L’attacco dello sciabecco

Dopo quel colpo di colubrina, l’equipaggio dello sciabecco non aveva più dato segno di vita.
Gli uomini di guardia, convinti che quello sparo in bianco fosse bastato per far cambiare rotta alla gagliotta, dovevano essersi ricaricati sulle vele calate in coperta, riprendendo la fumata così inopportunamente interrotta.
Le due scialuppe, lontane un paio di gomene l’una dall’altra, dovendo abbordare i turchi da due parti, s’avanzavano sempre silenziose, manovrando i remi con estrema prudenza.
Papà Stake, ritto sul banco di poppa, a fianco della duchessa, scrutava attentamente le tenebre.
— È strana! — esclamò ad un tratto. — Non scorgo più i fanali dello sciabecco.
— Ed infatti non vi sono che tenebre profonde dinanzi a noi, — rispose la duchessa.
— Signor tenente, voi che siete a prora, distinguete i fanali?

— No, — rispose Perpignano.

— Eppure non ci sono altre scogliere dinanzi a noi, — borbottò il mastro.
— Che quei maledetti turchi, invece di lasciarsi sorprendere, cerchino di sorprendere noi?

È bensì vero che è più facile che noi vediamo a tempo lo sciabecco, che gli uomini di guardia scoprano le nostre scialuppe.
Vediamo se Nikola ci segue sempre.

Si volse aguzzando gli sguardi in direzione della penisoletta. Una sottile linea oscura scivolava silenziosamente sui flutti, a meno di una gomena.
Intorno scintillavano lievemente dei punti luminosi come se i remi percuotessero delle acque sature di molluschi fosforescenti.
— Che le nottiluche ci tradiscano? — si chiese papà Stake, con accento inquieto. — Anche i molluschi del Mediterraneo sono diventati gli alleati di Maometto e dei suoi credenti.
Poi, alzando un po’ la voce, aggiunse:

— Avanti sempre, giovanotti. Quando saremo entro la rada vedremo se quegli squali del malanno aspettano noi o se hanno spenti i fanali per dormire più saporitamente.
La scialuppa, che si era momentaneamente arrestata, lasciandosi cullare dalle larghe ondate del Mediterraneo, onde permettere al vecchio mastro di compiere meglio le sue osservazioni, riprese la marcia inoltrandosi lentamente nella piccola rada d’Hussif.
— Papà Stake, — disse la duchessa — se noi riuscissimo a sbarcare inosservati non sarebbe forse meglio?
— I turchi non tarderebbero allora a scoprire la gagliotta ed essendo certo in numero maggiore, non tarderebbero a catturarla. Quale resistenza potrebbero opporre i due greci che abbiamo lasciato a bordo?
— È vero.

— E poi a noi è necessario avere sempre sottomano una nave. Se il colpo riesce non dobbiamo fermarci qui, sulle coste di Cipro, nemmeno un’ora.
Si corre il pericolo di farci impalare e quella morte, ve lo giuro, non mi sorride affatto. Ho veduto una volta un povero rinnegato subirla e quei due giorni di spaventevole agonia mi hanno fatto una tale impressione che non la scorderò più mai, dovessi vivere mille anni come le balene.
— Sicuro, si dice che sia il più atroce supplizio che i turchi abbiano inventato.
— Sentirsi cacciare attraverso il corpo un piuolo puntito, a colpi di martelletto e issarsi in aria come un uccello messo allo spiedo non deve essere cosa piacevole, signora.
— Aggiungete che il martirizzato può vivere anche tre giorni e che quei cani di turchi, per aumentare le sue sofferenze, gli spalmano il corpo di miele, affinchè le mosche e le api lo tormentino maggiormente.
— Crudeli!

— Sono delle vere canaglie, signora, degne di Maometto.

— Non era così cattivo, quello.

— No, era un cane tignoso, — rispose il mastro. — Alt! Giovanotti!

— Che cosa c’è, papà Stake? — chiese Perpignano, passando a poppa.

— Lo sciabecco non è che a due gomene.

— E ci fermiamo?

— Aspettiamo Nikola. Se al momento buono il suo aiuto manca, possiamo fare una pessima frittata. Non deve essere lontano.

Lasciò la barra del timone, guardò un momento dietro di sè e mandò un fischio sommesso.
Un sibilo rispose poco dopo.

