Capitolo IX – La taverna delle trenta corna di bisonte

Come abbiamo detto, l’ultimo tratto di galleria era assai più ampio, sicché permetteva ai tre corsari di procedere rapidamente, un po’ curvi, non avendo più bisogno di strisciare. In pochi istanti giunsero sotto le casematte.

Sir William spense l’occhio di bue ed entrò risolutamente seguito tosto da Testa di Pietra e da Piccolo Flocco, i quali non avevano nessun desiderio di provare le delizie di un’esplosione, riservate al pappagallo d’oltre oceano ed agl’inglesi che russavano dentro la casamatta. Una semioscurità regnava là dentro rotta a malapena dalla luce morente d’una lanterna fumosa sospesa alla volta. Quindici o venti soldati, per la maggior parte assiani, dormivano profondamente.

Il Corsaro, procedendo attraverso il camerine, raggiunse una porta segnalata da un’altra lanterna, e si trovò fra due alte stecconate.

– A destra o a sinistra? – si chiese perplesso.

Poi scrollò le spalle aggiungendo:

– In qualche luogo andremo a finire: poi non indosso forse la divisa da ufficiale della marina inglese? Vorrei vedere chi oserebbe fermarmi! Testa di Pietra, Piccolo Flocco, lesti! Fra poco la mina scoppierà.

Si erano messi a correre fra le due stecconate, mentre cinquanta passi da loro i pezzi del bastione tuonavano, mescolando la loro voce formidabile a quella degli altri.

Una voce imperiosa fermò il loro slancio.

Sotto il palo. che reggeva una lanterna, un soldato era sbucato ed aveva puntato il fucile armato di baionetta, gridando:

– Chi passa? Alt!

Il Corsaro si era fermato, snudando rapidamente la spada

– Sono il tenente Torosson – gli disse. – Non mi conosci dunque? Vado dal generale Howe per importanti comunicazioni

– Passate signore. – rispose il soldato. – Chi sono gli altri due?

– Miei marinai.

– Il passo è libero.

Sir William passò rapidamente dinanzi alla sentinella, seguito da Testa di Pietra, che si era già preparato ad abbatterla con due terribili pugni, e da Piccolo Flocco.

La stecconata era terminata e le case di Boston cominciavano a comparire.

– Prendiamo la prima via che si trova dinanzi a noi – disse il Corsaro ai due marinai. – Siamo abbastanza lontani per non temere l’esplosione della mina.

– Dove finiremo?

– Lo vedremo più tardi.

– Orizzontiamoci, comandante, – disse il bretone.

– Conosci Boston?

– Ci sono stato due volte, ma vent’anni fa. Ora non so più come siano le sue vie, pure credo che una certa taverna esista ancora. Lavorava tanto, perciò il suo padrone non può essere fallito, né fuggito nell’America del Sud.

– Sapresti trovarla?

– Mah! Con questa oscurità non è cosa facile. Diamine, non ho una bussola piantata nel cervello.

In quel momento avvenne uno scoppio che li scaraventò tutti e tre a terra.

La mina era scoppiata con fracasso spaventevole, lanciando in aria le casematte ed una parte del bastione.

– Povero pappagallo! – esclamò Testa di Pietra che si era prontamente rialzato tastandosi le costole. – A quest’ora viaggia verso l’altro mondo, colla velocità di trenta o quaranta nodi all’ora. Deve soffiare sempre buon vento in quel brutto paese.

Urla spaventevoli echeggiavano. Alcuni soldati fuggivano come pazzi in tutte le direzioni gridando:

– Aiuto! aiuto

Dalle finestre delle case prospicienti il bastione erano caduti con gran fragore i vetri.

Il Corsaro e Piccolo Flocco non avevano riportato nessuna contusione, essendo, in virtù delle loro buone gambe, abbastanza lontani dal luogo dello scoppio.

– Capitano. – disse Testa di Pietra – pare che di pappagalli ne siano volati in buon numero, non so se in cielo o all’inferno.

Nei quartieri vicini squillavano le trombe per chiamare a raccolta i soldati dispersi per la città, ed avviarli sul luogo del disastro.

Già dei furgoni carichi d’inglesi e di assiani correvano all’impazzata, per portare i primi soccorsi.

