La duchessa d’Eboli, vedendo entrare il turco e accostarsi al suo lettuccio, si era alzata un po’, aiutata da Perpignano e lo aveva salutato con un adorabile sorriso.
— Voi! aveva esclamato.
— Non credevate che io, mussulmano, sarei venuto, è vero, valorosa signora? — chiese Muley-el-Kadel.
— Ne dubitavo, anzi ero ormai rassegnata a non vedere più mai tornare il mio fedele servo.
— Il figlio del pascià di Damasco non è un crudele come Mustafà ed i suoi giannizzeri; bravi soldati è vero, ma feroci come i leoni dell’Arabia. Non sono un selvaggio figlio delle steppe turchestane, nè dei deserti sabbiosi e non sono sempre vissuto alla corte del Sultano. La vostra Italia non mi è sconosciuta, signora.
— Voi avete visitato il mio paese? — chiese la duchessa con stupore.
— E ammirato Venezia e Napoli, — rispose il turco — ed ho imparato pure ad apprezzare la cortesia e la civiltà raffinata dei vostri compatrioti, che io altamente stimo.
— M’ero già accorta che voi dovevate essere un mussulmano diverso dagli altri rispose la duchessa.
— Da che cosa, signora?
— Dalle frasi minacciose lanciate contro quei sette od otto cavalieri che accorrevano slealmente a vendicarvi, dopo che io vi avevo lealmente vinto.
Sulla fronte del giovane Leone di Damasco passò come un’ombra ed un sospiro gli morì sulle labbra.
— E vinto dalla spada d’una donna, — disse con una certa amarezza.
— No, Muley-el-Kadel, da Capitan Tempesta, che anche fra i cristiani era noto come la migliore lama di Famagosta. Il Leone di Damasco nulla ha perduto nella sua valentia; d’altronde ne ha dato una prova scavalcando l’Orso delle Foreste Polacche, che era pur temuto per la vigoria del suo braccio.
La fronte del turco si era prontamente rasserenata, anzi un sorriso era comparso sulle sue labbra.
— Meglio essere ferito da una donna che da un uomo, aggiunse poi — Purchè i miei compatrioti ignorino per sempre chi era veramente Capitan Tempesta.
— Ve lo prometto, Muley-el-Kadel. Non vi erano che tre o quattro persone fra tutti i cristiani di Famagosta che sapessero essere io una donna ed a quest’ora saranno quasi tutti morti, giacchè Mustafà non ha risparmiato i vinti.
— Un crudele che ha disonorato, dinanzi all’intera cristianità, le armi mussulmane, — disse il giovane turco — e che forse lo stesso Selim, quantunque d’una generosità e d’una magnanimità dubbia, disapproverà.
I vinti avevano diritto all’ammirazione dei guerrieri dell’Islam.
Signora, voi avrete bisogno di qualche ristoro. I miei schiavi hanno portato cibi e vini generosi, che io sono ben lieto di offrirvi.
Poi mi direte che cosa potrò fare per voi. Sono a vostra disposizione e dovessi incorrere nell’ira di Mustafà, io salverò voi ed i vostri compagni.
Ad un suo cenno i due schiavi si erano accostati al lettuccio ed avevano aperto i canestri, levando alcune bottiglie polverose, della carne fredda, del pane biscotto, ed un vaso colmo di caffè, che era ancora tiepido e delle tazze.
— È tutto quello che io posso offrirvi per ora, — disse Muley-el-Kadel. — Nemmeno Mustafà ha di più sulla sua tavola, essendo anche noi a corto di viveri.
— Non speravo tanto, — rispose la duchessa, sorridendo — e vi ringrazio di aver avuto un così gentile pensiero. I miei amici devono essere affamati ben più di me.
Vuotò una tazza di caffè che Muley-el-Kadel le offriva, dopo d’avervi bagnato un biscotto, mentre il tenente e l’arabo si gettavano avidamente sulla carne fredda, essendo digiuni da più di ventiquattro ore.
— Signora, — disse Muley, alzandosi. — Che cosa posso fare dunque per voi?