— Aspettiamolo, — disse il mastro. — Nikola ha capito che abbiamo bisogno di lui.
La scialuppa del greco, che s’avanzava lentissima, affinchè l’equipaggio dello sciabecco non udisse il rumore dei remi, quantunque la risacca fosse violentissima e si rompesse con molto fragore sulla spiaggia e sugli scoglietti, indugiò non poco a raggiungere quella di papà Stake.
— Perchè questa sosta? — chiese Nikola.

— Per centomila squali, i turchi hanno spento i fanali, — rispose il mastro — ed io non ho gli occhi di un gatto.
— Me ne sono accorto anch’io e mi sembra che sia una fortuna per noi,
— disse il greco. — Li sorprenderemo più facilmente. Lo vedete lo sciabecco?
— Sì, vagamente.

— Corriamo addosso alla nave dunque.

— Volevo però sapere dove l’abborderete.

— Sotto la poppa.

— E noi a prora allora, Purchè la veda. Pare che anche le tenebre, oltre le nottiluche, si siano alleate a quei cani di mussulmani.
— Aprite un po’ più gli occhi, papà Stake.

— Perdinci! Sono spalancati come due porte.

— Apriteli maggiormente.

— Mi provvederete poi un paio d’occhiali grandi come la cupola di S. Sofia.
— Orsù, vi muovete?

— Siamo pronti rispose il mastro.

— Diritto alla prora.

— E voi sotto la poppa. Prenderemo i turchi fra due fuochi.

— Badate alle scogliere.

— Cercherò di evitarle, — rispose papà Stake. — L’orecchio mio è fino e sa distinguere il frangersi dell’onda.
— Addio, signori e preparate le armi concluse Nikola.

La sua scialuppa virò di bordo e scomparve quasi subito fra le tenebre.

— Ecco un greco che ha del buon sangue nelle vene, — mormorò papà Stake. — Se un giorno diverrò ammiraglio lo nominerò capitano di galera. Avanti, ragazzi!
L’imbarcazione riprese la marcia, sempre con prudenza, muovendo verso la massa oscura che pareva sonnecchiasse in mezzo alla piccola rada.
Pareva proprio che i turchi, dopo il colpo di colubrina, si fossero nuovamente addormentati, poichè non si udiva alcuna voce levarsi dal ponte dello sciabecco. Solo il timone, smosso dalla risacca, di quando in quando cigolava sui cardini corrosi dalla salsedine del mare.

Papà Stake tendeva sempre gli orecchi, ascoltando il fragore delle onde le quali si frangevano con furore su una moltitudine di scoglietti aguzzi come pettini, balzando e rimbalzando con estrema violenza.
Guidare la scialuppa, che era piuttosto pesante, in mezzo a quegli ostacoli che il mastro a malapena discerneva, non era cosa facile.
Nondimeno aveva già percorsa un’altra gomena, quando una sorda esclamazione sfuggì dalle labbra del mastro.
— Che cosa avete, papà Stake? — chiese la duchessa.

— Non vedete quel punto luminoso che oscilla fra le onde?

— Qualche pesce fosforescente?

— No, signora.

— Che cos’è dunque?

— Si direbbe una tavoletta, un guscio, qualche cosa di simile insomma, con un pezzo di candela dentro.
— Accesa da chi?

— Dai turchi senza dubbio, signora.

— Che cosa significa?

— Che quei cani cercano di scoprirci. Non sarò però io così stupido d’accostarmi a quella luce per far scorgere la scialuppa e ricevere una palla di colubrina per saluto.
I furbi vegliano e forse si sono immaginati che noi tentiamo qualche colpo di testa.

— Che Maometto li ispiri? Ahuff! Quel cialtrone non può essere capace di tanto. Ragazzi, sotto! Ci siamo! Pronti all’abbordaggio!
La duchessa, El-Kadur e Perpignano avevano estratti i jatagan e le scimitarre.
Non erano che a trenta passi dalla minuscola nave e nessuno degli uomini di guardia pareva che si fosse ancora accorto della presenza delle due imbarcazioni.
Papà Stake spinse innanzi velocissimamente la scialuppa, poi con un rapido colpo di barra la fece appoggiare contro il tribordo dello sciabecco. Aggrapparsi alla murata, scavalcarla con un solo slancio e balzare sulla tolda, fu l’affare d’un solo istante.
Un uomo che stava appoggiato all’argano, vedendo apparire d’improvviso quello sconosciuto, si era gettato innanzi, urlando:
— All’armi!

