La minaccia del gran vizir dei turchi aveva prodotto un profondo effetto sui capitani cristiani, i quali conoscevano l’audacia e la fermezza di quel formidabile guerriero, cui fino allora aveva sempre arriso la vittoria, nonostante l’estremo valore dei soldati veneti.
Certi di dover subire nella notte un assalto furioso, più tremendo di quanti ne avevano provati fino allora e conoscendo la loro debolezza, dopo che le mine avevano sconquassati i bastioni e le cinte, dietro consiglio del governatore avevano subito preso le disposizioni necessarie per far fronte al terribile pericolo che li minacciava.
I posti di guardia furono raddoppiati, soprattutto sulle torri a difesa dei profondi fossati, quantunque ormai questi fossero così ingombri di macerie da non poter più servire da ostacolo, e le colubrine furono piazzate nei punti più elevati onde battere e coprire di mitraglia gli assalitori.
Gli abitanti, già avvertiti, malgrado la loro estrema debolezza causata dai lunghi digiuni, non ignorando che se i turchi fossero riusciti a varcare le cinte, non sarebbero sfuggiti alle loro scimitarre, erano prontamente accorsi a rinforzare i bastioni più maltrattati colle macerie levate dalle loro abitazioni, già quasi tutte demolite da quel lungo assedio.
Una profonda angoscia si era impadronita di tutti. Sentivano per istinto che la fine di Famagosta era prossima e che una orribile strage stava per succedere.
L’esercito turco, venti volte superiore agli assediati, sicuro della sua strapotente forza, e della immensa superiorità delle sue artiglierie, stanco di quel lunghissimo assedio che lo stremava da mesi e mesi, doveva tentare uno di quei formidabili sforzi a cui nessuno può resistere: nè la saldezza dei cuori meglio corazzati contro la paura, nè il valore disperato, nè la fede incrollabile.
Durante la giornata, gli assedianti si mantennero tranquilli, limitandosi a sparare solo, di quando in quando, qualche colpo di colubrina, più per rettificare il tiro dei loro pezzi, che per danneggiare le opere di difesa degli assediati; però si vedeva nel loro campo un movimento insolito.
Gruppi di cavalieri partivano ad ogni istante dalle tende del Gran vizir e dei pascià, recandosi alle estreme ali dell’esercito per portare ordini e si scorgevano gli artiglieri trascinare i loro pezzi verso le trincee, mentre bande di minatori si disperdevano per la pianura strisciando come serpenti per non farsi mitragliare.
I capitani cristiani, Bragadino, Martinengo, Tiepolo e l’albanese Manoli Spilotto, dopo aver tenuto consiglio col governatore della piazza, Astorre Baglione, avevano deciso di prevenire l’assalto dei turchi con un furioso bombardamento, onde tener lontani i minatori ed impedire alle artiglierie turche di piazzarsi indisturbate nei punti migliori.
Ed infatti, appena scoccato il mezzodì, tutti i pezzi che guarnivano i bastioni e le torri aprirono tosto un fuoco infernale coprendo la pianura di ferro e di palle di pietra, mentre i più abili archibugieri, nascosti dietro i parapetti ed i merli, gareggiavano fra di loro nel freddare i minatori che
s’avanzavano incessantemente, cercando di ripararsi dietro le ineguaglianze del suolo.
Quel rimbombo assordante durò fino al calar del sole, causando agli assedianti non poche perdite e smontando parecchie colubrine; poi, appena le tenebre furono fitte, squillarono le trombe d’allarme per far accorrere l’intera popolazione alla difesa delle cinte.
L’esercito turco si spiegava allora per la tenebrosa pianura, in masse enormi, pronto a tentare un assalto generale.
Suonavano pure le trombe turche e rullavano i timballi della cavalleria. Urla spaventevoli si alzavano di quando in quando, echeggiando sinistramente agli orecchi dei guerrieri veneti e si udivano, nei brevi momenti di silenzio, le grida dei muezzin che incoraggiavano e fanatizzavano i figli dell’Islam.
— Nel nome di Allah! Distruggete! Uccidete! Non vi è Dio fuor di Dio e
Maometto è il suo Profeta!
La difesa dei cristiani si era concentrata sul bastione di San Marco, perchè sapevano che lo sforzo maggiore del nemico sarebbe stato volto verso quello, essendo la chiave di Famagosta.
I migliori capitani, fra i quali Tempesta, avevano radunate colà le loro compagnie e piazzate venti colubrine, scelte fra le più grosse.
Il fuoco di quelle numerose bocche, manovrate per lo più da marinai veneti, che godevano allora fama di essere valentissimi, doveva fare dei grandi vuoti fra le colonne turche che muovevano all’attacco, compatte, sfidando serenamente la morte.
