Il Butan, che gli intrepidi aeronauti si preparavano ad attraversare, prima di scendere nelle pianure del Bengala, bagnate o fertilizzate dalle sacre acque del Gange, è uno stato indipendente rinchiuso fra le montagne imalaiane e si può considerare come un’appendice del Tibet.
E infatti gli abitanti rassomigliano ai loro vicini, quantunque siano più vigorosi e anche più bellicosi; hanno un governo eguale, diviso fra il debrajah che è il governatore civile e il dharme rajah o capo spirituale che è, come i Buddha viventi, l’incarnazione del precedente Dharme. Essi sono del pari seguaci del buddismo.
Invece di continuare la sua corsa verso il sud, dove le montagne giganteggiavano sempre, lo “Sparviero” si era diretto verso l’est, come se il capitano avesse avuto intenzione di entrare nella provincia indiana d’Assam, invece che di scendere nel Bengala.
Rokoff, che si era accorto di quel cambiamento di rotta, ne aveva fatto osservazione al capitano, il quale in quel momento stava osservando una carta dell’India.
– Il Bengala è ormai troppo inglese – aveva risposto il comandante. – E poi desidero vedere la capitale di questo Stato e scendere più tardi lungo il Brahmaputra.
– Ritroveremo ancora quel fiume che abbiamo già attraversato nel Tibet?
– Sì, signor Rokoff.
– E poi?
– Ecco dei montanari che si preparano a farci cattiva accoglienza – disse il capitano, senza rispondere alla domanda. – Teniamoci alti; qui hanno dei fucili di lunga portata e d’una precisione che stupirebbe i migliori armaioli.
– Anche qui non amano gli uomini bianchi?
– Non li vedono troppo volentieri, quantunque nella capitale di questo Stato risieda un rappresentante consolare inglese per la protezione degli europei. Anche oggidì di quando in quando fanno un’alzata di scudi e danno addosso ai coloni anglo-indiani, senza preoccuparsi delle continue minacce del governatore del Bengala. A voi il cannocchiale; li vedete su quell’altura?
Due o tre dozzine d’uomini sbucati da un vallone, si erano radunati su una piccola piattaforma e guardavano con stupore lo “Sparviero”, tenendo in mano delle lunghe carabine. Più coraggiosi dei cinesi, dei mongoli e anche dei tibetani, invece di fuggire si preparavano a moschettare l’enorme uccello, che scambiavano probabilmente per qualche aquila mostruosa.
Erano tutti di statura alta e vigorosa, colla pelle quasi bianca, capelli neri e corti, per lo più gozzuti e molto sporchi. Indosso avevano dei mantelloni di pelle di montone, col pelo all’infuori e ai piedi stivali che salivano fino alle cosce.
Quando parve loro che lo “Sparviero” fosse a tiro, si gettarono a terra, nascondendosi dietro le rocce e lo salutarono con una scarica nutrita.
– Ho udito qualche palla fischiare – disse Fedoro.
– Non mi stupisco – rispose il capitano – eppure ci troviamo a milletrecento metri. Non sono i moschettoni a miccia dei tibetani questi; sono buone carabine di precisione. Guardiamoci da questa gente e questa sera riprendiamo i nostri quarti di guardia. Il deserto finisce qui e su questi territori non siamo sicuri né da parte degli uomini, né delle belve.
– Dove ci fermeremo? – chiese Rokoff.
– Sulle frontiere dell’Assam. Ora che non ci sono più correnti d’aria furiose, marciamo con una velocità di quaranta o forse più miglia all’ora. Fra poco ci libreremo sopra la capitale del Butan.
Lo “Sparviero” precipitava la corsa, mantenendosi sempre a un’altezza di milleduecento o milletrecento metri per evitare le catene di montagne che sorgevano un po’ dappertutto.
Il paese era sempre scarsamente popolato. Non si vedevano che pochissimi villaggi, per lo più costruiti malamente, con pietre e tronchi d’albero, con pochi tratti di terreno coltivato a granturco e a orzo. Abbondavano invece i buoi, i montoni e i cavalli, i quali scorrazzavano sugli altipiani erbosi.
