Quel veliero che il generoso turco metteva a disposizione della duchessa di Eboli, onde potesse giungere al castello d’Hussif ove trovavasi prigioniero il visconte francese, era una bella gagliotta mercantile, navi usate in quell’epoca dai naviganti dell’Arcipelago greco, presa probabilmente dai turchi i quali esercitavano una vera pirateria nei mari del levante.
Come abbiamo detto, non stazzava più d’un centinaio di tonnellate, nondimeno era una vera nave da corsa a giudicare dallo sviluppo straordinario delle sue vele e dalle sue forme svelte e portava un armamento considerevole per essere di così piccola mole, avendo due colubrine in coperta, e altre quattro dietro i sabordi di babordo e di tribordo. Già tutti i velieri che percorrevano allora il Mediterraneo, diventato il meno sicuro di tutti, dopo l’accrescersi della potenza turca, nemica spietata della cristianità e d’ogni commercio, erano più o meno armati onde poter resistere ai corsari mussulmani che salpano senza tregua dai porti dell’Asia Minore, dell’Egitto, della Tripolitania, di Tunisi, dell’Algeria e del Marocco.
Papà Stake, appena messo i piedi sulla tolda e dato uno sguardo all’alberatura ed ai rinnegati greci che formavano l’equipaggio, si era mostrato soddisfatto della sua ispezione.
— Scafo a prova di colubrine, velatura magnifica, marinai dell’Arcipelago nei cui cuori non deve essere ancora entrata la luce di quel brigante di
Maometto, armamento perfetto: possiamo riderci anche delle galere di quel buffone di Alì Pascià. Ti sembra, Simone?
— Buona veliera, — si accontentò di rispondere il giovane marinaio. —
Sì, faremo correre Alì, se vorrà acciuffarci.
Muley-el-Kadel si era avanzato verso l’equipaggio che si era schierato dinanzi all’albero maestro.
— Chi comanda qui?
— Io, signore, — rispose un marinaio dalla lunga barba nera e dall’aspetto energico. — Il padrone ha affidato a me la direzione.
— Cederai il comando a quest’uomo, — rispose il turco, indicando papà
Stake. — E avrai cinquanta zecchini di regalo.
— Sono ai vostri ordini, signore. Il padrone mi ha ordinato di obbedire a colui che si chiama il Leone di Damasco.
— Sono io.
Il greco fece un profondo inchino.
— Queste persone son cristiane continuò, — il turco. — Tu dovrai obbedire a loro come se parlassero e comandassero per mia bocca. Io assumo tutte le responsabilità di ciò che può accadere, trattandosi d’una spedizione che potrà essere pericolosa.
— Sta bene, signore.
— Ti avverto inoltre che tu risponderai colla testa della tua fedeltà e che se tentassi di nuocere in qualche modo a queste persone, saprei io farti ritrovare e punire.
— Ero un cristiano prima.
— Appunto per questo ti ho fatto scegliere, non avendo io, come turco, nessuna fiducia nella vostra conversione, ma non intendo perciò farvene rimprovero. Ti chiami?
— Nikola Stradioto.
— Lo terrò a mente, — disse Muley-el-Kadel.
— Corpo d’una balena! — mormorò papà Stake che aveva assistito al colloquio. — Se io fossi Mustafà nominerei subito questo turco grande ammiraglio della flotta mussulmana. Comanda come un capitano e parla come un libro stampato. Per essere un turco è meraviglioso! Questo non ha la testa di legno.
Muley-el-Kadel si era voltato verso la duchessa e presala per una mano l’aveva condotta verso prora, dicendole con un mesto sorriso:
— La mia missione è finita, signora, e la nostra partita è chiusa. Io ritorno il nemico dei cristiani e voi quello dei turchi…
— Non dite questo, Muley-el-Kadel, — disse la giovane interrompendolo
— perchè se voi non vi siete scordato di aver avuto da me la vita salva, io, non scorderò giammai la vostra generosità.
— Un altro uomo al mio posto avrebbe fatto altrettanto.
— No: Mustafà non si sarebbe dimenticato di essere innanzi a tutto mussulmano.