Anche dalle torri gli assediati sparavano furiosamente, massacrando specialmente la cavalleria che galoppava in tutti i sensi, per avvolgere completamente la città ed impedire la fuga degli abitanti ormai condannati al macello.
Il fuoco era stato appena ripreso, quando El-Kadur, che aveva lasciato il campo turco prima che gli assedianti si muovessero, scalò il bastione presentandosi a Capitan Tempesta:
— Signora, — disse con un forte tremito nella voce, fissandolo con estrema ansietà. — Ecco, l’ora terribile sta per suonare per Famagosta. A meno d’un miracolo, domani la città sarà nelle mani degli infedeli.
— Siamo tutti pronti a morire, — rispose la duchessa con accento di rassegnazione. — E il signor Le Hussière?
— Lo salverà Iddio.
— Vi è forse ancora tempo per fuggire. Coperta dal mio mantello arabo potresti passare inosservata fra la confusione orribile che succederà fra poco.
— Sono un soldato della Croce, El-Kadur, — rispose la duchessa con fierezza. — Io non priverò Famagosta d’una spada che saprà fare il suo dovere.
— Pensa, signora, che domani forse non sarai più viva, perchè io so che il gran vizir ha ordinato di passare tutti a fil di spada.
— Sapremo morire da forti, — rispose la duchessa, soffocando un sospiro. — Se è scritto che nessuno di noi sopravviverà a questo memorando assedio, si compia il nostro destino.
— Non vuoi venire dunque, signora? — insistette El-Kadur.
— È impossibile: Capitan Tempesta non può disonorarsi dinanzi alla cristianità.
— Ebbene, padrona disse l’arabo con una specie di esaltazione, —
Morrò anch’io al tuo fianco. Poi aggiunse fra sè:
— La morte spegne tutto ed il povero schiavo riposerà tranquillo.
Intanto il cannoneggiamento era diventato terribile. Le duecento colubrine turche, una artiglieria formidabilissima per quei tempi, avevano aperto il fuoco a loro volta, tempestando con violenza inaudita i bastioni e le torri già semi-diroccate da tanti mesi d’assedio.
Palle di ferro e palle di pietra cadevano in gran numero sulle opere di difesa, facendo strage dei difensori, e scariche di moschetteria si succedevano senza posa. La tenebrosa pianura pareva un mare di fuoco ed il rimbombo era così spaventevole che i bastioni tremavano e si sgretolavano, rovinando nei fossati sottostanti.
I guerrieri veneti, quantunque oppressi da quella grandine micidialissima, non si scoraggiavano e aspettavano a pié fermo l’urto immane delle sterminate orde, che muovevano all’assalto con un vociare che pareva l’ululato di miriadi e miriadi di lupi famelici, bramosi di carne umana.
Tutti gli abitanti che potevano ancora reggere un’arme, erano accorsi sui bastioni armati di picche e di alabarde, di spadoni e di mazze, invasi da un pazzo furore, mentre le loro donne ed i fanciulli si rifugiavano, urlando e piangendo, nella chiesa principale, sotto una pioggia incessante di bombe che diroccavano le ultime case, come se là dentro
fosse bastato il ruggito del morente Leone della Repubblica Veneta a trattenere gli adoratori della Mezzaluna e di Maometto.
Un frastuono orrendo copriva Famagosta, Le torri, smantellate dalle artiglierie nemiche, crollavano con immenso fragore, e le cinte si sfasciavano travolgendovi gli sfortunati difensori, mentre le schegge delle enormi palle di pietra volavano dovunque, mutilando guerrieri, donne e fanciulli.
Astorre Baglione, governatore generale, assisteva impassibile a quella strage, appoggiato alla sua spada, aspettando, col cuore stretto però da un’angoscia inesprimibile, l’urto supremo.
Ritto in mezzo ai suoi capitani, impartiva con voce tranquilla gli ordini, già rassegnato da lunga pezza al suo destino e pronto a sfidare la morte.
Sapeva che il vizir non lo avrebbe risparmiato, se fosse uscito vivo da quella lotta formidabile e guardava serenamente il pericolo che lo minacciava da tutte le parti, esempio ammirabile di gran capitano.
Le masse turche intanto, spalleggiate dalla formidabile artiglieria che batteva fieramente le cadenti mura di Famagosta, s’avanzavano sempre imperterrite, aizzate senza posa dalle urla dei muezzin.
— Uccidete! Sterminate! Il Profeta e Allah ve lo comandano!
