Don Barrejoai suoi tempi, malgrado le sue lunghissime gambe, era stato, nella sua qualità di armigero, un gran conquistatore di donne, quindi non disperava affatto di condurre a buon porto i suoi disegni.
Adocchiata la bella mulatta, allungò il passo ed in pochi momenti le fu alle spalle, dicendole:
– Eh!… Eh!… Dove correte, mia bella?
La mulatta si voltò, guardò il guascone, poi, come affascinata dall’aria marziale di lui o dallo splendore della corazza, gli rispose:
– Al mercato,caballero .
– Chiamatemi conte, perché mio padre è un grande di Spagna.
– Sí, signor conte.
– Sei ai servigi del marchese di Montelimar? – le chiese don Barrejo, mettendosele a fianco.
– Sí, signor conte.
– Posso offrirti qualche cosa? La mattina è fresca, e un buon bicchiere dimezcal non farà male né a me, né a te.
– Oh!… Signor conte!… – esclamò la mulatta.
– Insieme ad un gruzzolo di piastre luccicanti, – proseguí il furbo guascone.
– Che cosa volete da me, signor conte? – chiese la mulatta, stupita di trovarsi a fianco d’un cosí grande gentiluomo.
– Signor conte, – disse poi, – io non sono che una povera serva mulatta, che non ha mai avvicinato persone di cosí alto grado.
– Ebbene sono io che ti avvicino a me, – rispose don Barrejo, posando fieramente la sinistra sull’impugnatura della draghinassa, perché gli era parso che qualche passante lo avesse guardato sorridendo ironicamente. – Pelli bianche dal sangue azzurro o pelli dorate dal sangue multicolore, per me fanno lo stesso, perché nelle mie vene non ho una goccia di sangue castigliano.
“Come ti chiami?”
– Carmencita.
– Bel nome,tonnerre !…
Passavano in quel momento dinanzi ad un negozio mezzo albergo e mezzo bottiglieria. Il guascone prese per una spalla la bella mulatta e, senza tanti complimenti, la cacciò dentro, comandando un boccale dimezcal e delle focacce dolci.
– Signor conte, – si provò a dire la cuciniera del marchese.
– Qui dentro chiamami semplicemente Diego, – rispose don Barrejo. – I figli dei grandi di Spagna bisogna che qualche volta conservino l’incognito.
Prese il boccale colmo di quel vino dolciastro e piccante, ricavato dall’alcool, empí le tazze, poi offrí galantemente alla mulatta i pasticcini inzuccherati.
– Odimi mia cara, – disse poi, abbassando la voce. – vuoi guadagnare dieci piastre?
– Non ne prendo tante in un mese di lavoro, signor…
– Diego, ti ho detto. Allora ne aggiungeremo altre dieci cosí faranno venti. Spero che saprai contare.
– Voi gettate i denari dalla finestra, signor… Diego.
– Che cosa sono venti piastre pel il figlio d’un grande di Spagna? Mio padre deve possederne un numero sterminato che un giorno passeranno attraverso le mie mani.
– Che cosa devo fare per guadagnare la somma che mi promettete, mio gentiluomo? – chiese la mulatta, la quale, pur chiacchierando, sgretolava coi suoi magnifici denti i pasticcini zuccherati, innaffiandoli con dei buoni bicchieri dimezcal .
– Rispondere semplicemente alle mie domande, – rispose il guascone.
– Allora potete interrogarmi anche fino a questa sera.
– Non voglio privare il marchese delle sue belle cuoche. Stammi bene attenta ora, Carmencita.
– Parlate, signor Diego.
– Sai tu che sia stata condotta al palazzo, due giorni or sono, una bellissimaseñorita che ha la pelle leggermente abbronzata?
– Sí, signor Diego. Sono io che le fornisco i pasti.
–Tonnerre !… Questo si chiama aver fortuna!… È ben guardata?
– Ha sempre due alabardieri dinanzi alla sua porta.
– Tu però puoi entrare liberamente quando vuoi?
– Sí, signor Diego.
– Vedi, mia cara Carmencita, io sono pazzamente innamorato di quellaseñorita e anche lei mi vuole un gran bene, ma mio padre si è messo di mezzo e me l’ha fatta portar via dal Marchese di Montelimar.
