Ben- Tael, lo schiavo fedele di Muley-el-Kadel, non aveva perduto il suo tempo.
Essendo abilissimo nuotatore e trovandosi la gagliotta nel momento dell’abbordaggio, a meno di quattro miglia dalla costa, non aveva avuto troppe difficoltà a mettersi in salvo prima che la galera piombasse sui cristiani.
Nascosto dietro un’alta rupe, aveva assistito al furioso combattimento e alla cattura del piccolo veliero.
Certo ormai che i turchi riconducessero i cristiani da Haradja e che solo il suo padrone potesse salvarli, appena le due navi si erano rimesse alla vela verso il settentrione, lo schiavo, superate le rocce che lo dividevano dalle pianure interne dell’isola, si era lanciato a corsa disperata verso Famagosta, dove era sicuro di trovarlo.
L’arabo delle dune non è quello dell’interno. Al pari dell’abissino è un buon camminatore, usando pochissimo il mahari ossia quel cammello ad una sola gobba che può divorare sessanta ed anche settanta chilometri in dodici ore, accontentandosi d’un po’ di farina impastata, e di un po’ di fumo di buon tabacco: il caffè di quei bravi quadrupedi.
Allenato da lunga pezza, partì colla velocità d’un’antilope onde raggiungere al più presto il suo signore ed informarlo del triste esito della
sua missione. Come tutti i negri dell’Arabia sapeva dirigersi per intuizione, al pari dei colombi viaggiatori, senza aver bisogno di bussola.
La via da percorrere era lunga, tuttavia Ben-Tael era sicuro di giungere molto presto a Famagosta, contando sulla solidità dei suoi garetti.
Passò tutta la notte sempre correndo, si riposò tre o quattro ore al mattino, in una fattoria risparmiata, chissà in sèguito a qual miracolo dalle orde furibonde di Mustafà, poi si rimise in viaggio facendo sforzi sovrumani per guadagnare miglia su miglia.
Nondimeno non fu che al cader del secondo giorno che poté finalmente scorgere le torri di Famagosta.
Era talmente sfinito da non poter più reggersi in piedi, non avendo mangiato che un po’ di pane nero e qualche manata di olive e non avendo dormito che sei ore su trent’otto.
La resistenza fenomenale della sua razza aveva però trionfato meravigliosamente e Ben-Tael non aveva chiesto di più al suo organismo.
Alle otto del mattino, nell’ora in cui le porte di Famagosta venivano aperte ai radi contadini incaricati di procurare quanto avevano di meglio allo sterminato esercito di Mustafà, Ben-Tael, coperto di polvere, di fango e bagnato ancora di sudore, entrava nella disgraziata città, ormai popolata da soli mussulmani dopo che tutti gli uomini erano stati barbaramente massacrati e le donne fatte schiave sulle navi del pascià ancorate in Nicosia, per essere condotte a Costantinopoli.
Le vie e le piazze anche dopo tanti giorni, erano ingombre di rovine ed occupate da reparti di mussulmani e da un numero infinito di cani, accorsi dalle campagne per divorare i cadaveri degli ultimi veneziani.
Il popolo conquistatore nulla aveva ancora fatto. Mustafà, pago di aver finalmente distrutti tutti i difensori dell’isola disgraziata, si riposava indolentemente, nè i suoi pascià facevano di meglio.
Famagosta non doveva più mai risorgere: tale era l’ordine di Selim e quei bravi mussulmani, ciechi istrumenti del Sultano, lasciavano che tutto crollasse intorno a loro: case, baluardi, torri, basiliche, tutto insomma che potesse ricordare qualche cosa del ruggente Leone di San Marco.
Ben-Tael, che non ignorava dove abitasse il suo signore, attraversò, sempre correndo, la città e si presentò dinanzi alla casetta che era guardata da un drappello di giannizzeri.
— Il mio padrone? — chiese subito, allontanando impetuosamente i soldati che volevano sbarrargli il passo. — Fate largo al suo servo devoto che aspetta impazientemente.
Udendo quelle parole, nessuno aveva osato fermarlo. Muley-el-Kadel, che stava cenando assieme ad un pascià suo amico, udendo quella voce si era affrettato ad accorrere sulla gradinata della casetta.
— Tu! — esclamò, vedendo lo schiavo. — Mi rechi una triste notizia, Ben-Tael?