— Condurci fuori di Famagosta rispose la duchessa.
— Desiderate tornare in Italia?
— No.
Muley-el-Kadel per la seconda volta fece un gesto di stupore.
— Volete rimanere in Cipro? — chiese, con uno strano accento che non suonava come un rincrescimento.
— Finchè avrò trovato l’uomo che amo e che è prigioniero vostro. Un’altra ombra passò sulla fronte del giovane turco.
— Chi è costui? chiese.
— Il visconte Le Hussière disse la duchessa.
— Le Hussière! — mormorò Muley-el-Kadel, passandosi una mano sugli occhi come se cercasse di evocare qualche vecchio ricordo. — È uno dei pochi gentiluomini fatti prigionieri a Nicosia e che Mustafà ha risparmiati, è vero?
— Sì: lo avete conosciuto? — chiese la giovane con angoscia.
— Mi pare, — rispose Muley-el-Kadel. — Aspettate un po’: sì, era l’anima, la stella di Nicosia… un gran valoroso, un famoso capitano.
— Vorrei sapere dove l’hanno condotto e dove lo tengono prigioniero.
— Non sarà difficile potervelo dire. Qualcuno lo saprà di certo.
— Quei gentiluomini non sono stati condotti a Costantinopoli, è vero?
— Non credo rispose il Leone di Damasco. — Mi pare d’aver udito narrare che Mustafà aveva dei progetti particolari su quei capitani. Vorreste liberare anche lui, prima di lasciare Cipro?
— Sono venuta qui appositamente per strapparlo dalle mani dei vostri compatrioti.
— Avevo creduto che voi, signora e donna, avreste impugnate le armi per odio contro noi mussulmani.
— Vi siete ingannato, Muley-el-Kadel.
— E ne sono lietissimo, signora. Mi sarà impossibile sapere questa notte dove Mustafà abbia relegato il visconte, ma domani sera vi prometto di informarvi.
In quanti siete? Dovrò procurarvi dei costumi da turchi se vorrete lasciare Famagosta indisturbati. Tre soli?
— Cinque disse Perpignano. — Vi sono altri due poveri marinai della flotta veneta nascosti in una cantina e che se non vi rincresce desidererei strappare ad una morte sicura, dovendo io ad essi la mia vita.
— Io combatto i cristiani perchè sono un turco, ma non li odio, — rispose
Muley-el-Kadel. — Fate in modo che domani sera si trovino qui.
— Grazie, signore. Ero certo che il Leone di Damasco sarebbe stato generoso, quanto è valoroso.
Il turco s’inchinò, sorridendo silenziosamente, baciò galantemente la mano che la duchessa gli porgeva e s’avviò verso l’uscita, dicendo:
— Giuro sul Corano che io manterrò la promessa fattavi, signora: a domani sera.
— Grazie, Muley-el-Kadel, — rispose la giovane, con voce commossa.
— Quando tornerò nel mio paese dirò che anche fra i mussulmani ho trovato dei gentiluomini.
— E sarà un onore per l’esercito turco, — rispose il figlio del pascià. —
Addio, signora, o meglio arrivederci.
El-Kadur spostò i macigni affinchè il turco, gli schiavi ed i cani potessero uscire, poi li ricollocò a posto.
— È a te, El-Kadur, che noi dovremo la nostra salvezza, — disse la duchessa — e che io dovrò forse la mia felicità.
L’arabo sospirò e non rispose.
— Signora, — disse Perpignano — avete completa fiducia nella generosità del Leone di Damasco?
— Assoluta, tenente, — rispose la duchessa. — Avreste qualche dubbio?
— Diffido dei turchi, io.
— Degli altri sì, di Muley-el-Kadel no. Che cosa ne dici, El-Kadur?
— Egli ha giurato sul Corano, — si limitò a rispondere l’arabo.
— Se dobbiamo ritenerci sicuri, andrò a cercare i due marinai, — disse il tenente. — Domani potrebbe essere troppo tardi, poichè i giannizzeri non cesseranno di frugare fra le macerie, finchè non saranno ben certi che non vive più un cristiano.