Mezz’ora prima del tramonto, lo “Sparviero”, come aveva predetto il capitano, passava con velocità fulminea su Tassesudon, la capitale dello Stato, spargendo un vivo terrore fra gli abitanti, i quali, vedendo quel mostruoso volatile, si precipitavano per le vie urlando e battendo furiosamente i gong, certo per spaventarlo e costringerlo a fuggire.
Tassesudon è la residenza del deb-rajah e viene annoverata come la principale fortezza del Butan, avendo mura massicce che hanno un’altezza di oltre trenta piedi e solidi bastioni.
Nel mezzo giganteggiava il palazzo reale, una costruzione enorme, in forma di parallelogramma, a otto piani e il tetto a punta adorno d’antenne e di bandiere, con sulla cima una statua rappresentante Mahamonnie, una delle divinità adorate dai butani. Le case degli abitanti, invece, sorgevano più lontano, disposte a casaccio e senza ordine, per lo più in legno e a un solo piano.
Gli aeronauti ebbero appena il tempo di gettare uno sguardo sulla città. Lo “Sparviero”, spinto da un vento fortissimo che soffiava dalle altissime giogaie degli Himalaya accelerava sempre la corsa, diventata ormai vertiginosa. Il capitano, vedendo delinearsi verso il sud una catena coperta di folte boscaglie, lanciò la macchina volante in quella direzione, non osando scendere nei dintorni della città.
Non fu che verso le dieci della sera che quei monti furono raggiunti. Trovato un posto sgombro d’alberi, lo “Sparviero” discese lentamente su un piccolo altipiano che era circondato da nim, alberi dal tronco colossale e dal folto fogliame, da splendide mangifere, da pipal e da superbi palmizi tara.
Stava per adagiarsi su un folto e altissimo strato di kalam, erbe dure che raggiungono un’altezza considerevole, quando il capitano, che stava osservando i dintorni, indicò a Rokoff alcune ombre che si dirigevano verso la foresta.
– Animali? – chiese il cosacco.
– E di quelli che vi piacciono tanto arrostiti – rispose il capitano. – Vi ricordate dei laghi del Caracorum?
– Ma quelle bestie non sono trote.
– Parlo di orsi io, o meglio di zamponi d’orso.
– E come? Vi sono anche qui di quei plantigradi?
– Appartenenti ad un’altra famiglia, pure egualmente squisiti, mio caro signor Rokoff. Quello che avete ucciso nel Caracorum era un melaneco; questi che fuggono sono invece dei labiati, più grossi e anche più pericolosi.
– E li lasceremo andare?
– Avete sonno, signor Rokoff?
– No, capitano.
– Accettereste una partita di caccia notturna all’agguato? Siamo scarsi di viveri e prima di lasciare l’India dovrò rinnovare le mie provviste, non desiderando accostarmi ad alcuna città. Per ora gli orsi; più tardi andremo a cacciare nelle giungle, dove i bufali abbondano al pari delle tigri e dei rinoceronti. Questi pochi giorni che passeremo ancora assieme, li dedicheremo alla caccia. Vi piace, signor Rokoff?
– Vorrei che si prolungassero indefinitamente per non lasciarvi.
– Che cosa volete, signor Rokoff? Devo andarmene lontano, molto lontano.
– E dove?
Il capitano col braccio indicò il settentrione.
– Lassù – disse.
– Ritornerete nel Tibet?
– Più su ancora.
– In Mongolia?
– Non so, vedremo – rispose il capitano. – Se dal personaggio che ci accompagna non avessi appreso certe cose, invece di scendere in India vi avrei condotto per lo meno fino al Caucaso, facendovi attraversare il Turchestan e la Persia…; chissà che un giorno, in qualche angolo del mondo ci possiamo ancora incontrare e farvi fare un altro meraviglioso viaggio… speriamolo… Signor Rokoff, ceniamo e poi andiamo a vedere di sorprendere qualche orso.
– Abbondano qui quei plantigradi?
– Il Butan e anche il Nepal sono molto frequentati da quegli animali. Non torneremo colle mani vuote, ve lo assicuro e forse riusciremo ad abbattere anche dei black-bok.
– Che animali sono?
– Dei caproni neri, che hanno delle costolette eccellenti.