– Oh!…
– Non la vedi mai piangere il suo perduto amore?
– Veramente no, – rispose la mulatta.
– È orgogliosa laseñorita , e non vorrà farsi vedere dinanzi agli altri.
– Sarà come dite voi, signor Diego.
– Ho da darti un incarico che costerà a me le venti piastre ed a te nessuna fatica, – disse il guascone, levando da un tasca il biglietto datogli da Buttafuoco. – Non hai da fare altro che consegnarglielo, senza che nessuno ti veda.
– È una cosa semplicissima.
– Laseñorita ti darà un altro biglietto che tu mi porterai qui prima che il sole tramonti. Ora eccoti le prime dieci piastre; le altre ad affare finito.
“Sei contenta, mia bella Carmencita?”
– Siete generoso, signor conte.
– Eh!… Come un conte, – rispose il guascone, sorridendo. – Suvvia, da’ un ultimo colpo di denti a questi pasticcini che fanno piú bene a te che a me, poi vattene subito perché il marchese non sospetti qualche cosa.
– Non si occupa delle sue serve.
– Non si sa mai!
La bella mulatta diede fondo ai dolci, bevette qualche altro bicchiere dimezcal , poi, dopo aver promesso di trovarsi all’appuntamento, se ne andò col suo gran paniere infilato nel braccio.
–Tonnerre !… – mormorò il guascone, quando fu solo, stropicciandosi allegramente le mani. – Anche fra le serve si trovano delle brave persone.
“Orsú, andiamo a passare la mia ultima giornata insieme a Panchita, poiché domani noi non saremo piú certamente a Panama.
“Tonnerre!… Era tempo che don Barrejo si svegliasse dal suo lungo sonno matrimoniale, e che riprendesse la sua vita di avventuriero.
“Non ero già nato per fare il cantiniere.”
Gettò sul tavolo una piastra ed uscí senza attendere il cambio, fra gli inchini dei garzoni, stupiti di tanta generosità. Già, si capisce, essi ignoravano la storia dell’eredità del Gran Cacico del Darien sulla quale il guascone contava di rifarsi ampiamente.
Soltanto verso il mezzodí don Barrejo fece la sua entrata nella sua taverna, proprio nel momento in cui Panchita e Rios stavano per mettersi a tavola.
– Salute e buon appetito alla compagnia, – disse, sbarazzandosi del ferraiolo. – Com’è che non vi è alcun bevitore, moglie?
– Ah!… Sei tu, finalmente!…
– Credevi che fossi un altro, moglie? Vanno male gli affari? La mia taverna è diventata un deserto.
– Quella maledetta botte ha spaventato tutti, – rispose Panchita. – L’hanno veduta uscire ieri sera e rientrare stamane e nel quartiere si sussurra che tu alla notte vai ad affogar gli spettri che accalappi nella cantina.
Il guascone proruppe in una risata.
– Non mi ero mai creduto capace di tanto, – disse. – Vuoi un consiglio, Rios? Va’ a gettare in mare quella dannata botte che minaccia di diventare la nostra rovina.
“Quando non la vedranno piú ritornare si persuaderanno che i satanelli, i diavoletti, i fantasmi ed i folletti se ne sono andati e verranno ancora a bere il buonXeres d’El Moro.
“Orsú, facciamo il nostro ultimo pranzo in compagnia, moglie.”
– Come, parti?
– Sono tre giorni che continuo a dirtelo. Siete un po’ duri d’orecchio, voialtri castigliani?
– E dove vai?
– Fra gl’indiani, a raccogliere l’eredità del Gran Cacico del Darien. Mia cara, ritornerò con una montagna d’oro ed apriremo un magnifico albergo come non se ne sono mai veduti in Panama.
– E se ti uccidono?
– Chi? Uccidere don Barrejo? I guasconi non si lasciano ammazzare come polli, mia cara, ricordatelo. E poi quando ci sono con me Mendoza e Buttafuoco si può star tranquilli.
“Scommetto che verrebbe volentieri con me anche Rios.”
– Certo, se si trattasse di combattere solamente contro gli indiani, – rispose l’ercole castigliano.
