Tornò indietro, senza essersi fatta vedere dalla scorta e chiamò il maggiordomo, che attendeva i suoi ordini in una sala attigua a quella che Haradja usava ordinariamente per ricevere le persone di sua confidenza e cenare o pranzare in loro compagnia.
Il turco, un vecchio eunuco assai obeso e di statura quasi gigantesca, doveva aver già indovinato il pessimo tiro giuocato dalla sua padrona al Leone di Damasco, poichè, nel vederla entrare, si era permesso di sorriderle e di ammiccare furbescamente gli occhi.
— Il sotterraneo è sicuro? — chiese Haradja.
— Sì, padrona, — rispose l’eunuco, — Non ha che una sola uscita e quella è chiusa da una porta laminata in ferro, capace di resistere anche ad una colubrina.
— Va’ a chiamare il comandante dei giannizzeri ed intanto fa’ servire alla scorta di Muley-el-Kadel caffè, gelati e dolci e pregali di disarmare e di riposarsi, finchè il loro padrone avrà terminato di far colazione con me.
— Obbediranno?
— Ne dubiti?
— Ho veduto il Leone di Damasco sussurrare delle parole agli orecchi di quel negro, che sembra sia il comandante della scorta.
— Va’ e non occuparti d’altro. Al resto penso io. Attendo il capitano dei giannizzeri nella mia sala.
L’eunuco, quantunque fosse poco persuaso, discese lo scalone e comandò a parecchi schiavi, che l’aspettavano sulla soglia d’una stanza a pianterreno, di portare dei copiosi rinfreschi alla scorta, poi mosse risolutamente verso Ben-Tael che pareva s’impazientisse di non veder tornare il suo padrone.
— Prega i tuoi uomini di spegnere le micce dei loro archibugi e di scendere da cavallo, — gli disse. — Il Leone di Damasco sta pranzando colla mia padrona e non sarà fra voi prima di un’ora.
Ben-Tael fece un gesto di stupore.
— Il mio signore pranza colla nipote del pascià! È impossibile!
— E perchè? — chiese l’eunuco. — Che cosa vi trovi di strano? Forse che il Leone di Damasco non era un amico della mia padrona?
— Era, — disse Ben- Tael. — Ma non so se lo sia ancora e noi non siamo giunti in qualità veramente di amici.
Dirai quindi al mio signore che noi aspetteremo il suo ritorno rimanendo in sella.
— Haradja vi manda dei rinfreschi, — disse l’eunuco, accennando agli schiavi che s’avvicinavano portando dei larghi vassoi d’argento pieni di chicchere, di tazze e di tondi colmi di pasticcini d’ogni genere.
Ben-Tael lo guardò fisso negli occhi, come avesse cercato di leggergli qualche segreto pensiero, poi rispose, con accento risoluto:
— Noi non abbiamo bisogno di nulla. Ringrazierai però egualmente la tua signora della sua gentile attenzione a nostro riguardo.
— Rifiutate?
— Sì, — risposero asciuttamente gli uomini della scorta ad una voce.
— La mia padrona potrebbe offendersi.
— Il Leone di Damasco la tranquillizzerà, — disse Ben-Tael. — Noi dobbiamo obbedire ai suoi ordini e, finchè non verrà lui a dirci di accettare, non assaggeremo nulla.
— È troppo occupato per disturbarlo per una cosa così da poco.
— Aspetteremo.
L’eunuco, comprendendo che non sarebbe mai riuscito a smuovere il negro se ne andò assai di cattivo umore, temendo un brutto scoppio d’ira da parte della sua irascibile padrona.
La trovò infatti nella sala da pranzo che girava attorno alla tavola come una tigre in gabbia, col viso animato da una collera terribile e gli occhi fiammeggianti.
In un angolo, mogio mogio, stava il capitano dei giannizzeri che aveva mandato a chiamare.
— E tu, sei riuscito almeno? — chiese la nipote del pascià, volgendosi come una furia verso il povero eunuco.
— Quegli uomini hanno rifiutato non solo di assaggiare i tuoi pasticci ed i tuoi gelati, bensì anche di disarmare e di scendere da cavallo.
— Hanno qualche sospetto forse? — chiese Haradja, impetuosamente.
— Qualche cosa temono di certo, signora. Mi sembrano tutti turbati e assai stupiti che il loro signore abbia accondisceso a pranzare con te.
— E tu, capitano, non rispondi della fedeltà dei tuoi giannizzeri? —
chiese Haradja, volgendosi al comandante del corpo di guardia.
