La duchessa, quantunque col cuore trepidante, era entrata risolutamente nella ricchissima tenda, mentre il capitano, diventato improvvisamente assai ossequioso le alzava un lembo facendole un profondo inchino.
Una donna giovane e bellissima, stava ritta nel mezzo, con una mano appoggiata alla spalliera d’un divanetto scintillante di ricami d’oro.
Era una figura alta, slanciata, con occhi nerissimi che risaltavano vivamente sotto le bellissime sopracciglia meravigliosamente delineate, la bocca piccola dalle labbra rosse come ciliege mature, i capelli lunghi d’una tinta che aveva i riflessi delle ali dei corvi e la tinta della pelle leggermente abbronzata.
Aveva però in tutto l’insieme di tratti del viso, quantunque d’una purezza quasi greca, qualche cosa di duro e di energico che tradivano la donna che godeva fama di essere crudele ed inflessibile, la donna più abituata a comandare ed imperiosamente, che ad obbedire.
Come le grandi dame turche di quell’epoca, portava dei superbi calzoni larghi, imbottiti internamente in modo che le gambe non potevano trasparire, in seta bianca ricamata in oro; un giubbettino di seta verde con larghi bordi d’argento e bottoni formati da grosse perle d’un valore inestimabile ed ai fianchi un’alta fascia di velluto rosso, annodata sul
davanti, con lunghe code che scendevano fino a toccare le piccole scarpe a punta rialzata, di pelle rossa con ornamenti d’oro.
Nessun gioiello nè agli orecchi, nè ai polsi; invece, passata nella fascia, teneva una piccola scimitarra coll’impugnatura d’oro incrostata di zaffiri e di smeraldi e la guaina d’argento con passanti di madreperla.
Vedendo entrare la duchessa, vestita nel pittoresco costume albanese, col viso pallidissimo che faceva doppiamente risaltare la vivacità degli occhi e la bellezza della nera capigliatura, un grido d’ammirazione era sfuggito, involontariamente forse, alla nipote del grande ammiraglio.
— Ah! Il bel capitano!
Poi, rimettendosi prontamente e facendo un gesto come di stizza per essersi lasciata uscire dalla bocca quella frase, disse con una ruvidezza un po’ studiata:
— Che cosa vuoi, effendi?(2)
— Ora te lo dirò, cadindyick(3) — rispose la duchessa, facendo un profondo inchino.
— Cadindyick! — esclamò Haradja, mentre uno scoppio di risa ironiche le irrompeva dalle labbra. — Questo titolo, serbalo, mio bel capitano, per le donne che s’invecchiano negli harem dorati e profumati e non già per la nipote di Alì Pascià.
— Sono arabo e non turco, — rispose la duchessa.
(2) Signore
(3) Madamigella
— Ah! Sei arabo! — esclamò la turca. — Sono tutti così belli i giovani del tuo paese, effendi? io credevo che gli arabi fossero tutt’altro che così piacevoli. Quelli che io ho veduto a bordo delle galere di mio zio, il grande ammiraglio, non somigliavano affatto a te. Chi sei tu dunque?
— Il figlio del pascià di Medina, — rispose la duchessa imperturbabile, avendo compreso perfettamente ciò che diceva Haradja la quale aveva parlato in lingua araba.
— Ah! — fece la nipote del pascià, sbozzando un sorriso, — È sempre in Arabia tuo padre?
— Lo conosceresti per caso, signora?
— No, quantunque abbia passati molti anni della mia infanzia sulle rive del Mar Rosso. Oggi non navigo che sul Mediterraneo. Chi ti manda, effendi?
— Muley-el-Kadel.
Un impercettibile trasalimento aveva fatto correre come un fremito sul viso della nipote del grande ammiraglio.
— Che cosa vuole da me? — chiese poi, aggrottando leggermente la fronte.
— Mi ha qui mandato per pregarti di cedergli uno dei cristiani fatti prigionieri a Nicosia.
— Un cristiano! — esclamò Haradja, facendo un gesto di stupore. — Chi è?
— Il visconte Gastone Le Hussière, — rispose la duchessa, con un leggero tremito nella voce.
— Quel francese ai servigi della Repubblica Veneta?
— Sì, signora.
— Per quale motivo il Leone di Damasco s’interessa di quel cane di giaurro?
— Lo ignoro.
— La sua fede di buon seguace di Maometto si sarebbe per caso scossa?
— Non lo credo.
— L’ho trovato troppo generoso, il Leone di Damasco.
— Puoi dire cavalleresco.
— In un turco non va, — rispose asciuttamente la nipote del pascià. —
Che cosa vorrà farne di quell’uomo, mio bel capitano?
— Non te lo saprei dire, tuttavia sospetto che lo si voglia mandare come ambasciatore a Venezia.
— Chi lo manderà?
— Mustafà, io credo.
— Il gran vizir ignora dunque che quel cristiano appartiene a mio zio? —
chiese Haradja quasi con collera.
— Mustafà è il supremo comandante dell’armata turca, signora, e tutto quello che fa è approvato dal Sultano.