– Ah!… Questo non si sa, e perciò ti lascio a far la guardia a mia moglie. Bevi, mangia ed intasca, senza contare, ché l’eredità del Cacico pagherà tutto.
“Pranziamo e basta colle chiacchiere, per ora. Ho la lingua quasi secca.”
Pranzò allegramente, senza piú accennare alle sue future conquiste, occupò il pomeriggio a rimettere in ordine la cantina insieme a Rios, poi verso il tramonto prese le sue pistole e disse a Panchita che lo guardava con sorpresa:
– Addio, mogliettina: ritorno il guascone dei bei tempi.
– E quando rimarrai assente?
– Chi lo sa? Potrebbe dirtelo solamente l’anima del Gran Cacicco del Darien.
– E se tu non ritornassi piú?
– Ti rimariterai, – rispose semplicemente don Barrejo.
L’abbracciò affettuosamente, strinse la mano al cognato e se ne andò tranquillamente, canticchiando fra i denti:
Las doncellas son de oro
Las casadas son de plata
Y las viudad son de cobre
Y las viejas de hora de lata.
(Le donzelle sono d’oro
Le donne maritate d’argento
Le vedove son di rame
E le vecchie di latta)
Affrettò il passo e giunse ben presto nellaposada dove l’aspettava la mulatta.
La giovane vi era di già e stava sgretolando altri pasticcini e bevendo dell’altromezcal , certo che il suo generoso amico non si sarebbe fatto pregare per pagare il conto.
– Dunque, Carmencita? – chiese il guascone, abbracciandola.
– Tutto fatto, signor conte.
– Corpo di Giove Pluvio!… Tu sei una perla!… Il biglietto?
– Consegnato allaseñorita .
– E non ti ha dato nulla per me?
– Un altro biglietto, – rispose la mulatta, levandosi dal corsetto di percallo variegato un piccolo piego.
Il guascone l’afferrò, l’aprí, vi gettò sopra gli occhi, borbottò delle parole incomprensibili, per non farsi credere un ignorante, poi se lo mise in tasca, mormorando:
– Qui ci vogliono gli occhi di Buttafuoco o quelli del curato del mio villaggio, se risplenderanno ancora, cosa di cui dubito assai, poiché il sant’uomo era già vecchio ed anche in Guascogna purtroppo si prendono dei passaporti per l’altro mondo.
Mise dinanzi alla mulatta le altre dieci piastre, vuotò un paio di bicchieri dimezcal , pagò il conto e si alzò, dicendo:
– Noi ci rivedremo ancora, mia bella. Dirai allaseñorita che tutto va bene.
“Addio, e non commettere imprudenze.”
E, come aveva lasciato sua moglie, piantò in asso la mulatta e se ne andò sempre canticchiando fra i denti:
Las doncellas son de oro…
Quando giunse al porto la notte era già calata ed il cannone aveva tuonato per segnalare la sospensione delle partenze.
Trovò Buttafuoco e Mendoza in grandi faccende. Avevano fatto acquisto di archibugi, di pistole e di munizioni e stavano impaccandole.
– Ecco la risposta dellaseñorita , signor Buttafuoco, – disse il guascone, piombando nella casetta come una bomba. – Come vedete, io ho mantenuta la mia promessa.
– Comincio a sospettare che siate parente del diavolo, – rispose il bucaniere.
– Un po’ piú, un po’ meno tutti i guasconi sono imparentati con compare Berlicche, – rispose don Barrejo. – È una cosa che si sa anche in Biscaglia, è vero, Mendoza?
Buttafuoco aveva aperto rapidamente il biglietto della contessina di Ventimiglia, e d’un colpo d’occhio l’aveva scorso.
– I nostri prigionieri hanno detto la verità, – disse. – Fra otto o dieci giorni il marchese la farà imbarcare sulSan Juan per condurla alla baia di David insieme all’avanguardia della spedizione.
– Fulmini di Biscaglia!… – esclamò Mendoza. – Abbiamo appena il tempo di raccogliere i filibustieri di Raveneau de Lussan.
– Non ci manca che d’imbarcarci poiché tutto è pronto, – rispose Buttafuoco. – Domani mattina saremo ben lontani da Panama.
– Si parte? – esclamò il guascone.