— Si tratta del Leone di Damasco, signora, e dubito che essi si prestino a distruggere la sua scorta. Quel giovane è troppo popolare fra l’esercito mussulmano e sono certo che tutti i soldati si ribellerebbero, anche se tale ordine venisse dato dal gran Vizir Mustafà.
— Ebbene, distruggerò gli uni e gli altri! — gridò Haradja con esaltazione.
Poi, volgendosi verso l’eunuco:
— Chiama a raccolta tutti gli schiavi e gli arabi della mia scorta e fa occupare da loro le terrazze superiori e tu, capitano, va’ a disarmare i tuoi uomini giacchè non posso contare sulla loro fedeltà.
Staccò dalla parete una scimitarra da combattimento, levandosi quella leggera e ricchissima che portava più per ornamento che per altro, chiamò i due arabi che stavano di guardia nel corridoio e comandò loro di accendere le micce dei loro archibugi e di seguirla nel cortile.
La scorta di Muley-el-Kadel non si era mossa e all’estremità del cortile si trovavano radunati i giannizzeri del corpo di guardia del ponte levatoio. Avevano ancora le loro armi e discutevano animatamente col loro capitano.
Sulle terrazze dominanti il cortile una trentina di servi e di arabi avevano preso posto sui parapetti, armati di lunghi archibugi.
Ben-Tael, sicuro del valore dei suoi damaschini che aveva scelti con grande cura, aveva guardato senza paura Haradja, che s’avanzava
verso di lui colla fronte aggrottata e la sinistra posata fieramente sulla guardia della scimitarra.
— Sei tu che comandi la scorta? — chiese al negro, con voce sprezzante.
— Sì, signora.
— Ma… io ti ho veduto ancora! Tu eri fra gli uomini di Hamid! È vero.
— Non lo nego.
— E osi presentarti ancora dinanzi a me, cane d’un negro! — gridò
Haradja furibonda.
— Io devo obbedire agli ordini del mio padrone, signora, — rispose Ben- Tael, freddamente.
— Sei dunque uno schiavo di Muley?
— Sì.
— Scendi da cavallo e getta le tue armi.
— Non posso obbedirvi, signora: solo dal Leone di Damasco posso ricevere degli ordini.
— Miserabile! Sono la nipote del Pascià! Disarmate tutti o nessuno di voi uscirà vivo dal mio castello.
Nessuno dei trenta uomini si mosse, nè spense le micce degli archibugi, anzi, Ben-Tael che teneva in mano due pistole, aveva fatto atto di puntarle verso la castellana.
— Mi avete capito? — gridò Haradja, che per la prima volta si vedeva contrariata nei suoi comandi.
— Noi disarmeremo, signora, — disse Ben-Tael, — solo quando vedremo comparire qui il nostro signore. Che cosa ne avete fatto del figlio del potente Pascià di Damasco? Noi vogliamo saperlo.
— Tu lo vuoi?
— Sì, signora, — rispose lo schiavo alzando la voce, onde anche i giannizzeri che assistevano alla scena potessero udirlo. — Voi avete arrestato il Leone di Damasco e fors’anche lo avete ucciso!
Un mormorio minaccioso s’era alzato dalla scorta e fra tutti quegli uomini era passato come un fremito d’ira, a malapena represso.
— Conducete qui il Leone, signora! — gridò lo schiavo.
— Ah! Tu comandi a me? — disse Haradja, rossa di collera. — A me, giannizzeri! Disarmate questi uomini e mandateli a raggiungere, nei sotterranei del castello, Muley-el-Kadel.
Con suo immenso stupore anche i suoi uomini non si erano mossi, quantunque il loro capitano avesse gridato ripetutamente:
— Avanti! Obbedite!
— Vili! — gridò Haradja. — Vi farò impalare tutti!
Poi, alzando una mano verso i servi e gli arabi che stavano sulle terrazze, comandò:
— Fuoco! Spazzatemi questi traditori!
I trenta uomini della scorta, con una mossa simultanea avevano puntati gli archibugi verso le terrazze, facendo una scarica terribile, mentre Ben- Tael sparava le sue pistole sui due arabi che seguivano Haradja facendoli stramazzare moribondi sulle pietre del cortile.
Mentre servi e arabi, presi da un panico indescrivibile fuggivano all’impazzata attraverso le terrazze, lo schiavo, approfittando dello stupore di tutti, si era gettato giù da cavallo ed era piombato su Haradja afferrandola strettamente per una mano e puntandole contro il jatagan che si era levato dalla cintura.