— Che importa a me del gran vizir, — disse la nipote del pascià, alzando le spalle. — Comando io qui e non già lui.
— Sicchè rifiuteresti, signora?
Invece di rispondere, Haradja batté le mani. Due schiavi negri entrarono tosto, inginocchiandosi dinanzi a lei.
— Avete nulla da offrire a questo effendi? — chiese loro, senza degnarsi di guardarli.
— Dello youghurth(4) padrona, — rispose uno dei due.
— Portate, vili schiavi.
Quindi, rivolgendosi nuovamente verso la duchessa, con un sorriso amabile, le disse:
— Qui tutto manca, ma ti offrirò al castello migliore ospitalità, mio bel capitano. Oh! Non mi fuggirai troppo presto, spero.
Quindi, diventando bruscamente seria, sdraiandosi mollemente, in una posa seducentissima sul divanetto, con una mano sotto la nuca, immersa nei suoi lunghi capelli neri, chiese:
— Che cosa fa Muley-el-Kadel al campo di Famagosta?
— Si riposa e cerca di guarire della ferita ricevuta, — rispose la duchessa.
Haradja era balzata in piedi come una leonessa ferita, dardeggiando sulla giovane uno sguardo di fuoco.
— Ferito! — esclamò, — Da chi?
— Da un capitano cristiano.
— Quando?
— Giorni sono.
(4) Latte cagliato.
— In un assalto?
— No, in un duello.
— Lui! L’invincibile Leone di Damasco! La prima e la più formidabile lama dell’armata! Oh! È impossibile!
— Ciò che ti dico è vero, signora.
— E da un cristiano?
— Da un giovane capitano.
— Era un dio della guerra quel giovane?
— Forte di certo, signora.
— Ah! Come avrei voluto vederlo! — esclamò Haradja col viso acceso.
— Era un cane d’un cristiano, signora.
— Cristiano o turco, quello doveva essere un grande eroe, un semidio! La duchessa ebbe un indefinibile sorriso ironico, che sfuggì alla nipote
del grande ammiraglio.
Fra le due donne successe un lungo silenzio. Haradja, immobile in mezzo alla tenda tormentava nervosamente l’impugnatura della sua scimitarra ed i suoi occhi, che avevano in quel momento un cupo lampo, erano fissi su un enorme leone che era disegnato su uno splendido tappeto di Rabat, il quale copriva tutto il suolo.
— Vinto! — mormorò come parlando fra sè. — Lui, l’invincibile Leone di Damasco! Vi è dunque in Cipro un uomo più forte e più valente di lui? Il Leone! Solo una tigre avrebbe potuto abbatterlo! Chi sarà costui? Oh! Come vorrei conoscerlo!
— Ti ho detto che chi ha atterrato Muley-el-Kadel è stato un cristiano disse la duchessa.
Haradja alzò le spalle con un gesto di dispetto.
— La fede! La Croce o l’Islam che importa alla donna? Non ha nulla a che fare col cuore.
— Forse hai ragione rispose la duchessa.
Haradja alzò gli occhi fissandoli sulla duchessa e dopo d’averla contemplata per parecchi istanti, le chiese a bruciapelo:
— E tu, sei un eroe, mio bel capitano?
La duchessa, presa alla sprovvista, rimase un momento muta, poi disse:
— Se tu, signora, nel tuo castello, hai degli spadaccini di vaglia, puoi dir loro che si provino con me, due contro uno solo e li abbatterò. Quando vorrai!
— Anche Metiub?
— Chi è costui?
— La migliore lama della flotta.
— Venga.
— Vorresti tu, effendi, rivaleggiare anche con Muley-el-Kadel? — chiese
Haradja con stupore.
— Si provino tutti.
— Ma Muley è tuo amico.
— È vero, signora.
— Ti sei mai misurato con lui?
— No.
— Ti vedrò questa sera alla prova, effendi. Io non amo che i valorosi che sanno vincere ed uccidere.
— Quando me l’ordinerai, signora, ti mostrerò come si batte il figlio del
Pascià di Medina.
Haradja tornò a guardarlo, mormorando fra sè:
— Bello e prode? Più prode o più bello? Lo vedremo.
In quel momento i due schiavi erano entrati portando su un vassoio d’oro due recipienti d’argento, finemente cesellati, pieni di yougurth.
— Accetta questo pel momento, effendi, — disse la nipote del pascià — mentre dò l’ordine di preparare il mio cavallo. Tu sei mio ospite e all’hisar(5) saprò trattarti diversamente. La tua compagnia mi piace e rimarrai qualche giorno con me.
— E Muley-el-Kadel?
— Quello aspetterà, — rispose Haradja, con un po’ di noncuranza.
— Ti ho detto che è forse Mustafà che ha dato l’ordine di condurre a
Famagosta il visconte.
— Aspetterà anche lui. Non sono abituata a ricevere ordini da nessuno, nemmeno dal Sultano. Cipro non è Costantinopoli; il Mediterraneo non è il Bosforo. Vili schiavi, preparate il mio arabo.
