L’orso

Randolfo che non aveva dormito che pochissimo durante la notte, anche per causa delle corde che lo tenevano legato addolorandogli le membra, rassicurato dalla tranquillità che regnava nella prateria, dopo di essere rimasto qualche po’ svegliato, si sdraiò presso il torrente cercando di seguire il consiglio suggeritogli dallo scorridore.
Non era trascorso un quarto d’ora che già dormiva profondamente, sognando di trovarsi sulle rive del Rio Pecos.
Svegliatosi dopo un paio d’ore, si guardò intorno, credendo di vedere lo scorridore. Si trovò invece solo, cioè non precisamente solo, perché girando gli sguardi verso il fuoco che terminava di spegnersi, vide un orribile spettacolo.
A poca distanza da lui, forse a due metri, se ne stava avvolto su se stesso un grosso serpente.
Il rettile dormiva, poteva però da un momento all’altro svegliarsi, svolgersi come una molla, stringerlo e cacciargli nella gola i suoi denti velenosi.
Atterrito, Randolfo non aveva osato di muoversi.
A pochi passi stava ancora fra le erbe il fucile di Pankiskaw, pure il povero giovane non si sentiva il coraggio di trascinarsi fino là, nella certezza di non giungere in tempo di prenderlo e di caricarlo.
Solo l’immobilità assoluta poteva salvarlo.
Quel rettile misurava non meno di sei piedi; il suo dorso giallastro, coperto di macchie brune, era grosso quanto la gamba di un uomo.
E quanto era schifosa quella testa schiacciata e coperta di scaglie!
Dopo qualche minuto il rettile si agitò, poi alzò la testa fissando sul giovane atterrito due occhi vitrei che facevano male a vederli.
Randolfo trattenne il respiro e per alcuni secondi, che gli parvero lunghi come secoli, il serpente continuò a fissarlo.
Finalmente la testa si abbassò di nuovo. Era tempo, perché Randolfo si sentiva impotente a resistere più a lungo ad una simile prova.
Soffocava! Sentiva un peso enorme gravargli sul petto che gl’impediva di muoversi.
Una seconda volta il rettile alzò la testa, poi, lentamente, uno ad uno, svolse gli anelli.
Randolfo udì il rumore dei sonagli prodotto dalla coda e comprese che quel pericoloso vicino stava per andarsene. Era più che necessario impedire ai nervi di non muoversi.
Il mostro si avvicinava quasi insensibilmente; già stava per toccare il disgraziato giovane che era paralizzato dal terrore.
Pure non si mosse, anzi s’irrigidì come una pietra. La sola immobilità, come si disse, poteva forse salvarlo.
Un mezzo minuto dopo si udì un grido nella foresta. Era lo scorridore che ritornava.
Il serpente, spaventato, era fuggito precipitosamente salvandosi nei vicini cespugli.
Randolfo si alzò di scatto cercando cogli sguardi Diego e non lo vide. Pure era certo di aver udito la sua voce.
Proprio nel medesimo istante che si chiedeva cosa fosse avvenuto al suo salvatore, lo udì a gridare:
– Presto, preparate la carabina, signor Randolfo! Non vi è un momento da perdere.
Poi lo vide uscire dal bosco correndo con tutte le forze. Era disarmato ed aveva perduto perfino il cappello.
Egli non si arrestò se non quando si trovò presso Randolfo, il quale si era già precipitato sul fucile di Pankiskaw.
– Cosa avete, Diego? – chiese il giovane.
– Guardate!
Il giovane uomo credeva di veder uscire dalla foresta una mezza dozzina di pelli-rosse, ed era già deciso a non lasciarsi scotennare, se non a caro prezzo.
Improvvisamente i cespugli si aprirono e ne uscì un orso nero, enorme. Pareva furioso e digrignava i denti preparandosi a fare una ben triste accoglienza a quanto si sarebbe presentato sulla sua strada.
Era una di quelle belve dalla testa allungata, che sono così famose nel distruggere in una sola notte un intero campo di granoturco.
Era poi enormemente grosso, ciò che rendeva un po’ difficile abbatterlo con un solo colpo di fucile.
Quando vide l’accampamento, suo primo moto fu quello di dirigersi verso i cavalli, poi vedendo gli uomini cambiò via e si slanciò verso di loro tenendosi ritto sulle zampe posteriori.