– Wandoe insieme al fiammingo hanno noleggiato oggi una piccola caravella che si dice dovrà trasportarci in California, mentre quando saremo in mare andremo dove vorremo, se l’equipaggio non vorrà servire da colazione o da cena ai pesci-cani.
– Quanti sono a bordo?
– In sei, compreso il capitano.
– Se faranno i prepotenti con quattro colpi di draghinassa pareggeremo il numero, – disse il guascone. – Chi viene con noi?
– Il tuo amico Pfiffero e il figlio del grande di Spagna, – disse Mendoza. – Ormai si sono decisi ad abbandonare il marchese di Montelimar e ad associarsi a noi.
“Uno è fiammingo e l’altro portoghese, quindi potranno menare stoccate sugli spagnuoli, se si presenterà l’occasione, senza che la loro coscienza abbia nulla che dire.”
– Sono già a bordo?
– Sí.
– Con Wandoe?
– Quello ha la suaposada , mio caro don Barrejo, e di avventure non ne vuole piú sapere.
– Quello non è né un basco né un guascone, – rispose il taverniere, con disprezzo. – Forse che io non ho lasciato mia moglie per correre attraverso il mondo in cerca di gloria e di stoccate?
– Forse eri stanco della castigliana, – disse il basco, ridendo.
– Oh no!… – protestò il guascone. – Io amo la mia donna, ma preferisco le avventure.
– Partiamo, – disse in quel momento Buttafuoco, il quale aveva terminato di fare i suoi pacchi.
– Eh, signor mio, non avete pensato ad una cosa però!
– A quale, don Barrejo?
– Il cannone ha già tuonato e l’uscita dal porto è chiusa per tutti i velieri.
– Non per quelli però che portano a bordo un agente segreto del marchese di Montelimar, – rispose Buttafuoco. – Abbiamo pensato a tutto noi, e questa notte lasceremo Panama.
– Quand’è cosí possiamo cominciare la nostra vita avventurosa, – rispose don Barrejo. – Sono sei anni che non mi ritrovo fra i filibustieri e che non provo il mare.
– Allora prenditi degli aranci, amico, – disse Mendoza. – Sai che le onde giuocano talvolta dei brutti scherzi allo stomaco.
– Il mio è di ferro, – rispose don Barrejo.
Presero i pacchi contenenti le armi e le munizioni, chiusero la porta e si diressero verso la gettata, dinanzi alla quale ondeggiava agilmente una piccola caravella di ottanta o cento tonnellate, colle due vele latine e le quadre del trinchetto già sciolte.
Ricominciava a piovere, però l’oceano non muggiva piú rabbiosamente, ed una fresca brezza soffiava dalla parte di terra.
Mastro Arnoldo fu il primo che ricevette i tre formidabili avventurieri con un “pona sera” dolcissimo.
Un uomo barbuto e molto abbronzato, gli stava dietro: era il comandante.
– Tutto fatto, compare? – chiese Buttafuoco, al fiammingo.
– Fia libera per foi, – rispose il fiammingo. – Fanale ferde segnare permesso.
– Dov’è il tuo compagno?
– In una cabina: molto malato Aramejo.
– Se non guarirà, offriremo una colazione agli squali dell’oceano Pacifico, – disse don Barrejo. – Il tuo amico, compare Pfiffero, non ha nemmeno una goccia di sangue dei grandi di Spagna.
– Aho!… – fece il fiammingo, il quale credette opportuno di non aggiungere nessun’altra parola.
I cinque marinai, tutti meticci della costa del Pacifico e che anche in quei tempi godevano fama di essere bravi uomini di mare, salparono l’âncora, mentre il capitano issava sulla cima del trinchetto un fanale a luce verde, ciò che indicava che il veliero aveva libera uscita a suo rischio e pericolo.
Con un’abile manovra la caravella si staccò dalla banchina, sfilando tra una moltitudine di navi disperse pel porto, e si diresse sollecitamente verso l’uscita, spinta dalla brezza che soffiava abbastanza forte da terra.
Buttafuoco, Mendoza ed il guascone, dopo d’aver fatta una rapida visita alla stiva, la quale era ingombra di botti che sembravano vuote e che perciò potevano nascondere degli avventurieri del marchese, erano risaliti in coperta radunandosi a prora.