— Il vizir è una tigre, mentre io sono il Leone di Damasco, — rispose il turco con orgoglio.
Poi, cambiando bruscamente tono, riprese:
— Io non so, signora, come finirà la vostra avventura, nè so come voi, donna, per quanto forte e fiera, potrete liberare il signor Le Hussière.
— Temo che voi andiate incontro a dei gravi pericoli, ora che tutta l’isola è nelle mani dei miei compatrioti, i quali terranno gli occhi aperti su ogni straniero, per tema che sia un cristiano.
Lascio a voi il mio schiavo Ben-Tael, un uomo fedele e valoroso non meno di El-Kadur. Se vi trovaste un giorno in pericolo, mandatemelo e tutto quello ch’io potrò fare per la vostra salvezza, lo giuro sul Corano, signora, che io lo tenterò.
— Poco fa mi avete detto, Muley, che tornavate nemico dei cristiani.
— Non indagate il mio pensiero, signora, — rispose il giovane, mentre un rapido rossore gli imporporava la fronte — Capitan Tempesta non lascerà così presto il mio cuore…
— O la duchessa d’Eboli? — chiese la giovane con una certa malizia.
Il figlio del pascià non osò rispondere. Stette parecchi istanti come immerso in un profondo e forse tormentoso pensiero, poi, tendendo bruscamente la mano alla duchessa, le disse:
— Addio, signora, ma non per sempre. Spero un giorno, prima che lasciate l’isola per tornare nella vostra patria, d’incontrarvi.
Abbassò il capo, strinse dapprima la piccola mano della gentildonna, poi la baciò forse troppo a lungo, mormorando:
— Allah lo vuole.
Poi, senza volgersi, scese rapidamente la scala di corda e balzò nella scialuppa che l’aspettava sotto il tribordo della gagliotta.
La duchessa non si era mossa, tuttavia sembrava pensierosa. Quando finalmente si volse, la scialuppa era già giunta a terra.
Fece qualche passo per dirigersi verso poppa, dove papà Stake e Nikola Stradioto aspettavano i suoi ordini, e si trovò dinanzi l’arabo il quale la fissava con due occhi pieni d’infinita tristezza.
— Che cosa vuoi, El-Kadur? — gli chiese.
— Dobbiamo salpare le àncore? — chiese l’arabo con una voce che tremava.
— Sì, partiremo subito.
— Meglio così.
— Che cosa vuoi dire?
— Che i turchi sono più pericolosi dei cristiani e che dobbiamo tenerci lontani da loro, signora. E soprattutto sono pericolosi… i leoni turchi.
— Forse hai ragione, — rispose la duchessa, scuotendo però la testa con un moto di stizza.
Si diresse verso l’albero maestro e disse a papà Stake che stava conversando col comandante greco:
— Salpate le àncore e spiegate le vele. È meglio che prima dell’alba noi siamo lontani da qui.
— Pronti alla manovra! — comandò il vecchio mastro della Repubblica Veneta, con una magnifica voce di capitano. — Lesti, squali dell’Arcipelago!
I marinai sciolsero le immense vele latine che erano state imbrogliate lungo gli alberi, allargarono le scotte, poi fecero agire l’argano, spingendo a tutta forza le aspe per strappare dal fondo le àncore.
Quella manovra fu eseguita in pochi minuti. La gagliotta, i cui fiocchi cominciavano a gonfiarsi, girò lentamente su se stessa, poi si piegò leggermente sul babordo e filò diritta verso l’uscita della rada, rasentando delle alte scogliere tagliate a picco.
Stava per passare dinanzi alla lanterna, situata su un’alta rupe che cadeva a piombo sul mare, quando la duchessa, alzando gli occhi, scorse, fermo ed immobile sull’orlo del ciglione, un uomo a cavallo. La luce della lampada si rifletteva sulla sua cotta di acciaio che gli racchiudeva il petto e sul cimiero coperto in parte dal turbante, facendo scintillare il metallo.
— Muley-el-Kadel! — mormorò trasalendo.
Il Leone di Damasco, come avesse indovinato che la gentildonna si fosse già accorta della sua presenza, le fece colla mano destra un gesto di addio.