Essendo la cena pronta, mangiarono in fretta, raccomandarono ai compagni di fare buona guardia, dividendosi i quarti, poi armatisi di carabine express e munitisi di abbondanti munizioni e d’una fiasca di brandy per combattere il freddo che si faceva sentire, lasciarono il fuso, dirigendosi verso la foresta. La notte era chiara, perché la luna si era già alzata e nessuna nube offuscava il cielo; vi era quindi qualche probabilità di poter sorprendere gli orsi che, ordinariamente, si tengono nascosti durante le notti oscure e umide.
Il capitano e Rokoff attraversarono velocemente le alte erbe che crescevano intorno al fuso, occupando tutto il piccolo altipiano e raggiunsero il margine della foresta, arrestandosi un momento ad ascoltare.
Un profondo silenzio regnava sotto la cupa ombra delle mangifere e dei pipal. Solamente in lontananza si udiva qualche rado urlo di cane selvaggio, urlo più prolungato e più acuto di quello che lanciano gli sciacalli.
– Cerchiamo un posto per metterci in agguato – disse il capitano. – Fra poco questo silenzio verrà rotto dalle belve.
– Vedo là un grosso albero il cui tronco è circondato da folti cespugli – disse Rokoff, indicando un maestoso nim, che sorgeva isolato nel mezzo d’una minuscola radura.
Si diressero da quella parte, coi coltelli s’aprirono un passaggio, e fatto intorno a loro un piccolo spazio, stesero a terra le coperte che avevano portato.
– Il posto è buono – disse il capitano, dopo d’aver armato la carabina. – Udite questo gorgoglio?
– Sì – rispose Rokoff.
– Indica la vicinanza d’una sorgente o d’un torrentello. Gli animali non tarderanno a venire a dissetarsi.
– Gli orsi neri?
– Forse anche gli orsi. Perbacco, ci tenete agli zamponi di quei plantigradi?
– Sono così eccellenti.
– Non dico il contrario, signor Rokoff.
Accesero le pipe, si sdraiarono sulle coperte, si misero le carabine a fianco e attesero che gli animali della foresta uscissero dai loro covi.
Il silenzio che poco prima regnava quasi sovrano, veniva ora turbato con maggior frequenza. Dei rumori, vaghi dapprima, si propagavano sotto le ombre dei palmizi e delle mangifere; ora era un urlo che pareva l’ululato d’un lupo indiano, ora un miagolio rauco di qualche gattone selvaggio, ora invece un fischio acuto. Si trovavano colà da un quarto d’ora, quando il cosacco si sentì cadere addosso un ramo, che lo colpì proprio sul naso.
– Chi mi bombarda? – si chiese.
– Qualche ramo morto che il vento ha spezzato – disse il capitano.
– Non secco, signore – rispose il cosacco, che lo aveva raccolto. – È verde e sembra che sia stato appena spezzato.
– Se vi fossero qui delle scimmie direi che qualcuna si è rifugiata su quest’albero, ma qui non se ne trovano. Le vedremo più abbasso, nelle pianure dell’Assam e del Bengala.
Poco convinto che quel ramo si fosse spezzato da sé, Rokoff s’alzò guardando fra il fogliame del nim, senza riuscire a scorgere alcunché di sospetto.
– Non sta lassù la selvaggina – disse il capitano, che si era pure alzato. – Udite le foglie scrosciare? Qualcuno si avvicina.
Un urlio assordante, un misto di ululati e di latrati echeggiò in quel momento a breve distanza, nel mezzo d’una massa di cespugli che dovevano coprire le rive del torrentello.
– Chi sono questi concertisti scordati? – chiese Rokoff.
– Non fate fuoco – disse il capitano, fermandogli il braccio e abbassandogli l’arma. – Non valgono una palla e poi non ci conviene spaventare la selvaggina.
– Pare che l’abbiano con noi.
– Ci hanno fiutati.
– Che cosa sono? Sciacalli forse?
– No, dei bighana, ossia dei lupi indiani un po’ più piccoli di quelli siberiani e dei russi, tuttavia assai coraggiosi.
– Che vengano a seccarci?
– Non lo credo. Siamo in due e non oseranno farsi innanzi. Sarei però ben contento di fucilarli. Questi bricconi terranno lontana la selvaggina.
– Facciamo una scarica.
– No, signor Rokoff, aspettiamo e…
Un altro ramo era in quel momento caduto, colpendolo sulla testa.
– Diavolo – esclamò. – Prima uno a voi, ora uno a me!