Randolfo si era armato del fucile del vecchio indiano, ed il vendicatore di una pesante scure.
– Mirate alla testa! – gridò questi.
– Non mancherò al colpo – rispose Randolfo. – Temo però che la pallottola devii con quello strato di grasso.
– Fuoco! – gridò Diego.
L’orso era già loro addosso.
Randolfo scaricò il fucile. La palla aveva colpito l’animale in pieno muso; però non bastava.
– Siamo perduti! – aveva gridato Diego.
Un istante dopo la fiera, quantunque perdesse sangue in abbondanza, si scagliava addosso a Randolfo, cercando di afferrarlo e di stritolargli le ossa con una stretta formidabile.
Il disgraziato giovane aveva mandato un grido di terrore:
– Aiuto, Diego!
Un momento di esitazione ed egli era bello e spacciato. Lo scorridore per buona fortuna non aveva perduta la testa. Afferrata la scure si scagliò innanzi e la lasciò cadere con forza irresistibile sul cranio dell’animale, spaccandogli in due il cervello.
Sebbene moribonda, la fiera tentò ancora, con un’ultima stretta, di fracassare le costole al suo avversario, però le forze la tradirono e cadde a terra vomitando un gran fiotto di sangue.
– È morto – disse Diego.
– Grazie – gli disse Randolfo, porgendogli la mano.
– Voi avete salvato me ed io ho salvato voi – rispose lo scorridore. – Siete stato ferito?
– No, però ho creduto proprio di andarmene all’altro mondo. Dove avevate incontrato quel bestione?
– Nella foresta. Stavo raccogliendo un tacchino selvatico che avevo sorpreso nel suo covo, quando mi vidi rovinare addosso quella fiera.
«L’assalto fu così improvviso che mi mancò il tempo di prendere il fucile che avevo appoggiato al tronco di un albero.
«Per non venire ucciso fuggii disperatamente, dirigendomi verso l’accampamento, onde chiamarvi in mio soccorso. Se fossi stato solo, sarebbe stata finita per me.»
– Ed il vostro fucile?
– Andrò a cercarlo.
– Volete che vi accompagni?
– No, amico. Non dobbiamo abbandonare i cavalli. Qualche altra fiera può assalirli. Prima però tagliamo un pezzo d’orso; ci servirà da cena.
Armatosi della scure, Diego staccò all’orso una delle zampe deretane, la scuoiò e la porse a Randolfo promettendo di fargli assaggiare un arrosto squisito.
Ciò fatto si internò nuovamente nella foresta per andare a cercare il fucile ed il tacchino selvatico.
Quando tornò al campo, l’arrosto era pronto. Cenarono lestamente e con molto appetito, essendo deliziosa la carne degli orsi neri; poi fecero i preparativi per la partenza.
Avevano tre cavalli, quattro fucili, munizioni in abbondanza ed i viveri lasciati dagl’indiani; potevano perciò attraversare la prateria senza troppi fastidi.
Già stavano per salire in sella, quando Diego, che da qualche momento esaminava con molta attenzione l’orizzonte, vide apparire bruscamente un cavaliere, il quale era uscito da un boschetto d’alberi del cotone.
– Chi può essere? – si chiese volgendosi verso Randolfo. – Non mi sembra veramente un indiano.
– Nemmeno a me – rispose il fratello di Mary. – Si direbbe che abbiamo da fare con uno scorridore.
– Può essere però un indiano camuffato da bianco. Quei serpenti sono capaci di tutto.
– Volete che gli andiamo incontro, Diego?
– Preferisco aspettarlo qui. Se ci minaccia qualche pericolo ci salveremo nel bosco.
– Leviamo il campo?
– Appoggiamoci alla foresta.
Mentre si dirigevano verso i primi alberi, lo sconosciuto aveva spronato il cavallo, dirigendosi precisamente verso il campo che Diego e Randolfo avevano abbandonato.
Giunto a cinquecento metri, scese di sella e tenendosi riparato dietro al cavallo, cominciò a marciare con molta prudenza. Quella sapiente manovra doveva avere per iscopo di non lasciarsi sorprendere da qualche palla.
Di venti in venti passi si arrestava e si curvava fra le erbe, dove si vedeva saltellare qualche cosa di bianco.