– Gettiamoci in una viuzza oscura – disse il Corsaro. – se ci scorgono ci manderanno al bastione e non ho nessun desiderio di rivederlo. Fila, Testa di Pietra.

Il bretone prese la corsa attraverso terrapieni ingombri d’artiglierie e di carri e, raggiunte le prime case, si gettò dentro un viottolo, che nessuna lanterna illuminava e che pareva deserto.

– Ci fosse almeno una taverna aperta! – disse.

– Oh, ne troveremo! – rispose il Corsaro. – Gl’inglesi sono troppo buoni bevitori per farle chiudere, specialmente in queste notti.

Finestre si aprivano e teste si disegnavano vagamente alla luce delle lanterne. Domande e risposte s’incrociavano fra gl’inquilini.

– Che cosa è saltato?

– Un forte di sicuro.

– È saltata la torre di Oxford insieme col castello.

– Ma no, lo scoppio è avvenuto in direzione opposta.

– Poveri figliuoli!

Dopo che il Corsaro aveva riacceso l’occhio di bue, si erano rimessi in marcia, tenendo la mano sinistra appoggiata sul calcio d’una delle loro pistole.

Il bombardamento continuava malgrado il disastro. Le palle americane giungevano facilmente in città dall’altura, sfondavano tetti e spaccavano muraglie. Di quando in quando altre esplosioni si succedevano, seguite da urli di spavento e da un fragoroso crollare di rottami. Erano le grosse granate dei mortai della corvetta che facevano quelle prodezze.

– Suona la musica a bordo della Tuonante – dice Testa di Pietra. – Se si chiama Tuonante deve ben tuonare, per il borgo di Batz!… Bum! Questi sono i cannoni da caccia di poppa. Saprei distinguere la loro voce fra mille altri pezzi.

Percorsero, quattro o cinque viottoli fiancheggiati da case basse ed oscure che parevano disabitate; poi si fermarono dinanzi ad una lampada sospesa, sopra una porta.

– Albergo delle trenta corna di bisonte! – lesse Piccolo Flocco sull’insegna, e domandò: – Che si possa mangiare bisonte qui, mastro Testa di Pietra?

– Che io sappia, i bisonti non portano che due corna, quindi là dentro ve ne dovrebbero essere almeno quindici sempre a disposizione degli avventori.

– Chiudete il becco! – disse il Corsaro, mettendo le mani su un anello di ferro che voleva essere una maniglia e spalancando la porta dell’albergo delle Trenta corna di bisonte.

Un’ondata di fumo puzzolente li investì. Avevano fumato molto là dentro, quella sera, malgrado il bombardamento.

L’albergo non era altro che una tavernaccia d’infimo ordine, che consisteva in uno stanzone assai basso dalle pareti ben affumicate, con una mezza dozzina di tavolini sgangherati e di scanni in non migliore stato, e illuminata da un’unica candela di sego che dava più fumo che luce. Dietro il banco, un omaccione coi capelli e la barba rossa e due occhi grossi come quelli dei buoi, dall’aria stupida, fumava la pipa reggendosi la testa con una mano. Scorgendo il Corsaro si alzò dicendo:

– Buona sera, gentleman: che cosa posso servire a Vostro Onore?

– Portaci una bottiglia di gin o di brandy, purché sia buono, rispose sir William sedendosi al tavolino che era più vicino alla candela.

– Ne ho ancora qualcuna, gentleman. Se foste giunto fra qualche giorno, con mio grande dispiacere avrei dovuto rimandarvi, perché non entra più nulla nella piazza, Quest’assedio è la mia rovina.

– Raddoppia i prezzi delle bottiglie che ancora possiedi, mastro Taverna – disse Testa di Pietra. – Ecco un bel consiglio.

– Infatti avete ragione.

– Ma non cominciare da noi. I consigli si pagano sempre, specialmente quelli che danno gli avvocati.

– Ah! siete avvocato?

– Sì, del catrame, – rispose il bretone, scoppiando in una risata. Il taverniere lo guardò stupidamente, poi scosse la sua grossa testa fulva e scese in cantina.

– Si può fumare, comandante? – chiese il bretone.

– Fa’ quello che vuoi – rispose il Corsaro, che era diventato improvvisamente di cattivo umore.

Testa di Pietra trasse da una delle sue dodici tasche la preziosa reliquia di famiglia, la caricò con cura minuziosa e l’accese alla fiamma della candela.