– Vi dico, capitano, che lassù vi è qualcuno che si diverte a bombardarci. Guardate: anche questo ramo è verde ed è stato appena spezzato perché è ancora bagnato di linfa.
– Chi può essersi rifugiato lassù?
– Qualche tigre?
– Non si arrampicano sugli alberi, signor Rokoff, e poi qui non ve ne sono, trovandoci noi ancora troppo alti.
– E quei lupi che pare si avanzino minacciosi? Stiamo per venire presi fra due fuochi?
– Signor Rokoff, che lassù si celino quegli zamponi che tanto vi piacciono?
– Qualche orso?
– I labiati e anche i panda si arrampicano al pari dei gatti.
– E sono pericolosi?
– I primi sì. Assaliti si difendono e strappano gli occhi ai cacciatori.
– Ci tengo a non perdere i miei. Se lasciassimo questi cespugli?
– Se voi ci tenete ai vostri occhi, io non ho alcun desiderio di perdere le mie gambe o per lo meno di lasciare i polpacci fra i denti dei bighana. A giudicare dalle loro urla, devono essere straordinariamente cresciuti di numero. Vedo dappertutto brillare i loro occhi.
– Allora quegli animali sono pericolosi.
– Più degli orsi, in questo momento. Ci hanno circondati e non mi pare che abbiano l’intenzione di lasciarci, senza aver almeno assaggiato un pezzetto delle nostre gambe.
– Proviamo a respingerli – disse Rokoff.
– E l’orso?
– Non lo vedo scendere.
– Una scarica a destra e una a sinistra.
I due cacciatori si fecero largo fra i cespugli, per giudicare prima la loro situazione. Entrambi non poterono reprimere una smorfia di malcontento. I bighana a poco a poco li avevano circondati e si erano radunati in numero tale da temere un furioso assalto. Se ne vedevano dappertutto e s’avanzavano lentamente e incessantemente, stringendo i loro ranghi.
Come il capitano aveva detto, i lupi indiani, quando si trovano in buon numero, sono coraggiosi, anzi non la cedono, per audacia, ai grossi lupi delle steppe e della Siberia.
Somigliano ai loro congeneri del settentrione, sono invece più piccoli, non essendo più alti di sessanta centimetri, né più lunghi di ottanta o novanta. Hanno il pelame rossiccio o grigiastro, colle parti inferiori bianco sporco.
Ordinariamente vivono in piccoli branchi di sette od otto individui; sovente si radunano in grosse bande e allora diventano il terrore dei pastori e dei villaggi montanini. Intelligenti, velocissimi, coraggiosi, si precipitano sui montoni e sui buoi senza spaventarsi delle grida dei mandriani e osano perfino entrare, in pieno giorno, nelle borgate per rapire i bambini sotto gli occhi dei genitori. Il capitano, che li conosceva, vedendoli in così grosso numero, era diventato inquieto.
– Non credevo che in così poco tempo si fossero radunati in tanti – disse a Rokoff. – Il pericolo maggiore non sta alle nostre spalle, bensì dinanzi a noi.
– Cerchiamo un rifugio – disse Rokoff.
– E dove?
– Arrampichiamoci sul nim.
– E avremo da fare i conti coll’orso.
– Non sappiamo ancora se lassù si trovi veramente un tale animale.
– Questo è vero – rispose il capitano.
– Dei due mali, scegliamo il minore.
– Proviamo prima a fucilare questi audaci predoni.
– Sono pronto, capitano.
Le due carabine tuonano quasi contemporaneamente con un rimbombo assordante, coprendo le urla acute dei bighana.
I grossi proiettili atterrano due file di animali. Gli altri indietreggiano vivamente, balzando attraverso i cespugli e s’arrestano cinquanta passi più lontano, riprendendo con maggior lena il loro scordato concerto.
– Non ci lasceranno – disse il capitano. – Vedete l’animale scendere il nim?
– No – rispose Rokoffi. – Ho invece ricevuto un altro ramo sul viso e più grosso degli altri.
– Mettiamo in salvo le gambe; ecco i bighana che tornano a restringere le file e che si preparano per un assalto generale. Caricate la carabina.
– È già pronta.
– Salite, mentre io faccio una nuova scarica.
