I tibetani, al pari di tutti i buddisti dispersi nell’India, nell’Impero cinese, nella Mongolia e nel Turchestan, credono ciecamente alla trasmissione delle anime, ossia alla metempsicosi.
Per loro la morte non ha nulla di spaventevole, non essendo altro che un cambiamento di vita. L’uomo buono ritornerà presto sulla terra sotto forma di un altro essere più o meno identico, coi medesimi istinti e colle medesime doti; l’uomo cattivo riapparirà invece sotto forme animalesche: un bue, un orso, un insetto, un verme, un moscerino o uno scarafaggio, a seconda delle sue colpe. Ecco il motivo principale per cui un vero buddista non oserà uccidere mai un animale, temendo di recare offesa all’anima d’un qualche parente o amico, tornato in vita sotto una nuova trasformazione.
Da questa strana credenza, sono derivati i cosiddetti Buddha viventi, personaggi cospicui ma che sovente, per gelosie dei grandi Lama, scompariscono improvvisamente sotto la poderosa stretta d’un laccio di seta, sapientemente gettato intorno al loro sacro collo da un buddista spregiudicato e molto bene pagato.
Il Tibet è la terra di questi Buddha che muoiono e risuscitano con una facilità assolutamente straordinaria.
Due pontefici, l’uno più potente dell’altro, si dividono il potere religioso di quel misterioso paese, rinchiuso fra le più alte montagne e i più giganteschi altipiani del mondo: il Gran Lama e il Dalai-Lama.
Il primo che s’intitola, come abbiamo detto, la Perla dei vincitori, è il protettore del Tibet e il custode della religione; il secondo non è che un pontefice in sott’ordine, ma gode la venerazione di tutti per i lumi della sua scienza.
Fra questi due ne esiste un altro, il reggente, che esercita i poteri civili e politici, coadiuvato da quattro ministri, personaggio pericolosissimo, perché è quello che s’incarica di far sparire l’uno o l’altro quando gli danno qualche fastidio o che per suoi scopi personali reputa necessario, creare nuovi e più giovani pontefici.
Il Dalai-Lama e il Grande Lama rappresentano, pei tibetani, due vere incarnazioni di Buddha. In sostanza non sono che due divinità, due veri Buddha viventi. Pel reggente e pei monaci, non sono invece altro che degli uomini comuni, destinati presto o tardi a scomparire.
Nel Tibet, generalmente, hanno vita piuttosto lunga; nella Mongolia e nelle regioni vicine, dove esistono pure dei Buddha viventi, di rado toccano vent’anni. Sembra che un Buddha un po’ attempato non piaccia ai governanti forse pel timore che abbia ad abusare della sua posizione e dare dei seri grattacapi.
Quando uno muore o per morte naturale o violenta, i monaci si affrettano a cercare uno che possa surrogarlo, impresa un po’ difficile, perché il Buddha che ha cessato di vivere non ha l’abitudine, prima di andarsene, di dire in quale fanciullo trapasserà la sua anima.
Dopo qualche tempo però, in un modo o nell’altro, il fanciullo-miracolo viene scoperto e portato in trionfo a Lhassa o in qualche celebre monastero della regione, dove riprende senz’altro possesso del posto che occupava prima.
A udire i monaci tibetani, nessuno dubita che egli sia veramente quello che era morto, poi risuscitato per virtù divina. Dicono che si manifesti subito per una intelligenza straordinaria, che riconosca di primo acchito gli oggetti e gl’indumenti che già aveva più cari e che conosca le persone che prima erano addette alla sua persona. Che più? Si dice perfino che ricordi perfettamente certi aneddoti della sua vita anteriore!
Non vi è alcun dubbio che i monaci, per coprire bene l’inganno, vadano a cercare il fanciullo più svegliato onde possa degnamente rappresentare la sua parte e che poi lo istruiscano meravigliosamente onde possa, all’età di cinque anni, sostenere un esame pubblico per togliere gli ultimi dubbi sulla sua identità, esame che si fa con pompose cerimonie, nel monastero di Terpaling o di Tascilumpo, alla presenza delle più alte autorità, delle truppe di Lhassa, e d’un ambasciatore straordinario dell’Imperatore della Cina.