– Pare impossibile – disse, dopo essersi avvolto in una nuvola di fumo – tutte le volte che adopero questa pipa mi pare di trovarmi in Bretagna.

– Nel castello dei tuoi avi – disse Piccolo Flocco con aria grave.

– Sappi, per tua regola, ragazzaccio, che i miei avi dormivano sempre sul mare e non avevano quindi bisogno di castelli – rispose il bretone.

– Su qualche barca sconquassata.

– Briccone! Mio nonno andava a pescare il merluzzo fino sulle coste dell’Islanda, ed il suo skooner era considerato il miglior veliero di tutte le coste bretoni. Se fosse stata una carcassa, mio nonno sarebbe morto sul mare, mentre ha chiuso gli occhi sul suo letto.

– Foderato di piume d’edredon.

– Sicuro! Portava sempre dall’Islanda quelle preziose penne che tengono tanto caldo.

Il ritorno del taverniere, armato d’una bottiglia discretamente polverosa e di tre tazze, interruppe quella disputa che avrebbe potuto andare molto per le lunghe, ma alla quale il Corsaro pareva non avesse prestato nemmeno orecchio.

– Vecchia, mastro Taverna? – chiese il bretone.

– Cinquant’anni.

– Corpo di centomila corna di bisonte! In quale distilleria della Inghilterra l’hai veduta nascere, se non hai nemmeno quarant’anni?

– Bisognerebbe domandarlo a mio padre – rispose serio serio il taverniere.

– Fallo venire.

– È morto vent’anni fa, dopo aver bevuto, in seguito ad una scommessa, tre bottiglie di whisky.

– Beveva per incoraggiare gli avventori – disse Piccolo Flocco.

– E vi ha lasciata la pelle.

– E la cantina a voi, mastro Taverna, – disse il bretone. – assaggiamo dunque questo famoso… che cos’è?

Gin

– Che ha cinquant’anni di prigionia. Comandante, se è vero che è così vecchio, vi metterà di buon umore.

Il Corsaro non rispose. Colla testa appoggiata al braccio sinistro, gli sguardi fissi dinanzi a sé, il volto pallido, non si occupava di quanto accadeva intorno a sé. Certo doveva pensare in quel momento a Mary di Wentwort.

– Soffia tempesta! – sussurrò il bretone in un orecchio del giovane gabbiere.

Il taverniere sturò la bottiglia, empì una tazza, e subito si vide cadere, insieme col liquido, una cosa nerastra che mastro Testa di Pietra si affrettò a prendere.

– Corpo d’una barca sventrata! – urlò. – Cosa faceva tuo padre? Il conservatore di scorpioni sotto spirito?

Il taverniere era rimasto stupefatto e guardava con due occhi smarriti un superbo scorpione, magnificamente conservato, che il bretone teneva stretto fra le sue dita.

– Che cosa ci fa qui dentro questa bestiaccia? – chiese Testa di Pietra -, guardandolo di traverso. – Volevi forse avvelenarci perché siamo inglesi? Ti faremo tradurre dinanzi al Consiglio di guerra e fucilare come traditore.

– Perdonate, – rispose il taverniere balbettando e tremando. Questa è la bottiglia dove metteva in infusione gli scorpioni.

– E volevi darci ad intendere che era stata tappata cinquant’anni fa in non so quale distilleria gallese?

– Ho sbagliato, non avevo un lume.

– Avaro! dovevi accendere una candela.

– Non se ne trovano quasi più a Boston, e bisogna economizzare quelle poche che ancora rimangono.

– E perché fai raccolta di scorpioni? Per avvelenare i soldati inglesi? Si vede bene che sei un americano, forse amico di quella canaglia di Washington o di quell’altra pellaccia che si chiama Arnold.

– No, no, mister. Li metto in infusione per sanare più rapidamente le ferite.

– Per il borgo di Batz! Hai mai udito raccontare che un taverniere facesse anche il farmacista?

– Mai – rispose seriamente il giovane gabbiere.

– E nemmeno voi, comandante?

Il Corsaro si limitò a sorridere e a crollare la testa.

– Riporta nella cantina i tuoi scorpioni – disse Testa di Pietra – e portaci un’altra bottiglia. Non dimenticare che se vi trovo qualche serpente in infusione, ti faccio fucilare.