Il cosacco si gettò a bandoliera l’express, s’aggrappò al tronco e aiutandosi con delle piante parassite che lo avvolgevano, si mise a salire, tenendo gli sguardi volti in alto per paura di vedersi rovinare addosso l’animale.
Il capitano, fatto una nuova scarica, si era affrettato a raggiungerlo. I lupi, furiosi di vedersi sfuggire la preda, si erano subito scagliati contro il tronco del nim, ululando ferocemente e spiccando salti colla speranza di raggiungerli.
Erano quattro o cinque dozzine, numero più che sufficiente per mettere a mal partito due uomini, anche se formidabilmente armati.
Rokoff e il capitano, ormai al sicuro, salivano con precauzione, guardando sempre in alto. Un animale che non riuscivano ancora a distinguere in causa della foltezza del fogliame, si agitava fra i rami, scuotendoli vigorosamente e facendone cadere parecchi.
Si erano elevati d’una decina di metri, quando Rokoff, che distava pochi passi dalla prima biforcazione della pianta, si fermò, dicendo:
– La bestia che sta lassù, mi pare molto grossa, capitano.
– Che cosa vi sembra?
– Un’enorme scimmia.
– Questo non è il paese dei gorilla e nemmeno dei mias, signor Rokoff – rispose il capitano. – Sono convinto che si tratti d’un orso.
– Se ci piomba addosso ci getterà giù e allora verremo alle prese coi bighana, se non ci romperemo il collo o le gambe.
– Non potete far fuoco?
– È impossibile, capitano, non vi sono più piante parassite a cui aggrapparmi e il tronco è così liscio che è un vero miracolo che ci possiamo sorreggere con ambo le mani.
– Che cosa fa quell’animale?
– Scuote i rami e grugnisce come un porco.
– Potete raggiungere la biforcazione?
– Mi ci proverò, ma… se quell’animalaccio scende?
– Non affrontatelo; piuttosto ridiscendete. Se è grosso deve essere un labiato e non già un panda.
– Bella posizione! – borbottò Rokoff. – Abbasso i cani che non attendono altro che di rosicchiarci le gambe e sulla testa quattro zampe armate d’unghie. Siamo fra Scilla e Cariddi.
– Orsù, signor Rokoff, decidetevi. Non ho più forze per sorreggermi – disse il capitano.
– Giacché non vi è scampo né da una parte né dall’altra, affrontiamo il nemico che può fornirci degli zamponi.
Il cosacco si assicurò la carabina onde non gli sfuggisse dalla spalla, si mise fra i denti il coltello da caccia e riprese la salita, la quale diventava sempre più difficile, non essendovi più piante arrampicanti ed essendo il tronco ancora più grosso da non poterlo abbracciare interamente.
Sotto, i lupi indiani continuavano a ululare e a saltare come se fossero impazziti; sopra, l’orso, ammesso che fosse tale, continuava a scuotere furiosamente i rami, minacciando a ogni istante di lasciarsi scivolare lungo il tronco e di travolgere i due cacciatori. Rokoff, che faticava assai a tenersi stretto, con un supremo sforzo riuscì a raggiungere la biforcazione dei rami.
Stava per mettersi a cavalcioni e aiutare il capitano, quando si vide precipitare addosso l’animale, il quale, fino allora, si era tenuto aggrappato a un grosso ramo trasversale, situato due metri più sopra. Come il capitano aveva supposto, si trattava veramente d’un orso della specie dei labiati, chiamati dagl’indiani adamsad, molto comuni sulle catene dell’Himalaya e anche nelle foreste del Nepal. Quantunque appartengano alla medesima razza degli altri plantigradi, sono diversi nelle forme e nelle abitudini.
Hanno il corpo più corto e più massiccio, le zampe assai basse, armate di robuste unghie ricurve; muso molto sporgente che finisce in una punta tronca, pelame lunghissimo, nero sul dorso, grigio sulla testa, con qualche macchia gialla e una lunga criniera che finisce in due lunghi ciuffi, che danno a quegli animali uno strano aspetto. A prima vista, sembrerebbero gobbi.
Abilissimi arrampicatori, si può dire che vivono più sugli alberi che in terra, nutrendosi quasi esclusivamente di frutta. Amano però anche le alte rupi e se sono inseguiti non esitano a slanciarsi negli abissi, nascondendo la testa fra le zampe e cavandosela senza troppi guasti.
