben stretto il padrone, si slanciò su di un secondo albero, poi su un terzo e continuò quella pericolosa e difficile manovra finché si trovò a parecchie centinaia di passi dall’accampamento dei bornesi.
Vedendo che da quella parte non vi erano sentinelle, scese a terra e depose Finfin alla base d’un grosso palmizio, il cui tronco bastava a nasconderli entrambi.
– Grazie, mio bravo Pompeo – disse Finfin. – Ora possiamo fuggire. E dell’elefante, di Enogat, cos’è avvenuto?
Pompeo si mise a fare de’ gesti, come se avesse voluto fargli comprendere che il loro camerata non si trovava lontano.
– Benissimo – disse Finfin, che bene o male lo aveva compreso. – Voi siete fuggiti insieme. Se anche Enogat è qui, allora poi in breve saremo liberi e potremo riderci di tutti i bornesi dell’Africa.
Finfin e Pompeo dopo un istante di sosta s’erano messi in cammino per raggiungere l’elefante, quando un clamore spaventevole, uno di quegli urli di guerra che si odono solamente nei paesi abitati dai negri e dalle pellirosse, echeggiò sul margine dell’oasi.
Nel medesimo istante una specie di tromba marina si rovesciò su di loro, abbattendoli d’un colpo solo.
Quei nemici non erano i bornesi, bensì i ferocissimi jagas del deserto i quali stavano per assalire la carovana per depredarla degli schiavi, delle merci e degli animali.
In un istante Giovanni Finfin e Pompeo furono strettamente legati senza che avessero potuto opporre la menoma resistenza e gettati sul dorso di uno di quei cammelli chiamati mahari, che usano i nomadi del gran deserto.
Le sentinelle bornesi però, avevano dato a tempo l’allarme. Prima che gli jagas giungessero presso l’opposto margine dell’oasi, tutti i bornesi erano in piedi colle armi in mano, nascosti sotto la fitta ombra delle palme e dei sicomori e riparati dietro alle trincee formate dalle casse e dalle balle di mercanzia.
Gli schiavi non ignorando che si sarebbero trovati meglio presso i bornesi, gente quasi civile, si erano messi dalla parte dei loro padroni non volendo cadere nelle mani dei selvaggi scorridori del deserto.
Nascosti come erano e ben trincerati, i bornesi occupavano una posizione certamente migliore dei loro avversari.
Gli jagas, non vedendo i carovanieri, si arrestarono un po’ titubanti, ma udendo i nitriti dei cavalli ed i ragli degli asini, indovinarono tosto la posizione che occupavano, e senz’altro si slanciarono all’attacco.
Se i bornesi erano favoriti dal terreno e dalla trincea, gli scorridori del deserto non erano uomini da dare indietro.
Montati sui loro cavalli di razza berbera, animali veloci e che non stanno un momento fermi, cominciarono ad attaccare i carovanieri con grande slancio, usando una tattica speciale.
Quei nomadi non si rovesciavano sulle posizioni nemiche all’impazzata, ne offrivano un bersaglio sicuro alle palle. Radunati in piccoli gruppi od isolati, facevano fuoco coi loro lunghi fucili, poi fuggivano per ricaricare le armi e quindi tornavano a far fuoco, tenendo il corpo riparato dietro al collo dei loro cavalli.
I mercanti bornesi facevano un fuoco continuo, però con poco successo in causa della eccessiva mobilità degli jagas.
Già cominciavano a disperare della vittoria, quando un ausiliario potente e formidabile venne a spargere la confusione e lo spavento fra gli scorridori del deserto. Quel soccorso veniva offerto dall’elefante. Enogat, durante la spedizione di Pompeo, si era arrestato a poche centinaia di passi dall’oasi, nascosto dietro una collinetta sabbiosa.
Udendo il grido di guerra degli jagas e le detonazioni delle armi da fuoco, il pachiderma aveva rizzate le sue gigantesche orecchie per ascoltare, sperando di udire la voce del padrone o quella di Pompeo.
Nulla udendo, cominciò a dar segni d’inquietudine, temendo forse che il padrone e la scimmia corressero qualche pericolo, poi, impotente a trattenersi, si alzò.
Vedendo quella massa di cavalli e cavalieri, credette forse che si preparassero ad assalire il padrone o la scimmia e si precipitò risolutamente innanzi in preda ad un vero furore.
Il colosso piombò alle spalle degli jagas, mandando sottosopra uomini ed animali col suo urto poderoso, poi cominciò a lavorar colla proboscide.
L’improvvisa comparsa di quel colosso, e la strage che faceva, sparse uno spavento irresistibile fra gli assalitori. Probabilmente credevano d’aver da fare con qualche potente divinità dei bornesi, non avendo mai veduto simile mostro nei loro deserti.
Senza osare di volgere le armi contro di lui, si misero a fuggire in tutte le direzioni, spronando furiosamente le loro cavalcature.
I bornesi, non sapendo ancora a cosa attribuire la fuga degli jagas, si slanciarono all’aperto per inseguirli, e solamente allora si accorsero della presenza del terribile elefante.
Il capo della carovana lo riconobbe subito per quello che aveva voluto vendergli Korosko e s’immaginò il motivo della sua improvvisa comparsa.
— Egli deve essere fuggito per venir a raggiungere il suo padrone — mormorò.
– Ecco un animale che ci renderà dei preziosi servigi.
L’elefante, sgominati gli scorridori del deserto, si era diretto verso l’oasi.
I bornesi, temendo che se la prendesse anche con loro, avevano abbassate le armi e si erano ritirati dietro la loro trincea.
Enogat passò a breve distanza dai combattenti senza curarsi di loro e andò a visitare gli schiavi fermandosi dinanzi a ciascuno per vedere se vi era il suo padrone.
Non trovandolo si addentrò nell’oasi cacciandosi in mezzo agli alberi, fiutando il terreno, rovesciando i cespugli per vedere se il padrone si era fermato colà.
Quando fu certo che colà non si trovava, il povero animale si accovacciò dando segni del più vivo dolore con dei barriti interminabili.
Rimase colà tutta la notte lamentandosi, poi l’indomani, quando vide i bornesi abbandonare l’oasi e riprendere la via del deserto, si mise a seguirli. I bornesi credevano di averlo ormai in loro potere, quando tutto d’un tratto lo videro fermarsi sulla pista degli jagas e fiutare a lungo il terreno.
Pareva che l’intelligente animale cercasse qualche traccia.
Le sue ricerche durarono alcuni minuti, poi abbandonò bruscamente la carovana e partì di corsa, seguendo le orme lasciate dagli jagas nella loro precipitosa ritirata.
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