— Una domanda ancora, signora, — disse la duchessa.
(5) Castello.
— Parla pure, effendi.
— Non potrei io vedere il visconte?
— Non è qui, — rispose Haradja. — L’ho mandato stamane a perlustrare uno stagno un po’ lontano, dove mi hanno detto che le sanguisughe abbondano.
— Ed incaricherai lui della pesca? chiese la duchessa, frenando a malapena un gesto d’orrore.
— No, dirigerà solamente il lavoro. Mustafà e Muley-el-Kadel non lo troveranno troppo deteriorato.
Quel gentiluomo mi ha interessato più degli altri, quantunque sia anche lui un cane d’un cristiano. E poi lui può pagare forse un bel riscatto e per la gente ricca anche la nipote del grande ammiraglio ha qualche riguardo.
Spicciati, mio bel capitano. Si sta meglio al castello che fra queste paludi pestifere.
La duchessa vuotò la coppa del latte cagliato, guardando un po’ beffardamente, di soppiatto, la nipote del Pascià, poi quand’ebbe finito, disse:
— Quando vorrai partire, signora, io sono pronto. Le donne non si fanno attendere, dicono i gentiluomini occidentali.
Haradja parve che fermasse il suo pensiero su quella frase, poichè chiese:
— Avresti viaggiato attraverso i paesi dei cristiani, tu?
— Sì, signora: mio padre ha voluto farmi conoscere la Spagna, la
Francia e anche la bella Italia.
— A quale scopo?
— Perchè mi perfezionassi nel maneggio delle armi.
— Sicchè tu saresti capace di batterti ad armi diritte, se si presentasse l’occasione.
— Anzi, valgono meglio delle scimitarre turche, a mio giudizio, —
rispose la duchessa.
— Bada! Metiub è un gran maestro d’armi e la spada italiana o francese o la scimitarra turca non lo spaventano.
— Chissà, signora.
— Sei ben sicuro del tuo polso, effendi! Eppure sei molto giovane!
— Che cosa importa? — rispose la duchessa. — È l’arte ed il braccio sicuro che valgono e non la gioventù.
— Ti vedrò questa sera contro Metiub, effendi.
— Non avrò paura di lui.
— La prima e la più formidabile, lama della flotta!
— Me lo hai detto, — rispose la duchessa col suo sorriso fra il bonario ed il beffardo. — Ci misureremo, signora, se ciò ti potrà far piacere.
— Ci tengo a conoscere le migliori lame dell’armata mussulmana. Kafir!
— Signora, — rispose uno dei due schiavi rientrando.
— Il mio cavallo?
— È già pronto.
— Capitano, la colazione ci aspetta al castello d’Hussif.
— Sono ai tuoi ordini, — rispose la duchessa, inchinandosi dinanzi alla terribile turca. — Ed il visconte Le Hussière?
— Ci raggiungerà domani rispose Haradja. — Ci tengo alle sanguisughe dei miei stagni.
Vi è qui una grande ricchezza da sfruttare, che i ciprioti non avevano compresa.
Strana cosa! Si direbbe che quelle bestioline amano meglio il sangue cristiano piuttosto che quello mussulmano! Che sia più delicato?
— Può darsi, — rispose la duchessa, lanciando sulla nipote del pascià uno sguardo cupo.
— Mio bel capitano, partiamo!
Uscirono dalla tenda. Uno schiavo, negro anche quello, teneva per le briglie un cavallo arabo tutto bianco, con una lunga gualdrappa rossa ricamata in oro ed un pennacchio sulla testa, tempestato di piccoli diamanti.
— Il mio destriero di battaglia, — disse Haradja. — Me lo hanno mandato da Gebel Schamar e credo che sia il più veloce che si trovi in Cipro.
Lo amo più d’un arabo e tu che sei pure arabo, sai meglio di me che i tuoi compatrioti dànno il primo posto, nel loro cuore, al cavallo ed il secondo alla moglie. Che sia proprio vero, capitano?
— Sì, signora, — rispose la duchessa.
— Strani uomini gli arabi! Eppure si dice che le belle donne non manchino nel loro paese. Il Profeta non doveva essere di cattivo gusto. Ah! Dimmi come ti chiami?
— Hamid.
— E poi?
— Eleonora.
— Eleonora! — esclamò la nipote del grande ammiraglio. — Che cosa significa questo nome?
— Non te lo saprei dire.
— Non è nè arabo, nè turco, mi sembra.
— Pare anche a me rispose la duchessa con fine ironia.
— Che sia cristiano?
— Lo ignoro.
— Eleonora! Quale strano capriccio o quale bizzarra fantasia ha indotto tuo padre ad importelo? Comunque sia, è bello e sonoro! Sali sul tuo cavallo, Hamid Eleonora. A mezzodì saremo al castello d’Hussif.
La nipote del pascià montò in sella del suo arabo, senza che nessuno l’aiutasse, con l’agilità e la sveltezza d’una vera cavallerizza, poi allentò le briglie, gridando:
— Seguimi! Al mio fianco, bel capitano! Faremo correre la tua scorta!
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