L’animale che stava per assalire il cosacco, era grosso e pesante almeno un quintale e mezzo, un nemico certo pericoloso, che poteva abbattere i due uomini. Vedendolo avanzarsi, Rokoff aveva afferrato precipitosamente la carabina, mentre gridava al capitano:
– Aggrappatevi ai miei piedi! Resisterò meglio!
L’orso scese rapidamente il ramo, mise le zampe posteriori sulla biforcazione e s’alzò brancolando con quelle anteriori, armate di lunghi artigli.
– Fuoco! Fate fuoco! – gridò il capitano.
Rokoff aveva puntato la carabina, sparando precipitosamente, quasi senza mirare. Non ebbe il tempo di constatare gli effetti della scarica, perché si sentì afferrare strettamente da due zampacce e scuotere a destra e a manca, mentre si sentiva soffiare in viso un alito caldo e fetente.
Credeva di sentirsi già dilaniare le carni o scaraventare nel vuoto da un’altezza di cinquanta piedi, quando una seconda detonazione rimbombò. Era stata sparata così da vicino, che per un momento si credette accecato dalla polvere.
Il capitano, comprendendo che il cosacco stava per venire oppresso e che non doveva aver colpito la belva, tenendosi con una mano, coll’altra aveva scaricato la carabina. Il labiato aveva mandato un urlo di dolore, poi aveva lasciato il cosacco, arrampicandosi su pel tronco e rifugiandosi sui rami.
– Colpito! – gridò Rokoff, allungando le braccia verso il capitano, il quale si era lasciato sfuggire di mano la carabina, pel contraccolpo della grossa carica di polvere che per poco non l’aveva gettato giù.
– Ma è ancora vivo – rispose il comandante.
– L’avete colpito, voi?
– Lo credo.
– E io l’ho solamente ferito.
– Forse gravemente. Guardate, mi gocciola addosso del sangue.
– Morisse almeno dissanguato! – esclamò il capitano, mettendosi a cavalcioni del ramo. – Sapete che vi credevo già perduto?
– Ancora un momento e venivo gettato giù.
– Vi ha piantato le unghie nelle spalle?
– Non ne ha avuto il tempo; ha lacerato solamente la mia casacca.
– E la mia carabina è caduta!
– Ne abbiamo ancora una – disse Rokoff. – Io non l’ho abbandonata e ci servirà per finire quel dannato orso.
– E perdereste gli zamponi.
– Perché, capitano?
– I bighana ve li mangerebbero.
– E durerà molto questo assedio?
– Fino all’alba, se i nostri compagni non vengono a liberarci – disse il capitano. – Quei lupi non torneranno alle loro tane prima che spunti il sole.
– Brutta prospettiva. Che non vengano Fedoro e gli altri? Abbiamo già sparato cinque colpi di carabina e devono averli uditi.
– Diranno che noi abbiamo fatto buona caccia e non si muoveranno, signor Rokoff.
– Fuciliamo i lupi.
– Abbiamo una carabina troppo grossa per ottenere buoni risultati – rispose il capitano. – Queste armi sono buone contro le tigri e i rinoceronti.
– Non credevo che questa caccia finisse così male!
– E come, vi lamentate, incontentabile cacciatore? Siamo qui da sole due ore e abbiamo già ucciso sette od otto lupi e ferito un orso.
– E siamo assediati – disse Rokoff.
– Sia pure, ma siamo anche completamente al sicuro dalle offese dei nemici. Il labiato non pensa più a discendere per attaccarci e i lupi non possono salire. Che cosa volete di più, signor cosacco? E avete il coraggio di lamentarvi?
– Adagio, capitano, colle vostre buone speranze. Vedo invece l’orso agitarsi e l’odo brontolare.
– Si lamenta delle ferite.
– E se invece scendesse?
– Allora perderete gli zamponi perché sarete costretto a fucilarlo e gettarlo a pasto dei lupi – disse il capitano.
– Preferisco che rimanga lassù – rispose Rokoff.
– Credo che ci tenga anche lui a non esporsi agli assalti dei lupi. Se non fosse ferito, non avrebbe paura ad affrontarli, mentre chissà in quale stato si trova e se le sue zampe sono in grado di distribuire colpi d’artiglio.
– Cade sempre il sangue?