– Io conosco quel cavallo! – esclamò ad un tratto Randolfo. – Sono certo che quella bestiolina bianca che corre dinanzi all’uomo è il Piccolo Pietro.
– Chi è questo Piccolo Pietro? – chiese Diego.
– Il cane di Morton, il quacchero.
– Un vostro amico?
– E fedelissimo.
– Siete certo che sia lui?
– Ritengo di non sbagliarmi.
– E perché prende tante precauzioni?
– Non si fiderà di noi. Voi sapete che la prateria è infestata dagl’indiani.
– Vedremo se sarà veramente il vostro amico. Io intanto non lo perdo di mira ed al primo movimento sospetto gli pianto una palla nella testa.
– Vi dico che è Morton! – gridò Randolfo che lo aveva ormai riconosciuto. – Amico Morton! Le vostre precauzioni sono inutili. Vi trovate fra amici.
II quacchero udendo la voce di Randolfo, rispose con un grido di gioia.
Risalì in sella e spinse il cavallo al galoppo, preceduto dal Piccolo Pietro, il quale abbaiava allegramente.
– Voi, Randolfo! – esclamò il quacchero, quando gli fu vicino.
Balzò a terra e perdendo per la prima volta la sua flemma, si slanciò verso il giovane abbracciandolo.
– Non siete più prigioniero? – esclamò.
– No, Morton, mercé l’aiuto di questo bravo scorridore.
– Vi ringrazio di aver salvato il mio giovane amico – disse Morton, volgendosi verso Diego.
Questi gli porse la mano, dicendo:
– So che voi siete un valoroso. Sono contento di vedervi qui. Fra noi tre faremo grandi cose.
– E di mia sorella, non ne sai nulla? – chiese Randolfo a Morton. – E Telie?
– So che sono prigioniere di Doc, il capo bianco. Non inquietatevi per loro però; il padre non ucciderà la figlia né l’amica di sua figlia.
– Credi che le proteggerà?
– Non ho alcun dubbio su ciò. Doc non può aver dimenticato che Telie è sua figlia.
– E tu, come ti trovi qui?
– Ve lo dirò poi. Datemi intanto qualche cosa da mangiare. Sono dodici ore che io galoppo senza tregua dietro le vostre tracce.
Diego estrasse dalla sua bisaccia alcune gallette di granoturco, un pezzo d’orso arrostito che era avanzato dalla cena ed una fiasca piena d’acquavite.
La partenza fu sospesa ed il fuoco nuovamente acceso, essendo Morton in tale condizione da non poter ripartire senza qualche ora di riposo.
Quand’ebbe mangiato, il quacchero accese la sua pipa e rivolgendosi a Randolfo, disse:
– Ora vi dirò come sono andate le cose.
«Come vi ricorderete, io avevo lasciato la capanna della famiglia assassinata nel momento in cui gl’indiani si preparavano ad assalirvi. Per un momento ho creduto di non riuscire nell’impresa. Quattro indiani mi erano comparsi vicini, salendo silenziosamente la riva del fiume. Ebbi appena il tempo di cacciarmi in un cespuglio dove già si era rifugiato il mio fedele cane.
«Un momento che avessi tardato, e non so se sarei qui a raccontarvi l’avventura. Aspettai che si allontanassero, poi mentre voi facevate le vostre scariche, profittando della confusione causata dalle palle attraversai le linee indiane, cacciandomi nel bosco. Il pericolo non era però ancora finito. Un indiano mi aveva scorto e s’era gettato su di me colla scure alzata. Fu una grande ventura per me quella d’averlo scorto a tempo. Col calcio del fucile gli assestai un tale colpo da farlo cadere al suolo stordito e senza che mandasse un grido, diversamente avrebbe dato l’allarme ed avrei avuto alle calcagna buona parte degl’indiani che vi assediavano.»
– Una fuga veramente fortunata – disse Diego, che ascoltava Morton con vivo interesse.
– Giunto sotto i grandi alberi – proseguì il quacchero – mi diressi verso il forte, guidato dal Piccolo Pietro. Correvo come un disperato, per paura di giungerci troppo tardi per portarvi un soccorso efficace. Non distavo che poche miglia quando incontrai Harry, il figlio del colonnello, il quale guidava una truppa d’uomini. Era andato in cerca di provviste temendo che le pelli-rosse mettessero l’assedio al forte e conduceva alcuni furgoni carichi di farine e di altre vettovaglie. Lo avvertii della vostra terribile situazione e lo pregai di correre subito in vostro soccorso.