— È vero, signore, — rispose lo schiavo. — I cristiani sono stati ripresi da una galera comandata da uno dei capitani di Haradja.
— Haradja! — gridò il Leone di Damasco, con ira. — Che io debba incontrare sempre sui miei passi quella tigre in gonnelle? Parla: spiegati!
Bastarono allo schiavo pochi minuti per informarlo di quanto era avvenuto dopo che si era imbarcato sulla gagliotta, senza dimenticare alcun particolare.
— Haradja non si smentisce, — disse il Leone di Damasco, quando ebbe ascoltato il racconto dello schiavo. — Sempre strana e sempre crudele! Dove credi tu Ben-Tael, che siano stati condotti i cristiani?
— Certo al castello d’Hussif, mio signore, — rispose lo schiavo.
— Da Metiub?
— Sì, padrone.
— Haradja mi restituirà la duchessa, — disse Muley-el-Kadel, con accento feroce. — Si guardi!… Il Leone di Damasco è abbastanza formidabile per vincere quella tigre.
— È terribile quella donna, signore! — disse lo schiavo.
Un sorriso di disprezzo comparve sulle labbra del fiero giovane.
— Vedremo, — disse — se sarà più formidabile Haradja o colui che si chiama il Leone di Damasco!
— Da’ ordine al mio aiutante di campo che si preparino trenta cavalli ed altrettanti uomini scelti fra i più valenti della mia compagnia.
Se Haradja vorrà opporsi ai miei voleri, avrà da fare con me. Mustafà è potente; il pascià è forse più potente ancora, ma Muley-el-Kadel è la prima lama dell’esercito mussulmano e gode troppa fama fra i guerrieri dell’Islam.
Sfido entrambi!
— Sicchè andremo al castello d’Hussif, padrone?
— E senza perdere tempo, — rispose Muley-el-Kadel. — Quella donna è capace di vendicarsi subito e noi dobbiamo giungere colà prima che arrivino i prigionieri.
In otto ore di galoppo sfrenato potremo giungere sotto le mura del castello.
— E Mustafà, padrone?
— Non saprà nulla per ora.
— Ma più tardi? Tu sai che cosa regala il Sultano a coloro che porgono aiuto ai cristiani.
— Sì, un cordone di seta affinchè si appicchino, — rispose Muley con un sorriso. — Non temere per me, mio fedele Ben-Tael. Il Leone di Damasco non si uccide che a colpi di spada e nessun mussulmano oserebbe misurarsi con me, nemmeno Metiub.
Va’ e che fra mezz’ora la scorta sia qui: scegli i migliori fra quelli che io ho condotto da Damasco, che sono devoti a mio padre ed a me fino alla morte.
Lo schiavo, che doveva possedere una resistenza meravigliosa per non riposarsi un momento, dopo così lunga marcia, uscì, correndo, mentre altri schiavi insellavano rapidamente il cavallo di battaglia del loro signore, che era annoverato fra i più veloci delle scuderie mussulmane dei pascià.
La mezz’ora non era ancora trascorsa che Ben-Tael si fermava dinanzi alla casetta, montando un bellissimo destriero tutto bianco. Lo seguivano trenta cavalieri damaschini, coperti di ferro e armati di lunghi moschettoni, di scimitarre dalla lama larghissima e di mazze d’acciaio,
tutti begli uomini, di forme robuste e con lunghe barbe nere che davano loro un aspetto brigantesco.
— Eccoci, padrone, — disse, vedendo Muley-el-Kadel comparire sulla cima della gradinata. — Siamo pronti a partire ed a seguirti dovunque, anche all’inferno, se lo desidererai.
Il Leone di Damasco guardò attentamente i cavalieri, poi, soddisfatto da quell’esame, discese rapidamente e balzò in sella al suo cavallo di battaglia, che scalpitava e soffiava rumorosamente, impaziente di slanciarsi.
— Avanti, miei prodi! — gridò.
La truppa partì ventre a terra, dietro al fiero giovane ed a Ben-Tael che cavalcava al fianco del suo signore, conoscendo meglio d’ogni altro la via che conduceva al castello d’Hussif.
Attraversarono, senza che i giannizzeri di guardia osassero fermarli, uno dei bastioni della città e si gettarono sulla tenebrosa campagna, spronando furiosamente.