Quasi nel medesimo istante si udì papà Stake gridare:
— Che cosa fai, arabo?
— Uccido il turco rispose una voce che la duchessa riconobbe subito. La giovane si era voltata di scatto.
— El-Kadur; — esclamò. — Quale pazzia stai per commettere?
— Lo uccido onde voi, padrona, non gli dobbiate più alcuna riconoscenza.
L’arabo teneva in mano una lunga pistola e l’aveva puntata verso il Leone di Damasco, che rimaneva sempre immobile sul margine della rupe, ritto fieramente sul suo cavallo.
L’abisso stava sotto di lui e se una palla lo avesse raggiunto, nessuno lo avrebbe salvato.
— Spegni la miccia della tua pistola! — gridò la duchessa.
L’arabo esitò. Una terribile espressione d’odio e di ferocia alterava il suo viso.
— Lasciate che lo uccida, padrona, — disse. — È un nemico della
Croce.
— Giù quell’arma: obbedisci!
El-Kadur piegò la testa, poi con un moto rapido scagliò in mare l’arma, dicendo:
— Obbedisco, padrona.
Poi si allontanò a lenti passi verso prora, sedendosi su un mucchio di cordami e si nascose il viso fra le ampie pieghe del suo mantello bianco.
— È impazzito quel selvaggio, signora, — disse papà Stake, volgendosi verso la duchessa. — Uccidere quel brav’uomo! Si è dimenticato di già, quel pezzo di pan bigio, che senza quel turco noi tireremmo a quest’ora l’ultimo fiato sulla punta d’un palo? Quanta poca riconoscenza c’è in quei briganti dell’Arabia!
— Non badateci, mastro, — rispose la duchessa. — El-Kadur è sempre stato un po’ bizzarro. Mettetevi al timone ed aprite gli occhi. Vi potrebbe essere fuori del porto qualche galera di Alì pascià.
— Con questa nave non dobbiamo preoccuparci di quelle pesantissime veliere, signora: ne rispondo io.
Ohe! Allargate ancora le scotte! Su, squali dell’Arcipelago! Desidero passare una buona nottata.
La duchessa si era voltata nuovamente verso la lanterna già lontana due o trecento passi e scorse ancora, alla luce del fanale, la figura immobile di Muley-el-Kadel, giganteggiante nell’ombra.
— Peccato che sia un turco e che sia giunto dopo Le Hussière, —
mormorò.
In quel momento la gagliotta, che cominciava ad aumentare la corsa di passo in passo che s’appressava all’uscita della rada, girò dietro le ultime scogliere ed il Leone di Damasco non fu più visibile.
Al di fuori frescava una forte brezza che veniva da levante, la quale corrugava la superficie del Mediterraneo sollevando qua e là qualche ondata, che s’infrangeva cupamente contro i fianchi della gagliotta.
Papà Stake e Simone si erano collocati accanto alla ribolla e guidavano la leggera nave, mentre Perpignano esaminava, da conoscitore profondo, le colubrine del cassero.
La duchessa, appoggiata alla murata di babordo, in un abbandono strano, guardava sempre verso la lanterna, la cui luce brillava spiccatamente fra le fitte tenebre.
La gagliotta si comportava da buona veliera, e rimontava leggera le ondate, aumentando di velocità, man mano che si allontanava da terra. Allontanatasi d’un paio di miglia onde non correre il pericolo di dare
dentro a qualche scogliera, essendovene molte intorno all’isola di Cipro, piegò verso tramontana onde raggiungere il castello d’Hussif.
— Signore, — disse Nikola Stradioto, accostandosi rispettosamente alla duchessa. — È da voi solo che devo prendere gli ordini.
— Sì rispose la gentildonna.
— Volete approdare al castello di giorno o di notte?
— Quando vi potremo giungere?
— Il vento è buono e fra dieci ore noi getteremo le àncore nella rada d’Hussif.
— Sapete che si trovino colà dei prigionieri cristiani?
— Così si dice.
— E che fra costoro vi sia anche un gentiluomo francese?
— Può darsi, signore.
— Chiamatemi pure signora, essendo io una donna.
Il greco non fece alcun gesto di sorpresa. Evidentemente era stato avvertito o da papà Stake o dagli schiavi di Muley-el-Kadel che avevano noleggiato la nave.
