Capitolo VI – La battaglid di Breed’s Hill

Il generale Howe, comandante supremo della piazza ed i suoi sottocapi, avevano deciso di tentare una sortita per riconquistare le due alture.

La notte del 17 giugno, dieci compagnie di granatieri condotti dallo stesso generale Howe e dal generale Pigot, col marchese d’Halifax, rinforzati da altrettante compagnie di fanti e da buon numero di artiglierie leggere, avevano raggiunto silenziosamente le rive della baia, dove molte scialuppe li aspettavano, e traghettavano a Moreton’s Point senza aver incontrata alcuna resistenza.

Essendo quel punto assai battuto dalla flotta, gli americani, che possedevano un numero limitato di artiglierie, non avevano creduto opportuno innalzare alcun ridotto, il quale d’altronde non avrebbe potuto resistere a lungo ai fuochi incrociati.

Giunti però colà, gli inglesi, sostarono e, formate le ordinanze su due file, mandarono a chiedere nuovi rinforzi a Boston.

Il disegno loro era questo: mentre l’ala sinistra guidata da Pigot e dal marchese d’Halifax, tutta di fanteria pesante, composta per la maggior parte di mercenari tedeschi, assaltava Charlestown, il grosso doveva attaccare i due ridotti e l’ala sinistra, e tentare di forzare il passo della Mistica, che era difeso dalla corvetta del Corsaro e da due batterie. Credevano così di prendere alle spalle gli avversari e di mandarli con furiosi assalti alla baionetta, a catafascio.

Gli americani, consapevoli dei disegni dei generali inglesi, avevano appoggiato la loro ala diritta contro le case di Charlestown; l’ala sinistra, lungo le trincee che avevano alzate sulle rive della Mistica; il grosso, presso l’imboccatura.

Durante la notte non avevano cessato di lavorare e, temendo di non poter reggere ad un corpo a corpo su un terreno piano, si erano rafforzate le spalle con alte stecconate piantate su due file e riempite nel mezzo di erbe e di terra.

I massacciuttesi occupavano Charlestown, il ridotto ed una parte della trincea; quelli del Connecticut, agli ordini del capitano Nolken, e quelli del Nero-Hampire capitanati dal colonnello Stark, tutto il resto della trincea.

Non erano che un’accozzaglia di piantatori e di marinai, quasi nuovi al fuoco, armati di archibugi di diversi calibri e quasi tutti privi di baionetta.

Durante la notte però avevano mandato numerosi corrieri a chiedere soccorsi in varie direzioni ed erano giunti al campo il dottor Warren, nominato di recente generale per le sue ottime qualità di condottiero audace ed avveduto, ed il generale Pertnam. Tanto l’uno come l’altro avevano condotto seco alcune bande di contadini, racimolati frettolosamente nei dintorni, abilissimi tiratori.

Gl’inglesi furono i primi, a impegnare la battaglia, rovesciando le dieci compagnie del generale Garge contro il borgo di Charlestown. Erano così sicuri di sopraffare gli avversari, che corsero all’assalto senza quasi sparare un colpo di fucile, sebbene gli americani li avessero accolti con nutrite scariche. Non s’erano ingannati, poiché i provinciali, vedendosi correre addosso quella massa di saldi assiani e brunswickesi e non avendo nessuna baionetta da opporre all’attacco violentissimo, furono pronti a volgere le spalle, anche perché temevano di venire presi fra due fuochi. Il ridotto fu quindi occupato dai vincitori insieme al borgo.

Saccheggiate le case e vuotate le stalle del bestiame, diedero fuoco a tutto. Le case, erano quasi tutte di legno di pino. In un momento tutta la borgata avvampa fra gli urli degli abitanti che fuggono a stento. Lo spettacolo è terrificante. Più di ottocento fattorie fiammeggiano, lanciando fumo e scintille, che il vento spinge verso la baia. È un crollare, un crepitare sinistro, uno scaturire di lingue di fuoco da tutte le parti. Anche le piantagioni di cotone bruciano.