– Avete notato nulla di sospetto, signor Buttafuoco? – chiese sotto voce, il guascone. – Io non mi fido molto, sapete, di quel Pfiffero.
– Assolutamente nulla, – rispose il bucaniere.
– Allora siamo padroni noi.
– Ossia le nostre spade.
– Le quali, al momento opportuno, sapranno fare terribilmente il loro dovere.
– Prendiamo però le nostre precauzioni. Che uno di noi vegli sempre e faccia scrupolosamente il suo quarto.
“Noi non ci troviamo certo fra buoni amici.”
– E tu, Mendoza, che sei stato marinaio, – disse il guascone, – bada alla rotta di questa carcassa. Invece di farci andare in California questi uomini sono capaci si condurci al Perú o al Chilí.
– Tengo d’occhio la bussola, amico, – rispose il basco. – Al primo quarto che fanno saltare agguanto il timoniere e lo getto in mare.
– Insieme al Pfiffero.
– Se sarà possibile manderò a bere anche lui, nel caso che tradisca la fede giurata.
– Ha troppa paura di noi per tentare qualche cosa ai nostri danni, quantunque abbia due occhi cosí azzurri che non mi persuadono affatto.
– Strage generale, – disse Buttafuoco, accendendo la sua pipa.
La caravella con poche bordate aveva raggiunta la bocca del porto, dinanzi a cui incrociavano le due grosse fregate per impedire qualche sorpresa da parte dei filibustieri che si aggiravano ancora sulle acque del Pacifico.
Al di fuori l’onda era un po’ forte, nondimeno il piccolo veliero, quantunque dovesse contare un bel numero d’anni e dovesse avere la colomba spezzata, si comportava discretamente bene.
Il capitano, dopo un breve consulto coi suoi cinque marinai e dopo aver interrogato a lungo l’orizzonte con un cannocchiale, aveva messo la prora a nord ovest, per evitare le numerose scogliere che coprivano la costa.
– Tutto va bene per ora, – disse Mendoza, il quale aveva fatto una scappata a poppa per accertarsi della rotta sulla bussola. – Domani costringeremo questi uomini a filare su Taroga e se si opporranno daremo loro addosso.
– M’incarico io di tagliare la barba al capitano, – disse don Barrejo.
– Se volete andarvi a riposare rimango io di guardia.
– No, Mendoza, – rispose Buttafuoco. – I nostri quarti li cominceremo domani, quando avremo la certezza che l’equipaggio ci tiene in conto di pacifici passeggeri.
“Compare Arnoldo potrebbe aver soffiato qualche cosa negli orecchi del capitano e non commetterò mai l’imprudenza di lasciare il ponte, almeno per ora.”
I suoi due compagni approvarono con un cenno del capo, e dopo di aver accese a loro volta le pipe, ripresero il loro posto a prora.
Al largo mareggiava sempre forte l’ondata, tribolando non poco la corsa della piccola caravella, però la notte era magnificamente stellata ed un quarto di luna molto pallido brillava all’orizzonte specchiandosi nelle acque. I cinque marinai ed il loro capitano, preoccupati forse dalla vicinanza dei terribili scorridori del Pacifico, non lasciarono la coperta un solo momento, e compare Arnoldo tenne loro compagnia.
Quando l’alba spuntò, le coste americane non erano piú visibili all’orizzonte. La caravella, durante la notte, aveva derivato fortemente al largo in causa forse di qualche corrente.
– Siamo già ben lontani, – disse Mendoza. – Se questa corsa continua fra un paio di giorni poi potremmo giungere a Taroga.
“Mi pare però che l’amico barbuto non abbia l’intenzione di farci vedere i nostri amici filibustieri.”
Infatti i marinai, a un colpo di fischietto del capitano, avevano virato di bordo, cercando di tornare almeno in vista della costa per gettarvisi sopra nel caso che i filibustieri facessero la loro comparsa.
Non era però cosí che la intendevano i tre avventurieri, i quali non tardavano a mettersi in tasca le pipe e ad affrontare il comandante.
– Che cosa fate? – gli chiese Buttafuoco, con un certo cipiglio poco rassicurante.