Il pugno di ferro del mastro, una vera mazza, gli piombò sul cranio con sordo rumore.
Il turco dello sciabecco era caduto come fulminato, ma il suo grido d’allarme era stato udito.
Il comandante che si trovava sul casseretto si precipitò fuori, colla scimitarra in pugno.
— Cane d’un mussulmano! — gridò freddamente il mastro, puntandogli rapidamente una pistola, che aveva già la miccia accesa. — Ti avverto che se opponi resistenza ti ammazzo come una lepre. Giù quell’arma!

Il comandante dello sciabecco, un giovane turco che pareva non avesse più di venticinque anni, era rimasto tanto stupito da quella improvvisa invasione e da quella minaccia, che stette per qualche istante muto.
Intanto Capitan Tempesta, Perpignano, El-Kadur ed i greci, lasciati i remi ed impugnati gli archibugi, avevano approfittato di quel momento di esitazione per invadere lo sciabecco e puntare le armi sull’equipaggio, che usciva in quel momento, vociando e bestemmiando, dalla cameretta di prora.
Capitan Tempesta si era gettato subito sul comandante, colla scimitarra alzata, pronto a vibrargli un colpo mortale.
— Avete udito quello che ha detto quest’uomo? — gridò.

— Chi siete voi? chiese finalmente il turco.

Invece di rispondere, la duchessa si volse verso Perpignano, dicendogli:

— Fate fronte all’equipaggio e se non getta le armi, fate fuoco.

Poi, guardando fisso il comandante e salutandolo ironicamente, gli disse:
Io sono un capitano cristiano e v’intimo di arrendervi, se volete salvare la vita vostra e quella del vostro equipaggio.
— Dei cristiani! — gridò il turco, cercando di sottrarsi alla pistola di papà
Stake con un salto indietro.

Il mastro però, che aveva gli occhi a tutto, fu lesto ad agguantarlo per la casacca, dicendogli:

— No, amico, non la fa nemmeno Maometto ad un vecchio squalo di mare par mio. Se cerchi di scappare ti regalo un certo confettino duro che ti manderà fra le uri del tuo paradiso, se sarai capace di trovarle.
— E credete che un turco si arrenda ai cristiani! — urlò il comandante del piccolo veliero. — Sgombrate o vi farò frustare come cani!
— E da chi? — chiese la duchessa.

— Da Alì pascià.

— È lontano.

— Domani potrebbe esser qui.

— Basta, chiacchierone! — gridò papà Stake. — Non siamo già venuti qui per discorrere con te, testa di legno. Abbiamo ben altro da fare noi. Ti arrendi sì o no.
Il turco, con una mossa improvvisa sfuggì alla stretta del mastro e cercò di estrarre la scimitarra, ma cadde fra le braccia di El-Kadur il quale lo strinse in modo tale di strappargli un urlo di dolore.
— Bravo arabo! — disse papà Stake, ridendo.

— A me, marinai! — gridò il turco. — Uccidete questi cristiani! Il Profeta lo vuole!
I dieci turchi che formavano l’equipaggio dello sciabecco stavano per rovesciarsi addosso ai greci comandati da Perpignano ed impegnare una lotta disperata, quando udirono dietro alle loro spalle una voce che gridava:
— Adagio, amici! Ci siamo anche noi, pronti a farvi la pelle e non siamo mussulmani oggi!

Era Nikola che irrompeva sul castello di prora, spalleggiato dai suoi uomini che s’arrampicavano lestamente sulle trinche del bompresso.
I turchi, vedendosi dinanzi i greci di Perpignano che stavano per fucilarli a brucia-pelo e alle spalle quei nuovi nemici, che forse credevano molto numerosi, si erano arrestati.
— Giù le armi, canaglia! gridò il greco, avanzandosi colla scimitarra alzata ed una pistola colla miccia accesa. — Se volete morire non avete che da fare un passo solo! Avanti voi e preparatevi a spazzare questi banditi.
Frattanto il comandante del piccolo veliero era stato rovesciato violentemente sulla tolda ed El-Kadur gli aveva posto sopra un ginocchio, puntandogli un jatagan alla gola.
— Padrona, — disse l’arabo. — Devo finirlo?

— I prigionieri possono essere sempre utili e valgono meglio vivi che morti, — disse papà Stake. — È vero, signora?
— Avete ragione, mastro, — rispose la duchessa.

— Ti arrendi, dunque? — chiese l’arabo al turco.