Gl’inglesi peraltro non avevano avuto fortuna, poiché mentre speravano di affumicare gli americani, a causa d’un brusco cambiamento del vento si trovavano a loro volta affumicati.

Malgrado ciò, granatieri assiani e brunswickesi avevano stretto le loro linee e si erano messi in moto per scacciare i nemici anche dalle alture.

Gli americani avevano pure stretto le loro colonne, ed essendo favoriti dal vento, appena scorsero gli alti cappelli dei loro nemici, aprirono un fuoco così ben aggiustato da costringerli a ritirarsi precipitosamente oltre le case di Charlestown.

Molti, anzi, vedendo navi ancorate presso la riva, vi si erano gettati dentro, rifiutando di misurarsi con un nemico che aveva sì valenti bersaglieri.

Gli ufficiali si erano prontamente gettati fra le compagnie disordinate, sforzandosi ora con promesse, ora con minacce, di raccoglierle alla meglio e di spingerle nuovamente all’assalto. Vi riuscirono infatti, coll’aiuto dei mercenari tedeschi, ed ordinatisi alla meglio, tornarono all’attacco del ridotto, sebbene con meno slancio di prima. Gli americani li aspettavano a piè fermo, risoluti a non lasciarsi strappare le due alture. Con un fuoco nutritissimo di archibugi, sparati quasi a bruciapelo, rompono nuovamente le ordinanze e costringono gli avversari a ripiegare un’altra volta verso la spiaggia. I cotonieri, abilissimi cacciatori, fanno veri miracoli.

Il generale Howe, fa chiamare alla riscossa le forze del generale Clinton, che fino allora erano rimaste passive spettatrici della disfatta.

Clinton godeva fama di espertissimo condottiero. Vedendo le forze del comandante della piazza distrutte e sapendo di quale importanza sarebbe stata per l’onore delle armi inglesi quella vittoria, accorre prontamente con tutti i suoi uomini e per la terza volta riesce a ricondurli ad un assalto furioso.

La tenacia delle truppe mercenarie tedesche, doveva dare agl’inglesi un effimero trionfo. I figli della Germania, montano all’assalto ed investono il primo ridotto.

Gli americani, oppongono per un po’ un’accanita resistenza coi calci dei loro archibugi, poi, impotenti a resistere a tanta furia, cedono e si ritirano.

Mentre si combatteva con tanto accanimento intorno alle rovine di Charlestonwn, un’altra compagnia inglese si era diretta verso la foce della Mistica per assalire la bastita costruita frettolosamente dagli americani.

Un gran numero di barche, cariche di granatieri e guidate dai marinai della flotta, con grande velocità aveva risalito il fiume, credendo di non trovare alcun serio ostacolo. S’ingannavano, perché dinanzi a loro, nascosta nella cala, stava la corvetta.

Sir William, accortosi a tempo dei disegni dei nemici, aveva collocato la sua nave attraverso il fiume e piazzato in quella direzione i suoi quattro grossi cannoni da caccia, carichi di mitraglia; poi aveva disposto i cinquanta americani dietro le impagliettature insieme con due dozzine di scelti fucilieri.

– Ecco il momento di scaldarci un po’ e di dare una mano ai nostri amici! – disse al suo luogotenente.

Si era quindi appoggiato tranquillamente alla ringhiera del ponte di comando, senza degnarsi di armare le pistole, né di snudare la sciabola d’abbordaggio, tanto si teneva sicuro del fatto suo. Intanto gl’inglesi, avanzavano, premendo loro soprattutto d’impadronirsi dei due piccoli ridotti innalzati sulle sponde della cala. Era il momento atteso dal Corsaro. La sua voce metallica copre per un istante il rumoreggiare della moschetteria che infuria ancora verso Charlestown:

– Ragazzi! Scatenate i vostri pezzi!

Le scialuppe, numerosissime e zeppe di granatieri e di fanti leggeri, si erano fermate titubanti. I dodici pezzi di dritta approfittano di quella sosta per lanciare una bordata che ne affonda subito una quindicina coi relativi equipaggi.