«Harry non esitò un solo istante. Radunò la sua truppa e fece prontamente ritorno verso il guado della riviera bassa, per sorprendere i vostri assedianti e sgominarli. Quando vi giungemmo dopo una marcia assai faticosa, con nostro stupore non trovammo nella foresta nemmeno una pelle-rossa. Anche la capanna da voi occupata era deserta e mezza distrutta dal fuoco.
«Ci nacque il dubbio di essere giunti troppo tardi e che gli indiani vi avessero già fatti prigionieri. Credetti d’impazzire pel dispiacere. Frugammo tutti i dintorni senza trovare le vostre tracce. Per noi voi eravate ormai perduti. Non ci rimaneva che di seguire le tracce degli indiani ed incaricai il Piccolo Pietro di quella difficile missione.
«Le pelli-rosse si erano divise nel bosco. Una banda aveva proseguito verso il Rio Pecos passando il guado; l’altra aveva continuata la marcia verso ovest. Io seguii le tracce di questa e Harry dell’altra. Seppi più tardi che aveva raggiunti e dato battaglia agl’indiani che vi avevano fatto prigionieri e che lui era stato gravemente ferito e salvato dall’Alligatore del Lago salato. Riattraversai allora anch’io il Rio Pecos e mi avanzai nella prateria. Colà la banda s’era nuovamente divisa. La più grossa si era diretta verso la montagna e l’altra, formata da quattro soli cavalieri, era risalita verso settentrione.
«Sospettai che fra queste vi fosse qualche prigioniero e seguii quelle tracce. Come vedete, non mi ero ingannato. Quei tre indiani conducevano voi.»
– Oh, Morton! – esclamò Randolfo, stringendo affettuosamente le mani del bravo quacchero. – Quanto devo a te!
– Non ho fatto che il mio dovere. Ora dobbiamo pensare a liberare vostra sorella e Telie.
– Sono molti gl’indiani che le tengono prigioniere? – chiese Diego, che fino allora era rimasto silenzioso.
– La banda deve essere grossa assai – rispose Randolfo.
– Anche a me è parsa tale – disse il quacchero. – Le orme erano numerosissime.
– Noi siamo troppo pochi, allora – disse Diego. – Tre uomini non possono affrontare una tribù.
– Dove cercare dei soccorsi? – chiese Randolfo, con un sospiro. – Al forte, forse?
– Non ne avremo – rispose Morton. – A quest’ora deve essere già assediato dai comanci.
– Che possa correre qualche pericolo mia sorella?
– Telie è furba e saprà proteggerla.
– Non potrà però farla fuggire.
– E suo padre? – chiese Diego.
– Non è il capo supremo della tribù per osare di lasciarla libera.
– Credevo che Doc comandasse a tutti i comanci – disse Randolfo.
– Ditemi, avete veduto nessun altro bianco fra gli indiani?
– No – rispose Randolfo. – Però mi ricordo d’aver osservato un uomo di statura molto alta, avviluppato in una coperta di lana bianca con un turbante adorno di molte penne.
Il quacchero alzò vivamente la testa, guardando il giovane uomo.
– Comandava la banda? – gli chiese.
– Non mi parve.
– Avete udito pronunciare il suo nome?
– Ho udito chiamarlo Koga… Konogu… ou…
– Wenouga! – gridò Morton mentre i suoi occhi si accendevano d’un lampo bieco. – È un uomo grande, ossuto, con una cicatrice al naso, che porta alla cintura molte capigliature di nemici e sulla testa un becco d’avvoltoio.
– Sì.
– Quell’uomo è Wenouga, l’Avvoltoio Nero. Il mio cane non si era ingannato.
Così parlando il quacchero si era animato ed il suo viso s’era alterato. Perché quel nome poteva scuotere quell’uomo che era sempre stato così calmo? Randolfo se lo domandava senza osare interrogare il quacchero.
Morton rimase silenzioso alcuni istanti, poi disse a Randolfo con voce cupa:
– Se la truppa indiana è comandata dall’Avvoltoio Nero, tremate per vostra sorella.

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