— Signora, — le disse, mentre i suoi uomini ricaricavano precipitosamente gli archibugi — non vi farò alcun male Purchè diate ordine che si conduca qui subito Muley-el-KadeL. Se vi rifiutate, giuro sul Corano che vi ucciderò, qualunque cosa possa dopo accadere.
Haradja era rimasta muta ed immobile. Pareva che quell’atto audace avesse paralizzata la sua indomabile energia.
— Il Leone di Damasco o la morte, signora! — ripeté Ben-Tael, con voce ancor più minacciosa.
Haradja tentò con uno sforzo supremo di liberarsi da quella stretta senza potervi riuscire, possedendo lo schiavo di Muley-el-Kadel, sotto un’apparenza piuttosto gracile, una muscolatura di ferro.
— Non mi sfuggirete, signora, — le disse Ben-Tael. — È inutile che tentiate di resisterci e vi avverto anzi che noi siamo uomini da andare fino a fondo.
— A me, giannizzeri! — ripetè Haradja, con voce strozzata dal furore.
Anche questa volta i selvaggi e formidabili soldati del Sultano non alzarono le armi e non lasciarono il loro posto. Solamente il capitano si era slanciato innanzi per accorrere in suo aiuto e, fatti pochi passi, aveva dovuto subito fermarsi dinanzi a quattro archibugi che lo avevano preso di mira.
— Non avanzare, comandante, — aveva gridato un uomo della scorta,
— o comando il fuoco!
Dinanzi a quella minaccia, il povero capitano non aveva più osato inoltrarsi. Haradja capì finalmente di non poter più contare sopra nessuno, nemmeno sugli arabi e sugli schiavi, i quali, dopo la prima scarica che aveva fatto parecchi vuoti nelle loro file, non avevano più il coraggio di mostrarsi sulle terrazze.
— Cedo alla violenza, — disse, coi denti stretti, saettando su Ben-Tael uno sguardo pieno d’odio. — Ricordati però che un giorno la nipote del pascià si vendicherà terribilmente di te e che non morrà contenta se prima non ti avrà fatta strappare di dosso la tua nera pelle.
— Quel giorno farete di me quello che vorrete, signora, — rispose lo schiavo. — Pel momento, se vi preme salvare la vostra, dovete far condurre qui, senza ritardo, il mio padrone e signore. Non vi accordo che cinque minuti di tempo.
Haradja si volse verso l’eunuco che gli stava a pochi passi, più morto che vivo per lo spavento.
— Conduci qui il Leone di Damasco, — gli disse.
— Quattro uomini lo seguano e lo uccidano se cerca d’ingannarci, —
disse Ben-Tael, volgendosi verso la scorta.
Quattro cavalieri balzarono a terra e presero in mezzo il disgraziato eunuco, soffiandogli in faccia il fumo delle micce degli archibugi.
— Avanti e senza volgerti indietro, — gli disse uno dei damaschini, spingendolo ruvidamente, — e bada soprattutto alla tua testa che mi pare sia piuttosto pesante pel tuo collo.
Il pover’uomo, che tremava come una foglia, guidò i quattro uomini verso la base d’uno dei torrioni, aprì una porticina ferrata e scomparve colla scorta.
Ben-Tael aveva subito allentata la stretta, lasciando libera la nipote del grande ammiraglio, dicendole:
— Aspettate il ritorno del Leone di Damasco, mia signora. Forse avrà ancora qualche cosa da dirvi prima di lasciare il vostro castello.
Haradja si morse le labbra a sangue e non rispose.
Trascorsero alcuni minuti. I damaschini, sempre a cavallo, sorvegliavano attentamente le terrazze, pronti a sparare sugli arabi e sugli schiavi se avessero osato mostrarsi.
I giannizzeri guardavano ora la scorta del giovane Leone ed ora Haradja, senza aprire bocca, colle micce degli archibugi spente, decisi a quanto sembrava a nulla tentare contro il più popolare eroe dell’esercito mussulmano ed a sfidare la collera della loro padrona, senza darsene molto pensiero.
Ad un tratto i quattro damaschini apparvero, gridando:
— Salutate il Leone di Damasco!
Muley-el-Kadel era comparso dietro di loro tranquillo e sorridente.
Si fermò un momento, guardando i suoi uomini che agitavano festosamente i loro elmetti, lanciò su Haradja uno sguardo sprezzante, attraversò poi lentamente il cortile e salì sul suo cavallo, che Ben-Tael teneva per le briglie.
— Partiamo, — disse semplicemente.
La scorta gli si mise dietro e sfilò fra i giannizzeri che si erano affrettati ad aprire le file, gridando:
— Lunga vita al Leone di Damasco!