I giannizzeri si erano messi alla testa e quei terribili soldati si spiegavano sempre più nella pianura, trascinando all’assalto gli albanesi e gli irregolari dell’Arabia e dell’Asia Minore.
I minatori che li precedevano, non perdevano il loro tempo. Approfittando della confusione e dell’oscurità, si spingevano con pazza
temerità sotto i bastioni e sotto le torri e, non badando a saltare in aria, facevano scoppiare barili di polvere per aprire delle brecce che permettessero alla fanteria di spingersi all’assalto.
Era specialmente contro il bastione di San Marco che s’accanivano maggiormente, minandolo da tutte le parti. Spaventevoli detonazioni si succedevano senza tregua, sconquassando la rivestitura esterna e facendo crollare le merlature.
Ciononostante i pochi figli delle lagune venete e delle scogliere dalmate non cessavano il fuoco, decimando crudelmente le colonne degli infedeli, i quali seminavano la pianura di morti e di feriti.
Impavidi fra la pioggia di macigni, scaraventati in aria da quelle esplosioni e fra quel rovinio di pietre, le quali sfuggivano sotto i loro piedi ad ogni scossa, e fra quel tempestar continuo di frammenti di ferro e di proiettili, di fionde e di frecce incendiarie, scagliate dai balestrieri dell’Asia Minore, aspettavano sempre l’impeto delle scimitarre infedeli, dietro i loro scudi.
Il frastuono orrendo aumentava di minuto in minuto. Alle urla feroci dei mussulmani rispondevano in lontananza i pianti e le preghiere delle donne e le grida dei fanciulli. Nell’aria satura di fumo e di polvere risuonavano, fra il fragor dei bronzi tuonanti, le campane che chiamavano a raccolta gli abitanti, se ancora ve n’erano entro le case già fiammeggianti.
Le masse dei barbari s’avanzavano, lente, pesanti, possenti, continuando a svolgersi nella pianura. A migliaia e migliaia salivano, verso le scarpe dei bastioni, come una marea irrefrenabile, mentre le mine rombavano cupamente, lanciando fra le tenebre guizzi sinistri di luce sanguigna o sulfurea che subito si spegnevano.
— Allah! Pel Profeta! Morte ed esterminio ai giaurri! — ruggivano centomila voci, coprendo il rimbombo delle tuonanti artiglierie.
Già i giannizzeri erano giunti dinanzi al bastione di San Marco e si preparavano ad assalirlo, quando un lampo vivissimo ruppe le tenebre, seguito da uno scroscio spaventevole. Una mina che non aveva preso fuoco, incendiata da qualche frammento di pietra infuocata o da qualche freccia incendiaria, era scoppiata squarciando a metà la cinta.
Un nembo di macigni s’alzò per l’aria storpiando od uccidendo un gran numero di giannizzeri, le cui colonne si erano subito ripiegate confusamente e cadde anche sul bastione occupato dai guerrieri veneti. Capitan Tempesta che si trovava presso uno dei merli, pronto a contrastare il passo agli invasori alla testa dei suoi valorosi schiavoni, fu rovesciato di colpo da un macigno, che lo aveva colpito al lato destro della corazza.
El-Kadur, che stava qualche passo indietro, vedendo la sua signora lasciarsi sfuggire lo scudo e la spada e stramazzare al suolo, come se fosse stata fulminata, si era precipitato innanzi, mandando un grido di spavento e d’angoscia.
— L’hanno ucciso! L’hanno ucciso!
La sua voce si perdette fra il frastuono orrendo che soffocava perfino la voce possente delle artiglierie. I giannizzeri montavano in quel momento all’assalto con urla frenetiche e nessuno poteva occuparsi della disgraziata e valorosa giovane, nemmeno il signor Perpignano che già lavorava di spada alla testa degli schiavoni.
El-Kadur, fuori di sè, afferrò la padrona, se la serrò contro il petto e discese a precipizio giù dal bastione, avviandosi a corsa sfrenata verso
la città, incurante delle palle e dei frammenti di pietra che grandinavano nelle vie e sui tetti delle case.
Dove fuggiva? Lui solo lo sapeva.
Seguì per cinque o seicento metri la cinta interna, poi si arrestò sotto una delle vecchie torri della città, la cui base era già stata rovinata dalle mine. Ammassi di macerie s’alzavano dovunque e sulla cima di quella massiccia costruzione tuonavano due colubrine.
El-Kadur s’arrampicò su quei massi accumulati confusamente, che ad ogni colpo di cannone franavano e s’introdusse in una stretta apertura che pareva menasse in una casamatta ormai abbandonata.