Viene interrogato sopra certe circostanze della sua esistenza passata; deve riconoscere tutti gli oggetti che sono appartenuti al Lama defunto, vale a dire a lui stesso, chiedere i libri, i vestiti, gli oggetti di cui si era servito.
Un diplomatico inglese, sir Turner, che ha potuto assistere a uno di questi esami, fu talmente meravigliato della svegliatezza e delle risposte date dal piccolo Buddha, che per poco non credette seriamente d’aver dinanzi il defunto Lama risuscitato fanciullo!
L’esistenza che conducono però questi Buddha non è molto allegra. Confinati nei più celebri monasteri, dai quali non possono uscire, trascorrono la loro vita fra le preghiere, le tazze di tè e i bicchierini d’acquavite calda.
Un brutto giorno, quando meno se lo aspettano, dietro un comando del reggente di Lhassa o della Mongolia, un favorito entra di nascosto, getta al loro collo un laccio di seta e li mandano a ritrovare il grande Buddha.
Niente di male, perché sanno bene che ritorneranno a rioccupare la carica di prima, più giovani però.
Nessuno piange, anzi è un pretesto per dare delle grandi feste. Si consultano gl’indovini, si studia la direzione degli arcobaleni, si scrutano le stelle e si fanno preghiere per conoscere il luogo ove si potranno ritrovare i Buddha rinati, poi si organizza una numerosa carovana per andarli a ricercare.
Dopo un certo tempo si ritrovano, vengono condotti nel Tibet o nella Mongolia, si fanno nuove feste, si chiamano truppe da tutte le parti, si fanno venire nuovi ambasciatori dalla Cina e i Buddha riprendono, beati loro, il loro posto… in attesa di fare un nuovo viaggio all’altro mondo!
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Rokoff, udendo tutte queste spiegazioni che Fedoro gli aveva dato sui Buddha viventi, aveva perduto gran parte del suo appetito e non aveva più osato assalire i pasticci delicatissimi che i monaci avevano portato in così gran copia, da nutrire venti persone.
Aveva però vuotato un vaso intero colmo di acquavite tiepida, per prendere un po’ di coraggio..
Il buon cosacco ora sudava anche lui freddo, nonostante quelle soverchie libazioni e il dolce tepore che regnava nella sala. La tragica fine di tutti quei poveri Buddha viventi, gli aveva gelato il sangue.
– Che sia proprio vero tutto quello che mi hai raccontato? – aveva finalmente chiesto a Fedoro. – O hai voluto semplicemente guastarmi la digestione appena cominciata?
– È verissimo, mio povero Rokoff – aveva risposto il russo. – Tutti questi particolari riguardanti i Dalai-Lama del Tibet e i Kutuska della Mongolia, che sono pure dei Buddha viventi, io li ho appresi da un funzionario cinese che aveva preso parte a un’ambasciata mandata a Lhassa dal suo Imperatore onde assistere a un esame pubblico.
– Ma noi non siamo fanciulli, Fedoro!…
– E che importa? Forse che non siamo discesi dal cielo? Forse che gli abitanti di questo lago sacro non ci hanno veduto solcare l’aria sul dorso d’un uccello mostruoso? Queste sono prove troppo evidenti della nostra origine divina. I piccoli Buddha viventi, con tutta la loro potenza e sapienza, non sono mai stati capaci di fare altrettanto. Chi oserebbe ora dubitare che noi siamo figli prediletti del grande Illuminato?
– E se tu facessi comprendere a quel barbuto Bogdo-Lama che la potenza di Buddha non c’entra con noi? Che quell’uccello non era altro che una macchina inventata da noi e che siamo capitombolati in questo lago per disgrazia e non per nostra volontà? Mi pare che si leverebbe per sempre dal cervello di quel monaco l’idea di fare di noi, due Buddha viventi.
– Non ci crederebbe.
– Digli che siamo europei.
– Ci smentirebbe; e poi, credi tu che non ne abbia il sospetto? Oh, deve essere un furbo quel sapiente!