— Alì pascià saprà vendicarmi, — rispose il comandante del veliero, lasciando cadere la scimitarra.
— Sì, se ti lasceremo il tempo di avvertirlo, — disse papà Stake. — E ciò sarà un po’ difficile.
— Oh! Pagherete più tardi questo tradimento.

— Ti aspetteremo nell’Adriatico o meglio nella laguna veneta. C’è il canale Orfano che aspetta dei turchi con una pietra al collo.

— Insomma, che cosa volete fare di me? — urlò il turco.

— Pel momento tenervi prigioniero, — rispose la duchessa. — Se fossimo mussulmani, a quest’ora non sareste più vivo e nemmeno i vostri marinai respirerebbero. Ringraziate quindi il vostro Profeta che noi siamo cristiani e voi turchi.
El-Kadur, lega quest’uomo e portalo nella camera di prora.

— E voi, tenente, — disse papà Stake — legate quei pagani con cento braccia di canapo impeciato.
L’equipaggio turco, vedendosi preso fra due fuochi, aveva gettate le armi, comprendendo che una lotta sarebbe riuscita disastrosa.
I greci si erano subito avventati sui prigionieri, prendendoli a pugni ed a calci e chissà se avrebbero lasciate intatte le orecchie dei loro secolari nemici, senza l’intervento di Perpignano e la presenza della duchessa.
Ben presto, furono legati e trascinati, assieme al loro comandante, nella cameretta di prora, mettendo dinanzi al boccaporto due marinai armati d’archibugi e di scimitarre.
— Signora, — disse Nikola, avanzandosi verso la duchessa. — La rada è ormai libera e possiamo scendere senza essere disturbati.
Se volete imbarcarvi, all’alba noi saremo dinanzi al castello d’Hussif.

— Per Bacco bacone, — disse papà Stake. — Non credevo che il nostro primo tentativo riuscisse così facile e senza sparare nemmeno un colpo di pistola. Il più difficile sarà il secondo.
— Forse meno di quello che credete, — rispose la duchessa, — Noi ci presenteremo come messi di Muley-el-Kadel, incaricati d’una qualche

missione per la nipote del pascià. Forse che non abbiamo l’aspetto di turchi?
— Ma voi non parlate la loro lingua, signora.

— Mi farò credere un arabo. Non ve ne sono pochi nell’esercito di
Mustafà! El-Kadur mi ha insegnato la lingua araba.

— Ecco un’idea portentosa, che non sarebbe mai spuntata nel mio cervello di pesce-cane, — disse papà Stake.
— Un superbo arabo, signora. Non ne ho mai veduto, uno simile, nè uno così bello!… Eh! Non so che cosa dire, ma se non fossi così vecchio, vi giuro che la mia testa chissà a quest’ora dove frullerebbe.
El-Kadur gli lanciò uno sguardo feroce, che non fece però nè caldo nè freddo al vecchio marinaio, mentre la duchessa sorrideva a quell’uscita del lupo di mare.
— Imbarchiamoci, — disse Nikola.

— E questo naviglio? — chiese la duchessa.

— I nostri due uomini lo condurranno verso la gagliotta, signora. Basterà una vela per raggiungere i loro compagni, così saranno in quattro a vegliare sui turchi che sono ormai senz’armi. Papà Stake, andiamo e anche voi, signora.
— Chi ci guiderà al castello? — chiese il mastro.

— Io, — rispose Nikola. — D’altronde l’alba non sarà molto lontana. Diede ai due greci, che erano di guardia dinanzi alla camera di prua,
alcuni ordini, poi rinnegati e cristiani ridiscesero nelle due scialuppe.

— Alla spiaggia, — gridò Nikola. — Ormai non abbiamo più nulla da temere e, se verrà Alì pascià, giungerà sempre troppo tardi.
Le due scialuppe si scostarono dallo sciabecco che stava per muoversi, avendo i due uomini di guardia sciolta una vela, e si diressero verso la costa contro cui rompevansi i cavalloni con molta violenza, frescando il vento da ponente.
Quello di papà Stake superò l’ultimo tratto, senza aver dato dentro ai numerosi scoglietti che si moltiplicavano dinanzi la prora e andò ad arenarsi sul lido sabbioso.
Al rumore prodotto dai remi che venivano deposti sui banchi, uno stormo di uccelli marini si alzò, fuggendo a destra e a sinistra, e scomparendo fra le tenebre.
— Buon segno, — disse papà Stake, fregandosi le mani. — Se qui vi fossero dei turchi, questi volatili non si sarebbero addormentati sulla spiaggia.
— Sbarcate, — disse Nikola, la cui scialuppa si era pure arenata.