– Cambio rotta, – rispose l’uomo barbuto. – Siamo troppo al largo ed io non ho alcun desiderio di dare dentro a qualche nave corsara.
– Vi ordino di riprendere la rotta di prima e di non occuparvi dei filibustieri.
– Voi!… – esclamò il capitano, stupito.
– Io, – rispose tranquillamente Buttafuoco.
– E per andare dove?
– Vogliamo accertarci se a Taroga ci sono ancora, sí o no, quei bravi uomini.
– Io vi ho imbarcati per condurvi in California.
– Abbiamo ora cambiato pensiero.
– È forse vostra la caravella?
– L’abbiamo noleggiata per nostro conto e noi vogliamo andare dove ci piace.
– Eh!…Eh!…Comandate un po’ troppo, signor mio, in casa mia!… – gridò il capitano. – Se volete farvi ammazzare dai filibustieri, imbarcatevi sulla scialuppa che la mia caravella rimorchia e andatevene al diavolo.
“In quanto a me ritorno alla costa il piú presto possibile.”
– Non avendo però noi nessun desiderio di farci divorare dai pesci-cani, ed avendo noleggiata la vostra caravella e non già la scialuppa, per la seconda volta vi ordino di rimettere la prora a ponente poiché la nostra rotta è quella.
“In California ci andrete piú tardi.”
– E basta, messer barbuto, – aggiunse il guascone, battendo la mano sulla sua draghinassa. – O obbedire o provare il filo dei nostri gingilli; e tagliano, sapete.
Il capitano era diventato livido.
– Chi siete dunque, voi? – chiese balbettando.
– Non vi occupate di sapere chi siamo e che cosa intendiamo di fare, – rispose Buttafuoco. – Vi dico solo dai filibustieri non avrete nulla da temere, finché noi saremo a bordo della vostra caravella.
Il capitano stava per ribattere la parola, quando mastro Arnoldo, il quale aveva assistito impassibile a quella disputa che minacciava di farsi grave, poiché i meticci non sembravano disposti a lasciar solo il loro capo, intervenne.
– Obbedite a questi signori, – disse. – Ordine del marchese di Montelimar.
“Io rispondo di tutto.”
– Quand’è cosí, si vada allora verso l’inferno. Vedremo se il signor marchese sarà là a proteggerci quando i filibustieri monteranno all’abbordaggio.
– Basta cosí, – disse Arnoldo.
– Ehi, compare Pfiffero, potevi intervenire un po’ prima e risparmiarci un sacco di chiacchiere inutili, – disse il guascone.
Il fiammingo alzò le spalle senza rispondere e riprese il suo posto dietro l’abitacolo di poppa.
Il capitano, dopo essersi consigliato coi suoi uomini, i quali cominciarono a guardare in cagnesco i tre avventurieri, senza però osare di manifestare apertamente il loro malumore, fece rimettere la prora verso ponente.
Nessun pericolo pareva d’altronde che minacciasse la caravella, poiché l’oceano appariva assolutamente deserto. Solamente degli uccellacci marini e dei branchi di pesci-volanti lo percorrevano, e quelli non potevano dare certamente noia ai naviganti.
Il vento però era diventato cosí debole coll’alzarsi del sole che la caravella non riusciva a guadagnare piú di un paio di nodi all’ora. C’era però del malvolere anche da parte dei marinai i quali lasciavano troppo le scotte.
A mezzodí i tre avventurieri, che si consideravano ormai come i padroni della navicella, reclamarono imperiosamente la colazione e anche abbondante, dichiarando di avere un appetito da pesci-cani.
Il capitano ed i marinai, i quali incominciarono ad aver paura di quei tre spavaldi che già supponevano dei filibustieri, si guardarono dal negarla.
Durante la giornata la caravella continuò a navigare pesantemente verso ponente, guadagnando appena una ventina di miglia, però appena il sole scomparve, la brezza si rialzò piú viva accelerando la corsa della carcassa.
I tre avventurieri si digerirono tranquillamente anche la cena, poi Buttafuoco ed il guascone si ritirarono nella cabina loro assegnata, mentre il basco montava il suo quarto di guardia con un paio di pistoloni alla cintura e la sua fida spada che tante meraviglie aveva compito sotto il figlio del Corsaro Rosso.
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