— Vi sono ronde per le vie? — chiese la duchessa all’arabo.
— I turchi dormono, padrona, — rispose El-Kadur — sono stanchi di massacrare cristiani, quei miserabili.
— Dammi il tuo jatagan e la pistola, El-Kadur, — disse il tenente. — La mia spada non può più servire.
L’arabo gli consegnò le armi e gli coprì le spalle coll’ampio mantello onde farlo sembrare un figlio del deserto.
— Addio, signora, — riprese il tenente. — Se non mi vedete ritornare, dite pure che i mussulmani mi hanno ucciso.
Si lasciò scivolare giù dalle macerie ed in meno d’un minuto si trovò alla base del torrione.
La notte era sempre buia e non si udivano altro che i latrati dei cani rimpinzati di carne umana fino a scoppiare.
Il tenente stava per cacciarsi in una viuzza fiancheggiata da casupole semidiroccate dalle bombe mussulmane, quando vide un uomo che indossava il costume pittoresco dei capitani giannizzeri, staccarsi bruscamente da un colonnato e sbarrargli risolutamente la via.
— Eh! Eh! — fece una voce ironica. — Dove si va dunque El-Kadur? Fa molto oscuro, ma i miei occhi vedono anche fra le tenebre.
Quelle parole erano state pronunciate non già in lingua turca bensì in un pessimo veneziano, con un marcato accento straniero.
— Chi sei tu? — chiese il tenente, facendo un salto indietro e aprendo il mantello onde essere più pronto a levare il jatagan.
— El-Kadur ammazza anche gli amici? — chiese il capitano dei giannizzeri, col medesimo accento beffardo. — Sei dunque sempre un selvaggio?
— T’inganni, — rispose il tenente. — Io non sono El-Kadur, bensì un egiziano.
— Avete dunque sacrificata la vostra fede per salvare anche voi la pelle, signor Perpignano? Meglio così: potremo riprendere le nostre partite a zara.
Il tenente si era lasciato sfuggire un grido.
— Il capitano Laczinki.
— No, Laczinki è morto, — rispose il polacco, poichè era veramente lui.
— Mi chiamo oggi Jussif Hammada.
— Laczinki o Hammada siete sempre un rinnegato disse il tenente, con profondo disprezzo.
Una bestemmia irruppe dalle labbra del polacco, poi riprendendo immediatamente il suo tono mellifluo ed insieme beffardo, riprese:
— Rincresce a tutti perdere la pelle, mio caro tenente, e se non avessi accettato di diventare mussulmano, la mia testa non si troverebbe di certo ancora sulle mie spalle. Ma voi che cosa fate qui nella pelle di El- Kadur? Parola d’onore che prima di udire la vostra voce, vi avevo scambiato per l’arabo di Capitan Tempesta.
— Che cosa faccio qui? — disse il veneziano, imbarazzato a dare una risposta. — Nulla: passeggio sulle rovine di Famagosta.
— Scherzate?
— Può darsi.
— Passeggiare alle undici di notte in una città piena di turchi, i quali sarebbero ben contenti di farvi la pelle? Orsù, carte in tavola, tenente, e non diffidate di me. Il cuore non è ancora diventato del tutto mussulmano e per me il Profeta è la quintessenza degli imbroglioni e non credo ai suoi pretesi miracoli, nè al suo Corano.
— Sottovoce, capitano. Potrebbero udirvi.
— Siamo soli; i turchi dormono, i veri almeno. Dite un po’, che cosa è avvenuto di Capitan Tempesta?
— Non ne so nulla: suppongo che si sia fatto uccidere su qualche bastione.
— Non combatteva con voi?
— No, — rispose prudentemente il veneziano.
— Che cosa è venuto a fare allora in questi dintorni il Leone di Damasco? Io so che El-Kadur lo guidava, — disse il polacco, ridendo sguaiatamente. — Ecco, voi tornate a diffidare di me.
— Vi ripeto che io non so nulla nè di El-Kadur, nè di Capitan Tempesta.