— Se i cavalli non cedono, ai primi albori noi saremo a Hussif, padrone,
— disse Ben-Tael. — Vedremo come ci accoglierà Haradja.
— Non certo troppo bene rispose Muley. Poi, dopo una pausa, disse:
— Eh! Chissà… può darsi invece che sia lieta di rivedermi. Tu sai che mi ha lungamente amato e che sperava di diventare la moglie del Leone di Damasco.
— Lo ha confessato anche alla duchessa.
— Haradja?
— Me lo disse in confidenza El-Kadur.
— E come si è espressa verso di me?
— Non troppo bene, a quanto seppi. Pare che ora vi odii più che amarvi.
— Lo vedremo rispose il giovane mussulmano, con un sorriso ironico. — È crudele, ma anche molto sensibile quella donna. Sprona, Ben-Tael: ho paura di giungere troppo tardi.
La scorta che era pure ben montata, seguiva da presso Muley e lo schiavo, però doveva spronare poderosamente, per non rimanere addietro ai due destrieri arabi, che pareva avessero il fuoco dentro le vene.
Alle due del mattino il drappello sostò una mezz’ora, dinanzi alle collinette che separavano le pianure dell’interno dagli stagni morti delle sanguisughe, onde non stremare completamente i cavalli, che fino a quel momento avevano galoppato con una furia infernale; poi ripresero la corsa, cacciandosi entro una gola strettissima che doveva sboccare nella pianura acquitrinosa.
Quando il cielo incominciò ad imbianchire, Ben-Tael mostrò al suo signore le alte torri d’Hussif che giganteggiavano sulla cima dell’enorme rupe dominante il mare.
— Fra mezz’ora o tre quarti d’ora ci saremo, padrone, — gli disse lo schiavo. — Rallentiamo un po’, essendo il sentiero che conduce lassù assai faticoso.
Avendo oltrepassati già gli stagni morti, che in quell’ora erano deserti, la scorta cominciò a salire le prime rupi, aizzando per l’ultima volta i cavalli che sembravano sfiniti.
Erano appena giunti sul piccolo altipiano su cui sorgeva l’imponente castello quando le scolte delle torri diedero l’allarme.
Pochi minuti dopo il ponte levatoio cadeva con gran fragore ed una turba di giannizzeri e di marinai, armati di moschettoni, occupava i margini dei fossati pronti a respingere i cavalieri.
Muley-el-Kadel fece fermare la scorta e s’avanzò solo verso quei soldati, che avevano già accese le micce e che pareva si preparassero a far fuoco.
— Sono il Leone di Damasco! — gridò, alzando la destra. — Andate ad avvertire la nipote di Alì pascià della mia venuta.
Un gran grido uscì da cento bocche, un gran grido di entusiasmo.
— Salute e lunga vita a Muley-el-Kadel!
Le file dei giannizzeri e dei marinai si erano subito sciolte per correre a salutare il famoso guerriero che, così giovane, si era già guadagnato tanto glorioso nome fra l’armata mussulmana.
— Dorme ancora, Haradja? — chiese Muley, quando le grida festose furono cessate.
— Sta alzandosi, signore, — rispose uno schiavo, accorrendo. — È già stata avvertita della tua presenza, signore.
— Fate largo dunque, — disse il giovane guerriero.
Fece cenno alla scorta di seguirlo e fece la sua entrata nel cortile d’onore dove parecchi capitani lo aspettavano.
Altri schiavi intanto accorrevano, portando dei vassoi pieni di chicchere di caffè e dei pasticcini da offrire al seguito.
Muley-el-Kadel aveva appena messo piede a terra e vuotata una tazza di eccellente moka, quando il maggiordomo del castello mosse incontro al guerriero dicendogli:
— La mia padrona ti aspetta, signore. Vuoi seguirmi?
— Solo?
— Sì, desidera vederti solo, — rispose il maggiordomo.
Muley si volse verso Ben-Tael che gli stava dietro e gli sussurrò agli orecchi:
— Che i miei uomini non disarmino. Tenetevi pronti a tutto. Lo schiavo fece col capo un moto d’assentimento.
— Andiamo, precedimi, — disse Muley al maggiordomo.
Salirono il grande scalone e Muley fu introdotto nella medesima sala ove
Haradja e la duchessa avevano pranzato insieme.