— Come volete, signora, — disse.
— Conoscete quel castello?
— Sì, essendo stato colà tre settimane come prigioniero.
— Chi comanda ad Hussif?
— La nipote di Alì pascià.
— Dell’ammiraglio turco! — esclamò la duchessa.
— Sì, signora.
— Che donna è?
— Bellissima e molto energica: anzi, si dice che sia anche molto crudele verso i prigionieri cristiani. Mi ha affamato per sei giorni continui, per una mala risposta che le detti e mi fece somministrare una tale bastonatura che ne porto ancora le tracce quantunque siano trascorsi già sette mesi.
— Povero Le Hussière! — mormorò la duchessa, che non potè frenare un brivido di angoscia. — Come avrà potuto sottomettersi lui così fiero e così intollerante d’ogni giogo?
Stette qualche istante pensierosa, poi riprese:
— Potremo noi entrare nel castello, fingendoci mussulmani mandati in missione da Muley-el-Kadel?
— Giuochereste una carta pericolosissima, signora, — rispose il greco, scuotendo la testa — tuttavia non credo che si possa escogitare qualche altro motivo per mettere i piedi in quella rocca.
— Vi potremo giungere senza fare cattivi incontri?
— Ecco il difficile, signora, — disse il greco. — È probabile che nella rada vi sia qualche nave del pascià e che il suo comandante ci arresti per sapere chi siamo, da dove giungiamo e molte altre cose ancora.
— È lontano il castello dal mare?
— Qualche miglio, signora.
— Se vi sarà la nave che voi temete, l’assaliremo e la espugneremo, —
rispose la duchessa, con accento risoluto. — Siamo decisi a tutto e
credo che anche voi non rifiuterete di vendicarvi dei maltrattamenti fattivi subire dai turchi, se vi si offrisse l’occasione.
— Potete contare su di noi, — rispose il greco, — Il rinnegato è peggio dello schiavo, disprezzato e mal veduto dai turchi, e oggetto di scherno pei cristiani e, per mio conto, preferirei la morte piuttosto che continuare questa vita infame, pur di non cadere invendicato.
Da quando, per salvarmi dal palo o dai crudeli trattamenti, io ho rinnegato la Croce, più nessuno mi ha mai stretto la mano, eppure questa mano ha ucciso più di venti mussulmani a Negroponte ed a Candia.
Vi era nella voce del greco un tale accento di dolore, che la duchessa ne fu profondamente commossa. Macchinalmente gli porse la destra dicendo:
— Stringete quella che vi offre Capitan Tempesta. Il rinnegato aveva fatto un soprassalto.
— Capitan Tempesta! — esclamò, mentre i suoi occhi s’inumidivano. —
Voi siete l’eroe che ha atterrato il Leone di Damasco! Voi… una donna!
— Sono io, — rispose la duchessa.
Il greco le aveva afferrato la mano, baciandogliela.
— Torno cristiano e uomo libero! — esclamò, — Signora, potete disporre della mia vita.
— Che cercherò anzi di risparmiare, Nikola, — rispose la duchessa. — Sono troppi i cristiani morti in questa disgraziata guerra, per sacrificarne degli altri.
In quel momento s’avvicinò papà Stake, dondolandosi, come un vecchio orso, sulle massicce gambe.
— Vi è un curioso che passeggia sul mare, — disse.
— Che cosa volete dire, papà Stake? — chiese la duchessa.
— Ho scorto poco fa, due punti luminosi brillare all’orizzonte, — rispose il mastro.
— Siamo già nelle acque di Hussif, — disse il greco. — Che qualche nave del pascià incroci dinanzi la rada?
Saltò sulla murata, aggrappandosi ad un paterazzo e guardò a lungo verso tramontana.
— Sì, — disse poi, — Vi è una nave che veleggia dinanzi alla rada. Che qualcuno abbia avvertito la nipote del pascià delle nostre intenzioni?
— Solo Muley-el-Kadel le conosce e non credo che quell’uomo sia capace di tradirci, dopo d’aver dimostrata tanta generosità rispose la duchessa.