La duchessa, Perpignano, El-Kadur e gli altri scesero sulla spiaggia dopo essersi armati degli archibugi.
Nikola, che li aveva già preceduti, si era arrampicato su una rupe ed osservava attentamente la pianura che si estendeva dinanzi a lui e che pareva molto accidentata e cosparsa di grossi alberi.
Non si scorgeva alcun lume a brillare fra le tenebre, nè abbasso, nè sulle colline rocciose che s’innalzavano all’estremità della rada. Si udivano invece in lontananza i latrati d’un cane.

— Nessuno veglia da queste parti, — disse il greco, quando fu nuovamente sulla spiaggia.
— Quando potremo giungere al castello? — chiese la duchessa.

— Tra un paio d’ore, — rispose Nikola.

— Dovremo aspettare l’alba?

— È inutile, signora. Conosco la via che ho percorso più di mille volte, portando sulle spalle un quintale di granoturco come uno schiavo e anche trottando sotto i colpi di frusta degli aguzzini. L’esistenza era terribile, allora.
— Partiamo?

— Sì, se non siete stanca.

— Avanti e silenzio.

Il drappello si mise in marcia superando le dune di sabbia e scese nella tenebrosa pianura, preceduto dal greco il quale pareva che avesse gli occhi dei gatti.
— Che diavolo d’uomo! — borbottava papà Stake, urtando il gomito di Simone che gli camminava a fianco. — Questi greci sono davvero ammirabili, quando hanno da prendersi qualche rivincita sui turchi. Ed io che li credevo fabbricati di mollica di pane di Mogliano!
— Sì, brava gente, — rispose laconicamente il giovane marinaio, che era tutt’altro che loquace.
La duchessa e Perpignano intanto discorrevano sottovoce con Nikola, onde preparare il loro piano e mettersi completamente d’accordo per

evitare il pericolo di commettere qualche imprudenza che avrebbero certamente pagata colla morte e chissà quanto atroce.
— Per voi tutti io sono Hamid, figlio del governatore di Medina, conoscendo io benissimo l’arabo, — concluse la duchessa — amico intimo di Muley-el-Kadel. Ben-Tael, lo schiavo del generoso giovane sarà incaricato di provare che io sono realmente un mussulmano ed un valoroso capitano.
— E non comprometterete il Leone di Damasco? — chiese Nikola.

— Mi ha detto di servirmi in qualunque occasione del suo nome e ne approfitterò, — rispose la duchessa. — Lasciate che parli io sola alla nipote di Alì pascià.
— Sì, signora, — dissero Nikola e Perpignano.

— Avvertite i nostri uomini. Dobbiamo evitare la minima imprudenza.

— Ci va di mezzo un palo, — disse il greco. — La nipote del pascià è bella, ma, come vi dissi, gode fama di non essere meno crudele di suo zio, quando si tratta di cristiani.
— Mi proverò ad ammansire quella giovane tigre, — disse la duchessa, che pareva seguisse un fuggevole pensiero. — Ho una grande fiducia nella riuscita del nostro progetto, per quanto possa sembrare eccessivamente audace.
Il greco si arrestò un momento per meglio orientarsi, essendo le tenebre sempre fittissime, poi il drappello riprese la marcia attraverso a burroncelli coperti di sterpi che rendevano il cammino assai malagevole.
Soprattutto, papà Stake brontolava continuamente contro le accidentalità del terreno.

— E poi vi sono degli imbecilli che affermano che si passeggia bene sulla crosta terrestre, — borbottava. — Quelli non hanno mai calcata la tolda d’una galera, nè hanno mai provate le delizie del rollìo e del beccheggio. Alla malora Cipro, i turchi ed i ciprioti!
Verso le cinque le tenebre cominciarono a diradarsi.

— Vedete, signora? — chiese Nikola, tendendo la mano verso una collina dirupata sulla cui cima giganteggiava confusamente una grossa costruzione.
— Il castello d’Hussif? — chiese la duchessa.

— Sì, signora.

— Povero Le Hussière! Sarà nei sotterranei d’una di quelle tristi torri.

— E bene incatenato, anche. La nipote di Alì non è troppo ospitale coi rinchiusi della torre.

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