La nipote del pascià stava, come quella volta, appoggiata alla tavola, tutta chiusa in un’ampia vestaglia di seta bianca, con risvolti di damasco azzurro e ricami d’argento.
— Tu, Muley-el-Kadel; — gli chiese con voce lenta, un po’ velata, senza muoversi. — Non credevo di vederti mai rientrare in questo castello. Che cosa vieni a fare qui?
— A chiederti notizie di una donna cristiana che tu hai ospitata per alcuni giorni e che poi hai fatta inseguire dal tuo capitano.
Una cupa fiamma animò gli occhi d’Haradja, mentre il suo viso s’imporporava.
— Ah! Quella donna che si era presentata qui, vestita da capitano? —
chiese la crudele mussulmana con un sorriso sardonico.
— Sì, quella, — disse Muley-el-Kadel con voce ferma.
— Ah! — fece per la seconda volta la nipote del grande ammiraglio.
— Dov’è? chiese il Leone di Damasco, con tono quasi minaccioso.
— Chi lo sa?…
— Non è qui?
— Se fosse giunta non so, Leone di Damasco, se tu l’avresti trovata viva.
— È dunque sempre crudele, Haradja?
— Sempre.
— Tu devi sapere ove si trova. Io ho saputo che la galera di Metiub ha raggiunta e abbordata la gagliotta montata dai cristiani.
Haradja ebbe un sussulto violento, come lo scatto d’una giovane fiera.
— L’ha presa! — gridò, rizzandosi di colpo, coi lineamenti alterati da una collera intensa. — Chi me la strapperà ora di mano?
— Io sono venuto perchè tu me la ceda, assieme ai cristiani che l’accompagnano.
— E tu, mussulmano… — gridò Haradja.
— Sì, proteggo costoro, — rispose Muley-el-Kadel, con voce fredda.
— E credi tu che, se Mustafà o Selim venissero informati di questo, chiuderebbero gli occhi?
— Comandino all’esercito di arrestarmi: sono l’idolo del campo e nessuno oserebbe porre le mani sul Leone di Damasco.
— Basterebbe un cordone di seta mandato da Costantinopoli, — disse
Haradja.
— Costantinopoli è troppo lontana, — disse Muley, con voce beffarda.
— Vi sono delle galere abbastanza rapide ed in cinque o sei giorni quel cordone potrebbe giungere qui.
— Saresti capace di denunciarmi?
Haradja gli si accostò, mettendogli le mani sulle spalle e, dopo d’averlo fissato a lungo, con due occhi che parevano fossero diventati fosforescenti come quelli d’una tigre, gli disse con voce sibilante:
— Che cosa ne hai fatto tu del mio cuore, orgoglioso Leone di Damasco? Io so che tu me lo hai fatto a pezzi, dopo d’averlo incendiato coi tuoi occhi.
T’amavo, sai, Muley-el-Kadel, t’amavo immensamente, come solo sa amare una donna della mia razza e tu, la mia affezione l’hai disprezzata! Eppure io non ero una donna qualunque: ero la nipote del più grande ammiraglio che abbia avuto finora la flotta mussulmana e che tanti pascià si disputavano.
Le torture che io ho sofferto, non te le narro; io sola so quante notti insonni ho passate pensando a te, a quel baldo e giovane guerriero che riempiva delle sue gesta eroiche il campo dei mussulmani, e che avevo
tante volte veduto galoppare in mezzo alle lance ed alle spade dei veneziani, fra il fuoco degli archibugi e delle colubrine, coll’invincibile scimitarra in pugno, bello e forte come il dio della guerra.
E tu vorresti ora, che questa Haradja che per te ha pianto, sai Muley-el- Kadel, ha pianto, ti desse nelle mani quella cristiana che si è risa di me e che tu ami?
Il Leone di Damasco fece col capo un gesto di diniego.
— Sì, l’ami! — gridò Haradja, fuori di sè. — Lo leggo nei tuoi occhi e poi, basta l’interesse che tu prendi per costei ed i pericoli che tu sfidi per salvarla, per confermarmelo. Quella maledetta cristiana ti ha morso il cuore! Negalo se l’osi!