— La capitanessa Tempesta, — corresse Laczinki.
— Che cosa dite?
— Là! Là! Credete che io non mi fossi accorto che era una fanciulla, invece d’un uomo? Corpo di centomila lupi! Che polso aveva quella donna e che coraggio! Sangue di Maometto! Vorrei saper anch’io maneggiare la spada come essa! Chi sarà stato il suo maestro?
— Io credo, capitano, che voi abbiate preso un granchio colossale.
— Sia pure, giacchè voi non volete credere a quello che io vi ho detto. Posso esservi utile in qualche cosa?
— Nessuno mi disturberà nella mia passeggiata.
— Badate che i turchi sono ancora accampati in grosso numero attorno a Famagosta e che se vi prendono potrebbero impalarvi.
— Mi guarderò da loro, capitano, — rispose il veneto.
— Nel caso molto probabile che vi toccasse qualche disgrazia non dimenticate che mi chiamo Jussif Hammada.
— Non mi scorderò questo nome.
— Buona fortuna, tenente.
Allungò la destra, ma il veneziano finse di non accorgersene e rialzato il cappuccio si allontanò, guardandosi alle spalle e tenendo il jatagan semisnudato.
Il polacco si era pure allontanato, brontolando e bestemmiando. Il tenente che non lo perdeva di vista, appena raggiunto l’angolo d’una vecchia torre che serviva come d’appoggio ad una umile chiesetta, si nascose dentro una porta il cui cancello di ferro giaceva al suolo, completamente sfasciato dalle mazze dei mussulmani.
— Voglio vedere se mi segue, — mormorò. — Un uomo che rinnega la fede non è più da stimarsi e poi quell’avventuriero covava un sordo rancore contro la duchessa. Diffidiamo di lui.
Non erano trascorsi due minuti quando vide riapparire il capitano. Brontolava ancora, tuttavia si avanzava in punta di piedi per timore che il veneziano, che supponeva avesse continuata la via, lo udisse.
Passò dinanzi alla porta senza fermarsi e scomparve ben presto in mezzo ad un viottolo tenebroso.
— Cercami pure, briccone, — disse il tenente.
Tornò rapidamente indietro e si gettò in mezzo ad un gruppo di catapecchie semi-sepolte fra le macerie, brancolando per parecchi minuti nel buio.
— Devono essere qui, — disse finalmente, scalando un muro semisfasciato.
Rimosse alcune pietre e mise allo scoperto una piccola inferriata contro le cui sbarre appoggiò il viso chiamando ripetutamente.
— Papà Stake! Papà Stake!
Dapprima nessuno rispose, poi dal fondo della cantina sorse una voce rauca, quasi cavernosa.
— Siete voi, tenente? Era tempo che giungeste. Vi credevo già decapitato ed impalato.
— Leva le sbarre, vecchio. E Simone, è vivo ancora?
— Solo a metà, tenente: si muore lentamente di fame e di paura qui dentro.
— Uscite subito: avrete fra poco un asilo più sicuro e da sfamarvi.
— Ecco due parole che rimettono il sangue in circolazione, — brontolò la voce rauca. — Accenderò venti ceri a San Marco e quattro nella chiesa di San Nicoleto. Su, Simone; sgranchisci le gambe, ragazzo mio, se vuoi stritolare qualche biscotto.
Le sbarre furono levate internamente e due uomini, uno vecchio e l’altro giovane, si issarono faticosamente fino all’orifizio dell’apertura.
— Seguitemi, papà Stake, — disse il tenente. — Nessuno ci minaccia.
— Per tutti i croati di Cattaro, ho le gambe deboli, signor tenente e mi pare che Simone non le abbia più leste di me.
— Con tutto quel digiuno disse il suo compagno.
— Cattivo marinaio, — disse il vecchio sforzandosi di sorridere.
— Su, venite prima che qualche ronda ci scopra comandò Perpignano.
— Quando si tratta di turchi è meglio scappare, tenente. Non mi piacerebbe affatto provare le delizie del palo.
— Allora gambe, papà Stake.