– Mi piove addosso – rispose Rokoff. – Devo sembrare un macellaio.
– Signor Rokoff!
– Capitano.
– Siete annoiato?
– Un pochino.
– Allora tirate al bersaglio. Abbiamo ancora centonovantacinque cartucce e i lupi non sono più di cinque o sei dozzine. Se volete, divertitevi, mentre io sorveglierò l’orso. Vi concedo un lupo ogni cinque palle.
– Cercherò di ammazzarne invece due su cinque colpi – disse Rokoff, accomodandosi sul ramo, onde tirare con maggior attenzione.
I bighana non avevano lasciato la base dell’albero. Continuavano a saltellare, mordendo la corteccia della pianta e strappandola a larghi pezzi coi loro denti acuminati e robusti e ad urlare con tale fracasso da far rintronare la foresta. Di quando in quando alcuni si allontanavano in diverse direzioni e andavano a urlare cinque o seicento passi più lontano, su diversi toni.
– Chiamano altri compagni – disse il capitano.
– Che sperino di rosicchiare l’albero fino a farlo cadere? – chiese Rokoff.
– Non temete; ci vorrebbero delle settimane per atterrare una simile pianta. Signor Rokoff, aspettano i vostri saluti.
Il cosacco puntò la carabina mirando in mezzo al gruppo e sparò il primo colpo, facendo cadere due bestie nello stesso momento.
– Ho nove palle di vantaggio – disse ridendo.
– Continuate – rispose il capitano. – Ah! L’amico che sta lassù comincia ad inquietarsi.
Il labiato, udendo quello sparo e vedendo il fumo salire fra il fogliame, aveva ricominciato a dimenarsi, facendo scricchiolare i rami.
– Che ci cada addosso? – chiese Rokoff, guardando in alto.
– Non sarà così stupido da tentare un simile capitombolo, quantunque abbiano l’abitudine di precipitarsi da altezze considerevoli, allorquando si vedono in pericolo. Se non vi fossero sotto di noi i lupi, chissà, potrebbe tentare un simile salto.
– Senza fracassarsi?
– Pare che abbiano le ossa molto dure i labiati e posseggano una elasticità incredibile. Signor Rokoff, i lupi aspettano sempre.
– Eccomi!
Il cosacco aveva ripreso il fuoco. Sparava con calma, mirando attentamente, come se si trovasse in un tiro a segno durante una gara e i lupi cadevano a uno e a due alla volta. Era davvero un valente bersagliere; di rado sbagliava l’animale che aveva scelto.
In cinque minuti, undici lupi giacevano attorno all’albero, massacrati dai grossi proiettili della carabina express.
– Rimangono ancora cinque dozzine – disse il capitano.
– E ne giungono altre due o tre – disse Rokoff, con accento scoraggiato. – Quelli che erano partiti urlando al largo tornano con nuovi rinforzi.
– Che questa foresta sia piena di bighana?
– Pare che sia così, capitano. E l’orso?
– Si è tranquillizzato e non l’odo più muoversi.
– Che sia morto?
– Sarebbe caduto.
– Salutiamo i nuovi arrivati – disse Rokoff.
Aveva ripreso il fuoco, mirando in mezzo ai gruppi e senza mai mancare al bersaglio. I bighana però non accennavano a volersi ritirare, quantunque vedessero aumentare i morti. Avevano tuttavia compreso che rimanendo così uniti offrivano un bersaglio troppo facile e si erano dispersi fra i cespugli, senza però allontanarsi troppo dalla pianta.
– Il tiro a segno comincia ad andare male – disse Rokoff, dopo aver sprecato cinque o sei palle. – Rimarremo senza cartucce prima di averli distrutti.
– Me ne sono accorto – disse il capitano.
– Devo continuare?
– Sì, signor Rokoff. I nostri compagni, udendo questi continui spari, s’immagineranno che noi corriamo qualche pericolo e verranno di certo in nostro soccorso. Non siamo lontani più d’un chilometro dallo “Sparviero” e le detonazioni giungeranno distinte fino al fuso. Ah! Udite?
Uno sparo si era udito in quel momento in direzione del piccolo altipiano.
– È uno Snider – disse il capitano. – Signor Rokoff, rispondete.
Il cosacco scaricò la carabina facendo cadere un altro lupo. Un istante dopo un altro sparo echeggiava verso lo “Sparviero”.