Subito i quattro pezzi da caccia rovesciano sulle altre una grandine di mitraglia, mentre Testa di Pietra, che ha terminato il suo amo per acchiappare gli albatros e che non vuol rimanere inoperoso, fa tuonare i quattro grossi mortai, scagliando le granate al di là della foce della riviera, con una superba arcata.

Sul fiume si alzano urla terribili. Più di duecento uomini cadono in mare. La flottiglia dà di volta, abbandonando i disgraziati alla loro sorte, per non compromettere l’esito della spedizione, poiché la guerra ha le sue crudeli esigenze, e si dirige rapidamente verso la riva per mettersi al coperto dai tiri della corvetta.

Hurrà fragorosi, lanciati dagli americani, salutano la splendida difesa dei corsari la cui nave continua a sparare, tirando ora verso i forti di Boston, ora verso la foce del fiume per impedire un nuovo tentativo.

Non era però una vittoria definitiva. Il generale Howe, accortosi del pericolo, chiama nuovi rinforzi, fa sbarcare le sue genti alla foce e rinunciando, per il momento, all’idea d’impadronirsi dei due ridotti, attacca risolutamente la bastita.

Gli assiani ed i brunswickesi, furibondi per quella prima batosta e sapendo che i loro compagni hanno cacciato i nemici da Charlestown, dànno un assalto formidabile.

Incoraggiati dalle grida degl’inglesi, i quali ormai hanno occupato il ridotto di Bunker’s Hill, ed aiutati da uno stuolo di fanti leggeri, si fanno sempre innanzi, gelosi della vittoria dei loro compagni.

Le baionette, temute dagli americani, hanno finalmente ragione sui calci dei fucili e le truppe mercenarie entrano nella bastita, pur subendo perdite gravissime.

Anche in quella parte i generali americani fanno suonare la ritirata e le bande provinciali, dopo un’ultima scarica, si ritirano con un ordine così perfetto, che nessuno si sarebbe aspettato da parte di soldati raccogliticci e che combattevano per la prima volta. La battaglia era perduta per le truppe federali, ma non era stata nemmeno per gl’inglesi una vera vittoria, poiché se erano riusciti ad espugnare la altura di Bunker’s Hill, non si erano impadroniti di quella di Breed’s Hill.

Gli americani non erano ancora giunti alla fine delle loro disgrazie. Una sola via era rimasta loro per ritirarsi, quella serpeggiante attraverso la penisola di Charlestown, dove gl’inglesi avevano collocata una grossa fregata. Per di più il nemico li incalzava alle spalle colla speranza di sbaragliarli prima che riuscissero a mettersi in salvo.

Gli americani, peraltro, passando attraverso i boschetti che coprivano le coste dell’istmo, non soffrivano gran danno dalle bordate della fregata e dalle due batterie galleggianti che la spalleggiavano.

Anima della ritirata era il dottor Warren, un uomo che avrebbe potuto competere anche con Washington in fatto di arte guerresca. Infaticabile, malgrado la rotta, non cessava di raccogliere i ritardatari, gridando loro con voce stentorea:

– Ricordatevi delle nostre insegne: esse portano da una parte il motto: Appello al cielo e dall’altra: Qui sustulit sustinet, – ciò che voleva significare che la Provvidenza, la quale aveva condotto in salvo i loro antenati in mezzo a tanti pericoli, avrebbe provveduto a salvare i loro pronipoti.

Non doveva però sopravvivere quel valoroso a così triste giornata. Un ufficiale dell’avanguardia inglese, che lo aveva riconosciuto, strappò ad un granatiere l’archibugio appena caricato, prese la mira e con un colpo ben aggiustato lo colpì in mezzo al petto fulminandolo.

La ritirata degli americani si effettuava rapidissima. Alle otto di sera gl’inglesi bivaccavano sulla posizione conquistata, cantando a squarciagola l’inno inglese, mentre gli americani, vinti sì, ma non disfatti, ripiegavano verso le rive della Mistica, mettendosi sotto la protezione della corvetta, i cui pezzi continuavano a tuonare con grande furia per impedire alle navi nemiche di accostarsi.

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