Lasciarono la casupola e si diressero, quasi correndo, verso la torre che si vedeva vagamente giganteggiare nell’ombra.
Scalarono rapidamente l’ammasso di macerie e Perpignano rovesciò i massi, facendo entrare i due marinai.
— Siamo noi, El-Kadur, — disse.
L’arabo aveva presa la torcia e si era messo ad osservare i due nuovi arrivati.
Papà Stake, un dalmato, almeno dal nome, era un bel vecchio sulla sessantina; aveva il volto rugoso e molto bruno, ombreggiato da una lunga barba bianca, gli occhi grigiastri ed ancora vividi, con un collo da toro ed un petto da atleta.
Malgrado l’età, doveva possedere ancora una tale forza muscolare da ridurre a mal partito anche due turchi, nel caso che gli fossero giunti sotto le sue mani callose.
L’altro invece era un giovanotto di forse vent’anni, alto, allampanato, cogli occhi nerissimi e i baffetti appena visibili. Appariva più disfatto e più emaciato del mastro, la cui robustezza pareva avesse opposto una formidabile resistenza alla fame ed alle continue angosce d’una morte imminente ed orribile.
Il vecchio, dopo d’aver subìto impassibile l’esame dell’arabo, vedendo la duchessa, si levò il berretto, dicendo:
— È il signor Capitan Tempesta! Ecco un valoroso che ha fatto bene a salvarsi dalle scimitarre turche.
— Tacete, papà Stake e date l’abbordaggio a queste provviste, — disse il tenente, spingendo verso i due affamati le ceste portate dagli schiavi di Muley-el-Kadel.
— Mangiate pure liberamente e bevete, — disse la duchessa. — I turchi penseranno a rinnovarle.
— Roba turca, — disse l’incorreggibile chiacchierone. — La divoreremo più volentieri, signor Capitano. Peccato che non veda qui la testa arrostita di Mustafà. Parola di papà Stake che l’avrei inghiottita in due bocconi, dovessi mettermi in corpo l’anima dannata di quel briccone di Maometto e delle sue quattro mogli per giunta. È vero, Simone, che anche tu mi avresti aiutato?
Il giovanotto non aveva tempo di rispondere. Si era messo a lavorare di mascelle come un pescecane a digiuno da un mese, alternando ai bocconi, dei bicchieri di vecchio vino di Cipro che parevano precipitare in un pozzo senza fondo.
— Vivaddio! Se la continui un po’ con tanta foga non lascerai un boccone al tuo mastro, marinaio, — disse il vecchio. — A me la mia parte!
La duchessa ed il tenente li guardavano sorridendo. Solo l’arabo rimaneva immobile come una statua di bronzo.
— Signor Capitan Tempesta, — disse il mastro, quando fu pieno da scoppiare. — Non troverò mai bastanti parole per ringraziarvi della vostra generosità…
Si era bruscamente interrotto spalancando i suoi occhi grigiastri e fissandoli sulla duchessa:
— Che papà Stake sia stato accecato dal fumo delle colubrine o che ci veda ancora poco bene?
— Che cosa volete dire, amico? chiese la gentildonna, ridendo.
— Quantunque io abbia più conoscenza colle gomene e col catrame che colle donne, io giurerei su tutti i pescecani dell’Adriatico che voi siete…
— Dormite, papà Stake, — disse Perpignano — e lasciate pure riposare la duchessa d’Eboli o, se vi piace meglio, Capitan Tempesta.
Il vecchio lupo di mare fece una buffa riverenza alla duchessa curvando a fatica il suo dorso di marsuino, levandosi nel medesimo tempo il berretto e andò a raggiungere il giovane marinaio borbottando:
— La consegna è di russare ed obbedisco al vincitore o meglio alla valorosa vincitrice della prima lama di quei luridi mussulmani.
Perpignano attese che avesse chiuso gli occhi, poi accostandosi alla duchessa, le disse:
— Signora, siamo spiati.
— Dai giannizzeri? — chiese la duchessa con apprensione.
— Dal capitano Laczinki.
La duchessa ebbe un brivido.