— Dall’altezza dei fanali, che cosa vi sembra? — chiese papà Stake, rivolgendosi verso il greco.
— Siamo ancora troppo lontani per poter giudicare con qualche probabilità, — rispose Nikola. — Tuttavia non credo che si tratti d’una galera.
— Che cosa intendete di fare? — chiese la duchessa.
— Continuare la nostra rotta. La nostra gagliotta è una veliera che fila col vento e che non si lascerà raggiungere. Se vedremo che vi è qualche pericolo, vireremo di bordo e ci getteremo al largo.
— Per precauzione farò caricare le colubrine, — disse Perpignano, che si era qualche momento prima accostato al gruppo, — Avete qualche artigliere a bordo per aiutarmi?
— Sono tutti soldati questi rinnegati, — disse il greco — e sanno adoperare tanto l’archibugio quanto il cannone, avendo tutti combattuto a Negroponte, a Rodi e a Candia coi veneziani. Seguitemi sul cassero: lassù potremo veder meglio.
— Io intanto, con El-Kadur, farò preparare le armi, — disse la duchessa.
— È meglio essere pronti.
La gagliotta, abilmente guidata da Nikola, il quale aveva ripresa la ribolla del timone, che fino allora aveva tenuta Simone, continuò la sua corsa verso la rada formata da una penisoletta di forma semicircolare, la quale protendevasi molto innanzi sul mare.
Sull’orizzonte si profilavano vagamente delle alte montagne.
Papà Stake fissava sempre gli sguardi sui due fanali, i quali parevano che fossero diventati immobili, come se quella nave, dopo una breve scorreria al largo, avesse gettate le àncore presso la costa.
— Sono troppo bassi, — disse ad un tratto. — Non può essere una galera quella: scommetterei uno zecchino contro un fez turco. Nikola, fate spegnere i nostri fanali.
— Stanno coprendoli con un pezzo di vela.
— Entreremo nella rada? — chiese la duchessa.
— Cerchiamo prima di vedere con chi abbiamo da fare, signora, —
rispose il greco. — Accostate lentamente, papà Stake.
Il mastro stava per dare il comando di stringere il vento, quando un lampo balenò in direzione della rada, seguito da una detonazione.
Papà Stake, Perpignano e Nikola ascoltarono attentamente, ma non udirono il fischio ben noto del proiettile.
— C’invitano ad allontanarci, — disse papà Stake. — Siamo già stati scoperti.
— Ed io ho veduto con quale nave avremo fra poco da fare, — disse il greco.
— Una galera?
— No, mastro, uno sciabecco che forse non avrà a bordo più di una dozzina di turchi.
— Buona occasione per darci dentro, — disse papà Stake. — Credete
Nikola che quegli uomini ci lasceranno sbarcare?
— Hum? Io dubito. Vorranno prima sapere chi noi siamo e dovremo subire dei lunghi e pericolosissimi interrogatori.
— Che cosa proporreste? chiese la duchessa.
— Di abbordarla di sorpresa colle nostre due scialuppe e d’impadronircene, — rispose il greco risolutamente.
— Saremo in forze bastanti?
— Lasceremo qui due soli uomini, signora. Saranno sufficienti per guardare la gagliotta. Fingiamo di obbedire all’intimazione e di tornare al largo.
La nave virò subito di bordo, mentre i marinai scoprivano per qualche istante i fanali, e si diresse verso la punta del promontorio, per far
credere ai turchi dello sciabecco che non avevano alcun desiderio di esporsi al tiro delle colubrine.
Appena però la gagliotta fu di là della punta, si mise in panna e le due scialuppe che aveva a bordo furono messe in acqua. Tutti erano già pronti. Avevano archibugi, pistole ed armi bianche.
— A voi, papà Stake, il comando della prima, con me, Perpignano, El- Kadur e sei uomini disse la duchessa. — A voi, Nikola, quello della seconda con quattro marinai. Abbordiamo di sorpresa e non facciamo fuoco se non quando saremo sotto lo sciabecco.
Scesero nelle imbarcazioni e s’allontanarono in silenzio, muovendo a forza di remi verso la rada, risoluti ad impadronirsi della nave avversaria.
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