– Continuate il fuoco senza interruzione – disse il capitano. – Ormai i nostri compagni hanno compreso che noi abbiamo bisogno d’aiuti.
– E non li assaliranno i lupi? – chiese Rokoff.
– Ci siamo anche noi, e cinque uomini bene armati possono tener testa a quei piccoli predoni.
Rokoff riprese a sparare senza far risparmio di cartucce. Ormai sapeva che gli aiuti stavano per giungere e non si preoccupava di rimanere con sole poche cariche. I lupi dovevano essersi accorti che altri uomini s’avvicinavano, perché alcuni si erano distaccati dal grosso ed erano partiti ululando, in direzione del piccolo altipiano.
– Li hanno fiutati – disse il capitano. – Prepariamoci ad appoggiare i compagni.
D’un tratto sotto gli alberi si videro balenare dei lampi seguiti da spari.
– I Winchesters – disse il capitano. – Buone armi a ripetizione che faranno ballare i bighana!
I lupi che assediavano l’albero, udendo quelle detonazioni, erano partiti a corsa disperata, ululando a piena gola.
– Scendiamo! – gridò il capitano.
Si lasciarono scivolare lungo il tronco, toccando ben presto terra. Il capitano raccolse la sua carabina, l’armò precipitosamente e si slanciò fuori dai cespugli, gridando:
– Signor Fedoro! Badate a non fucilarci! Veniamo in vostro aiuto!
Vedendo i lupi radunarsi innanzi a una folta macchia, in mezzo alla quale dovevano trovarsi il russo, il macchinista e lo sconosciuto, li presero alle spalle fucilandoli senza misericordia.
I bighana, presi fra due fuochi non ressero molto a quella tempesta di palle che li decimava rapidamente. Dopo d’aver cercato di far fronte ai due pericoli, si sbandarono, fuggendo velocemente attraverso la foresta, perseguitati per qualche tratto da Fedoro, dal macchinista e dal loro compagno. Rokoff stava per seguirli, quando udì il capitano gridare:
– L’orso! Ecco che scende!
Il cosacco si era subito arrestato, ricaricando la carabina.
Il labiato, approfittando della discesa dei suoi compagni e del combattimento coi lupi, aveva lasciato gli alti rami del nim e si lasciava a sua volta scivolare lungo il tronco, colla speranza di raggiungere inosservato i cespugli e di scomparire entro le folte macchie.
Aveva però fatto i conti senza il capitano, il quale, pur facendo fronte ai bighana, non aveva dimenticato quella grossa e succolenta selvaggina. Vedendo i cacciatori tornare, nascose la testa fra le zampe anteriori e si lasciò andare precipitandosi da un’altezza di otto o dieci metri.
Piombò in mezzo ai cespugli che schiantò col proprio peso e senza farsi, probabilmente, troppo male, poi si rialzò di scatto e si scagliò contro il capitano, che gli era vicino, cercando di piantargli gli unghioni nel viso.
– Badate! – gridò Rokoff, che giungeva di corsa.
Il capitano aveva fatto un salto indietro per evitare l’urto e aveva puntato la carabina facendo fuoco quasi a bruciapelo.
Quantunque ferito a morte, il labiato non era caduto, anzi si era alzato sulle zampe posteriori facendo un salto innanzi. L’attacco era stato così improvviso e così impetuoso, che il capitano, il quale credeva di averlo fulminato sul colpo, non poté reggere e cadde lungo disteso. Fortunatamente Rokoff era vicino.
Si udì un secondo sparo. Il labiato brancolò un istante dimenando disordinatamente le zampe, poi stramazzò mandando un rauco urlo che finì in una specie di sibilo soffocato.
– Pare che sia proprio finito questa volta – disse Rokoff. – Tre palle express e quasi non bastavano ancora!… Che pelle dura hanno questi animali!
Fedoro e i suoi compagni, dispersi i lupi, tornavano.
– Un orso! – esclamò il russo.
– Che ci fornirà degli zamponi deliziosi – rispose Rokoff.
– E centocinquanta chilogrammi di carne eccellente – aggiunse il capitano. – Lasciamo i lupi e portiamo questo morto allo “Sparviero”. La caccia, come avete veduto, signor Rokoff, non poteva riuscire migliore.
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