— T’inganni, Haradja, — rispose Muley, con un accento però che non era molto persuasivo. — Quella donna valorosa che militava nel campo dei cristiani, sotto il nome di Capitan Tempesta, mi salvò la vita, e sarebbe stata un’onta pel Leone di Damasco, che gode fama di essere generoso, come quelli che infestano i deserti della nostra Arabia, a non proteggerla.
— Ma sì che l’ami! — ripetè la nipote del pascià, con voce furente.
Il Leone di Damasco incrociò le braccia sul petto, come in atto di sfida e, fissandola con calma, le disse:
— E se così fosse, Haradja?
— La cristiana è mia, si trova fra gli artigli di Metiub e non mi sfuggirà! Farò infilzare il suo capo, giacchè ha destato tante passioni, sulla più alta cima delle mie torri. Haradja lo giura sul Corano e tu sai se io sono donna da mantenere i giuramenti.
Il Leone di Damasco fece l’atto di estrarre la scimitarra, poi, prontamente frenandosi, rispose:
— Metiub non è ancora giunto: spero di poterlo arrestare prima che sbarchi.
— Lui! Ed i miei uomini non li conti? E la sua galera? Avresti per caso una squadra a tua disposizione per tentarlo?
— Vedrai di che sarà capace il Leone di Damasco. Addio, Haradja e per sempre.
Il giovane uscì a testa alta, un po’ pallido, ma risoluto.
— Guàrdati dal cordone di seta del Sultano! — gli gridò la nipote del pascià.
— Ordina pure che me lo regali, — disse Muley, senza voltarsi.
Stava per varcare la soglia, quando Haradja che lo seguiva cogli occhi scintillanti d’una gioia selvaggia, lo fermò con un grido.
Muley-el-Kadel si era subito arrestato, volgendosi di colpo colla destra sull’impugnatura della scimitarra, temendo qualche tradimento.
— Ah! Mi dimenticavo una cosa, — disse la nipote del pascià, la quale si era rapidamente accostata ad una panoplia dove erano disposte artisticamente molte armi appartenenti a diverse specie.
— Che cosa vuoi ancora, da me? — chiese il Leone di Damasco, che si teneva in guardia.
— Farti un regalo che ti sarà certamente caro.
— Di che cosa si tratta?
— Voglio darti la spada colla quale il bell’Hamid, o meglio Capitan Tempesta, mise fuori combattimento la più formidabile lama dell’armata mussulmana.
La unirai a quell’altra che scavalcò te, così avrai due bei ricordi della donna che tu ami.
Così dicendo aveva fatta scorrere una mano sulla parete coperta d’armi, arrestandola bruscamente su una piccola rosa di metallo dorato, che reggeva la parte superiore della panoplia.
Subito il suolo mancò sotto i piedi del Leone di Damasco.
Una tavola del pavimento si era bruscamente abbassata e Muley-el- Kadel era scomparso entro una specie di pozzo mandando un terribile urlo di furore, a cui aveva subito fatto eco uno scoppio di risa stridenti.
— Eccoti in mio potere, prode guerriero, — disse Haradja, con accento selvaggio, mentre la tavola risaliva rapidamente e riprendeva il suo posto. — Ah! Quanto sono ingegnosi quei veneziani! Ho perduto Hamid, ma ho guadagnato il Leone, questo vale l’altra.
Si curvò sul pavimento al di sopra della tavola, ascoltando attentamente. Attraverso il legno udiva sagrati e minacce: il Leone di Damasco pareva che non si trovasse troppo bene in fondo a quel pozzo, che doveva mettere probabilmente in qualche tenebroso sotterraneo del castello.
— Agli altri, ora, — disse finalmente Haradja, alzandosi.
Uscì, avviandosi verso la galleria che prospettava sul vastissimo cortile d’onore. La scorta del Leone di Damasco si trovava ancora là, radunata nel mezzo, cogli archibugi sul dinanzi delle selle, che fumavano avendo le micce accese e le scimitarre sguainate appese all’arcione.
— Trenta disse, dopo d’averli contati, aggrottando la fronte e facendo un segno di collera. — I miei giannizzeri son ben più numerosi, ma fidatevi di quegli uomini! Se i marinai di Metiub fossero qui, la cosa sarebbe ben più spiccia e questa sera tutte quelle teste ornerebbero deliziosamente le torri del mio castello.
Cerchiamo di guadagnare tempo. Metiub non deve essere molto lontano.
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