Il taverniere scappò via colla bottiglia, dicendo:

– Scendo col lume, questa volta.

– Crepi l’avarizia! – gli gridò dietro Piccolo Flocco.

Un istante dopo risaliva con un’altra bottiglia di aspetto più venerando, perché aveva un bel contorno di ragnatele polverose.

– Cent’anni? – chiese il bretone.

– No, sessanta – rispose il taverniere.

– L’ha tappata tuo nonno?

– Mia madre.

– Allora dev’essere eccellente: cambia le tazze e vuota.

– Non l’hai ancora finita, vecchio brontolone? – chiese il Corsaro.

– Comandante, – rispose Testa di Pietra – chiacchiero come una dozzina di pappagalli per distrarvi. Siete di pessimo umore stanotte, mentre dovreste esser contento ora che siamo entrati nella piazza. Qui non c’è burrasca.

– Puoi avere ragione – rispose il Corsaro con un pallido sorriso.

Prese la tazza che gli stava dinanzi poi la vuotò d’un fiato.

– Proprio messo in prigione sessant’anni fa? – chiese Testa di Pietra; ma sir William rispose con una scrollata di spalle.

– All’assalto anche noi, Piccolo Flocco.

– Sempre, mastro, – rispose il giovane gabbiere.

E tracannarono, senza nemmeno gustarlo, il fortissimo liquore.

– Che te ne pare, figliuolo mio? – chiese il bretone.

– Non so.

– La mia pipa è più forte.

– Sfido io! vi hanno fumato tre o quattro uomini per un paio di secoli almeno!

– Non so se siano veramente due secoli, – rispose Testa di Pietra – ma molti anni sono passati attraverso questa pipa. Il turco che l’ha fabbricata doveva essere un vero artista ed anche…

Una mossa brusca del Corsaro gli troncò la frase Sir William si era alzato ed aveva fissato il taverniere, il quale si era fermato presso il tavolino, come se aspettasse un giudizio sulla bottiglia.

– Da quanti anni di trovi in Boston? – gli chiese.

– Ci sono nato, Vostro Onore.

Dunque, ti trovavi qui quando gli americani assediarono la piazza.

– Sì, mio gentleman.

– Allora conoscerai tutti i comandanti dell’armata.

– Certo, signore.

– Anche il marchese d’Halifax?

– Ho avuto l’altissimo onore di portargli le mie ultime bottiglie di Bordeaux e di Champagne.

– Ah! Dove abita?

– Nel castello d’Oxford. Mi stupisco come Vostro Onore lo ignori – disse il taverniere.

– Ci troviamo qui solamente da ieri, e non conosciamo affatto la città.

– Abita nel castello d’Oxford? – esclamò Testa di Pietra. – So dove si trova, e vi saprei condurre ad occhi bendati, comandante. È il punto meglio fortificato della piazza: è vero, mastro Taverna?

L’oste fece col capo un cenno affermativo.

– Siediti – disse il Corsaro.

Il taverniere obbedì, ma tenendo lo sgabello ad un paio di metri dalla tavola.

– Hai mai veduto, nel castello, una fanciulla bionda?

– Le ho portato due bottiglie di vino del Reno, mio gentIeman. Erano le ultime che tenevo nella cantina; due bottiglie che devono aver fatto molto onore all’Albergo delle trenta corna di bisonte.

– Bum! – esclamò Testa di Pietra. – Vi erano certamente dentro scorpioni!

– Ah, no, signore, – rispose il taverniere. – Non potrebbero conservarsi!

– Per caso non ne avresti ancora una bottiglia?

– Credo di si.

– Portala subito: ma ti avverto che se vi trovo uno scorpione, parola di marinaio, dò fuoco alla tua baracca. Comandante, permettete che il vostro vecchio lupo di mare ve l’offra. Uomini che sono sfuggiti miracolosamente alla morte hanno ben diritto di bere più d’un bicchierotto e di quello prelibato.

– Fa’ come vuoi – rispose il Corsaro sorridendo. – Sei il più pazzo dei miei marinai.

– Quando affermate ciò, ci credo, – rispose il bretone con gravità – e appena terminata la campagna, andrò a rinchiudermi in un manicomio.

Speak Your Mind

*

 

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.