— Come? — esclamò. — Quell’uomo è ancora vivo? Non vi siete ingannato, Perpignano?
— No, signora: egli si è fatto mussulmano per salvare la pelle.
— Chi ve lo ha detto?
— Lui stesso.
— Lui!
— L’ho incontrato poco fa, mentre si aggirava in questi dintorni, avendo veduto poco prima Muley-el-Kadel assieme a El-Kadur.
— Che quell’uomo cerchi di conoscere il nostro rifugio per darci nelle mani di Mustafà?
— Da quell’avventuriero, signora, che ha già rinnegato la sua fede, possiamo attenderci qualunque brutta sorpresa. Se io avessi avuto una spada invece d’un jatagan, o la miccia della pistola accesa, vi giuro che non avrei esitato ad assalirlo. Egli mi ha seguito nascostamente…
— Fino qui? — chiese la duchessa.
— Oh, no, sono riuscito ad ingannarlo ed ignora il nostro rifugio.
— Perchè quell’uomo, che era un cristiano, ed ha combattuto valorosamente pel Leone di San Marco, mi odia?
— Forse perchè voi, donna, eravate più stimata e più eroica di lui ed avete vinto il Leone di Damasco.
— Che si sia accorto che io sono una donna? — chiese la duchessa.
— Non ho alcun dubbio su ciò, signora, — rispose Perpignano.
L’arabo, che si teneva ritto accanto al suo lettuccio, dalla parte opposta, senza aprire bocca, in quel momento intervenne.
— Signor Perpignano, — disse, col suo solito accento freddo e risoluto
— credete voi che il capitano si aggiri ancora in questi dintorni?
— Può darsi, — rispose il veneziano.
— Sta bene: vado a ucciderlo. Sarà un nemico di meno ed un turco di meno.
— El-Kadur! gridò la duchessa. — Vuoi compromettere tutti?
— Quando sparo non sbaglio mai, padrona, e si fa presto ad accendere una miccia rispose il selvaggio figlio dell’Arabia.
— E la detonazione potrebbe attirare qualche ronda di giannizzeri e prenderti.
— Che importa a me della vita quando può essere di giovamento alla mia padrona? Non sono forse uno schiavo io?
— Potrebbero scoprire anche il nostro rifugio.
— L’assalirò con il jatagan e gli spezzerò la spada, — rispose El-Kadur, guardando la duchessa con due occhi fosforescenti. — Valgo bene un cristiano rinnegato, io: mio padre era un grande guerriero dell’Arabia ed io non sarò da meno di lui, padrona. Sono suo figlio.
Egli è morto da valoroso, colle armi in pugno, in difesa della sua tribù, perchè non potrei morire io in difesa della mia padrona, figlia dell’uomo che mi strappò dalla schiavitù?
L’arabo si era levato, gettandosi indietro l’ampio mantello che il tenente gli aveva restituito e alla luce fumosa e rossastra della torcia pareva che avesse assunto proporzioni gigantesche. La sua mano piccola e nervosa stringeva il jatagan, la cui lama lucentissima sprizzava lampi sinistri.
Il figlio del deserto sembrava tramutato in un leone ben più terribile di quello di Damasco.
— L’ucciderò, — ripeté con una specie di frenesia. — Egli è un rivale… del signor Le Hussière!
— Tu non uscirai di qui, — disse la duchessa con voce imperiosa. —
Obbedisci!
El-Kadur aveva lasciato cadere a terra il jatagan.
— Obbedisci, mio fedele El-Kadur, — riprese la gentildonna con accento raddolcito. — Tu devi vegliare su di me.
A quelle parole, l’espressione feroce che alterava il volto dell’arabo era scomparsa come per incanto.
— Sì, padrona, io ero pazzo, — rispose, sedendosi lentamente su un masso. — Sono un imprudente!
Nell’angolo più oscuro si udì in quel momento la voce di papà Stake a borbottare:
— Corpo d’una balena! Che non sia possibile dormire in nessun luogo in Famagosta? Quei cani di turchi fanno sempre un fracasso indiavolato coi loro jatagan!
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