S’avanzò a tentoni, tenendosi sempre stretta la giovane duchessa, poi la depose a terra delicatamente.
— Anche se Famagosta cadesse questa notte, nessuno scoprirà il cadavere della mia padrona, — mormorò.
Brancolò per alcuni istanti fra le tenebre, poi estrasse dalla sua borsa un acciarino e un pezzo d’esca e fece cadere parecchie scintille finchè ottenne una fiammella.
— Non hanno vuotato la casamatta, — disse. — Troverò l’occorrente.
Si diresse verso un angolo dove si scorgevano confusamente delle casse e dei barili ammonticchiati alla rinfusa, frugò per qualche secondo e levò una torcia che subito accese.
Si trovava in una specie di sotterraneo, scavato alla base del torrione e che pareva avesse prima servito di deposito alla guarnigione dell’attiguo bastione. Infatti, oltre le casse ed i barili contenenti armi e munizioni, vi erano dei materassi, delle coperte, delle giare contenenti forse dell’olio o
del vino o più probabilmente delle olive, che costituivano ormai quasi l’unico nutrimento degli assediati.
L’arabo, senza preoccuparsi dei colpi di colubrina che echeggiavano sopra la sua testa e che si ripercuotevano nella casamatta con un rombo assordante, piantò la torcia in un crepaccio del suolo e depose la duchessa su un materasso.
— È impossibile che sia morta singhiozzò. — No, una signora così bella e così valorosa non può morire.
Levò il mantello che avvolgeva la duchessa e guardò la corazza. Verso il lato destro si vedeva una profonda ammaccatura, con un buco nel mezzo da cui usciva un filo di sangue. La scheggia di pietra o forse di ferro, lanciata con inaudita violenza, aveva spezzato perfino l’acciaio. Slacciò con infinite precauzioni la corazza e scorse subito, un po’ sotto la spalla, una ferita profonda che sanguinava abbondantemente.
— Purchè non sia entrato nelle carni qualche frammento del proiettile, la mia padrona non morrà, — mormorò l’arabo. — Il colpo deve essere stato però violentissimo.
Stracciò il manto della duchessa che era di lana finissima e leggera, facendo delle bende, sollevò parecchie giare che erano coperte e trovatane una piena d’olio vi bagnò uno straccio. Fasciò delicatamente la ferita per arrestare il sangue, poi soffiò a più riprese, a tutta forza, sul volto di Capitan Tempesta per farlo tornare in sè.
— Sei tu, mio fedele El-Kadur? chiese ad un tratto la duchessa, aprendo gli occhi e fissandoli sull’arabo.
La sua voce era fioca ed il suo bel viso pallidissimo, bianco come un cencio di bucato.
— Vive! La mia padrona vive! — esclamò l’arabo — Ah! Signora, ti avevo creduta morta.
— Che cos’è avvenuto, El-Kadur? — riprese la duchessa, — Non ricordo più nulla… dove siamo… chi spara presso di noi? Non odi questi rombi che mi pare mi spezzino la testa?
— Siamo in una casamatta, signora, al sicuro dalle palle dei turchi.
— I turchi! esclamò la giovane, tentando di alzarsi a sedere, mentre i suoi occhi s’illuminavano — I turchi! È caduta Famagosta?
— Non ancora, signora.
— Ed io sono qui mentre gli altri si fanno uccidere?…
— Sei ferita.
— È vero… provo un dolore acuto qui… mi hanno colpito con una palla o con un colpo di spada? Non mi rammento più nulla.
— È stata una scheggia di pietra che ti ha spezzata la corazza.
— Dio, che frastuono!
— I turchi montano all’assalto.
La duchessa si era fatta maggiormente pallida.
— È perduta la città? chiese con angoscia.
— Non lo so, signora, ma io non lo credo. Odo le colubrine del bastione di San Marco a tuonare sempre.
— El-Kadur, va’ a vedere che cosa succede.
— E tu, signora? Come posso lasciarti sola?
— Tu sei più utile sulle mura che qui.
— Non oso, padrona, abbandonarti.
— Va, — disse la duchessa con un gesto imperioso. — Va o io mi levo e, dovessi morire a mezza via, lascerò questo rifugio. È il momento terribile in cui tutti i soldati della Croce combattono e tu hai rinnegato la fede del Profeta e sei cristiano al pari di me. Va, El-Kadur, lo voglio e uccidi anche tu gli infedeli, i nemici della nostra religione.
L’arabo abbassò il capo, esitò un momento guardando la duchessa cogli occhi umidi, poi, estratto il jatagan, si slanciò fuori, mormorando:
— Che il Dio dei cristiani mi protegga per salvare la mia padrona.
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