Muley-el-Kadel fece loro un gesto d’addio e attraversò il ponte levatoio. Quando fu all’estremità del piccolo altipiano si volse e vide ferma in
mezzo al ponte la nipote del Pascià che gli tendeva il pugno con un gesto minaccioso.
— Tigre! — mormorò il giovane. — Riprendimi ora se lo puoi.
E spronò il cavallo vivamente, raggiungendo in brevi istanti le pianure acquitrinose.
Solo là Muley-el-Kadel rallentò alquanto la corsa, per lasciarsi raggiungere da Ben-Tael che era rimasto indietro colla scorta.
— È necessario impedire che la galera di Metiub giunga a Hussif o la duchessa sarà perduta disse al fedele schiavo.
— E come faremo, signore? Non abbiamo navi sottomano.
— A Suda vi sono parecchie gagliotte prese ai greci e gran numero di rinnegati dell’Arcipelago e sono sia le une che gli altri sotto gli ordini del capitano Chitet, un uomo che mi deve molta riconoscenza e qualche cosa d’altro ancora.
Egli metterà tutto il suo naviglio a mia disposizione, senza sollevare alcuna difficoltà e vedremo se la galera di Metiub potrà resistere all’attacco di una mezza dozzina di quei velieri montati da gente risoluta come noi, e da rinnegati, certo ansiosi di menar le mani contro i miei compatrioti.
Vi è una via che costeggia il mare?
— Sì, padrone, ed è la più breve per giungere a Suda.
— La conosci?
— Come questa.
— Andiamo dunque a vedere il Mediterraneo — concluse Muley-el- Kadel. — Non si tratta che di far presto.
— In quattro ore noi saremo a Suda, se i cavalli non cadranno.
— Spero che resisteranno a questo ultimo sforzo.
Lasciarono la pianura acquitrinosa e piegarono verso ponente, dove una serie di collinette divideva la campagna dalle rive del Mediterraneo.
Trovata facilmente una gola attraverso quelle alture, scesero verso la spiaggia slanciandosi sulle dune, fra le quali gli isolani avevano aperto un sentiero che le sabbie, sollevate dai venti di scirocco e di ponente, avevano quasi interamente coperto.
Galoppavano da un paio d’ore, aizzando sempre i poveri animali che avanzavano penosamente, ansando e sbuffando, quando dietro una duna s’alzò un uomo seminudo, molto abbronzato, che gridò con voce stentorea:
— Ferma, Ben-Tael! Salute al Leone di Damasco!
Tutta la scorta si era fermata, sguainando le scimitarre, temendo che dietro le dune si tenessero celati altri uomini.
Ad un tratto un grido sfuggì allo schiavo di Muley-el-Kadel.
— Nikola Stradioto!
— Chi è costui? — chiese il Leone di Damasco.
— Un greco, quello che guidava la gagliotta e che ci condusse a Hussif.
— Come ti trovi qui tu? — chiese Muley, facendogli cenno di accostarglisi.
— Una domanda prima, signore. Dove andavate? In cerca della duchessa?
— Sì, e vengo in questo momento dal castello d’Hussif, credendo che fosse stata condotta colà.
— Si trova altrove, signore, e se non vi affrettate a correre in suo aiuto, non so se si salverà dalle zampe dell’avventuriero polacco.
Essi fuggono inseguiti dai marinai di Metiub.
— Che cosa mi racconti tu?
— La galera è stata incendiata da me e da papà Stake ed è affondata, non c’è quindi per ora pericolo che i cristiani vengano ricondotti a Hussif.
— E dov’è la duchessa? — chiese Muley con profonda emozione.
— Non molto lontana da qui.
— Vi è anche il visconte con lei?
— No, l’avventuriero polacco l’ha annegato. Io ho veduto quel miserabile lasciarsi cadere in fondo al mare e tornare a galla solo. Stavo per abbandonare la gagliotta ed io ho assistito all’assassinio di quel disgraziato gentiluomo.
— Sali dietro di me e guidaci, ma dimmi prima perchè ti trovavi qui.
— Mi avviavo verso il castello colla speranza di trovarvi, essendomi immaginato che Ben-Tael vi avrebbe condotto colà, non avendo egli potuto assistere al disastro della galera e…
Una scarica di archibugi, che risuonò in lontananza, dietro la linea delle colline, gli impedì di proseguire.
— Monta! — gridò Muley-el-Kadel, estraendo la scimitarra.
Poi, volgendosi verso i suoi uomini, comandò con voce tuonante:
— Alla carica e non risparmiate i soldati di Haradja. Il Leone di Damasco vi guida!
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