– E perché non ci scaccia?
– Perché credendoci e facendoci credere d’origine divina ha tutto da guadagnare.
– Non ti capisco più – disse Rokoff, stupito.
– Tutti i capi dei monasteri sono invidiosi l’uno dell’altro. Il caso ci ha fatto cadere nelle mani di quello di Dorkia, che deve essere nemico di quello di Tascilumpo e anche del Bogdo-Lama di Terpaling, i quali sono, o meglio si spacciano per Buddha viventi. Vuoi che questo non approfitti delle circostanze straordinarie e dell’entusiasmo religioso che si è impadronito delle popolazioni del lago santo, per avere anche lui dei Buddha che mangiano e che parlano? Noi siamo persone sacre, superiori alle altre, dei veri figli del cielo e colla nostra presenza faremo accorrere qui tutti i pellegrini che prima si recavano agli altri monasteri. Noi rappresentiamo per questi monaci dei milioni. Lascia che si diffonda la voce che due uomini sono caduti dalle nuvole, che questi uomini sono figli dell’Illuminato e tutti correranno qui ad adorarci e Tascilumpo e Terpaling non avranno più che una mediocre importanza e potranno chiudere le loro porte. Questi monaci non sono stupidi.
– E noi ci presteremo a fare i loro interessi?
– Per ora sì, mio caro Rokoff.
– E diventeremo dei Buddha viventi?
– Non possiamo fare diversamente.
– E ci lasceremo poi strangolare, sia pure con un laccio di seta?
– Non avranno fretta, ammenoché non intervenga il Gran Lama o, peggio ancora, il suo reggente.
– Per le steppe del Don! In quale ginepraio ci siamo cacciati? Fedoro, amico mio, andiamocene e senza perdere tempo.
– Lo vorrei anch’io, Rokoff, ma non ne trovo il mezzo. Ci sono parecchie centinaia di monaci in questo monastero e dietro di loro la popolazione, e chissà come siamo sorvegliati! E poi, dove sono le armi per difenderci? Non possediamo nemmeno un misero coltellino.
Rokoff lasciò andare un pugno così formidabile sulla tavola, da far rovesciare tutti i vasi d’argento che la coprivano.
Udendo quel fracasso la porta si era bruscamente aperta e i quattro monaci, che dovevano aver ricevuto l’ordine di sorvegliarli, erano comparsi.
– Andate all’inferno! – gridò Rokoff con voce terribile, stendendo la destra.
I monaci, comprendendo più l’atto che le parole, s’inchinarono profondamente e uscirono.
– Hai veduto se vegliano su di noi? – chiese Fedoro.
– Con quattro pugni li atterro tutti – rispose il cosacco.
– E poi?
– Dimmi un po’, Fedoro, su che cosa speri?
– Sul capitano.
– Ancora?
– Non ci lascerà.
– Può crederci annegati o fulminati.
– Verrà a cercare i nostri cadaveri.
– E se fosse morto anche lui? Hai pensato a questo?
– Non ne sono convinto.
– Ammettiamolo per un momento. Che cosa ci rimarrebbe da fare?
– Allora penseremo a fuggire.
– E intanto?
– Occupiamoci a preparare il sermone.
– Preferisco andare a coricarmi; non mi sono mai occupato del buddismo. Che cosa dirai?
– Non lo so ancora; ci penserò.
– Ispirati con un po’ d’acquavite.
– Un consiglio da cosacco – disse Fedoro, ridendo.
Allora bevi dell’acqua; io vado a dormire; ma prima farò un’esplorazione nel nostro appartamento e se trovo un buco me ne vado subito.
Il cosacco vuotò un altro bicchierino e si diresse verso una delle due porte che s’aprivano all’estremità della sala.
Si trovò in un corridoio altissimo che riceveva un po’ di luce da piccoli buchi rotondi, aperti nella volta e coperti da talco o da qualche altra materia trasparente, troppo alti però per poterli raggiungere e anche troppo stretti per lasciar passare un uomo.
– I furfanti! – esclamò. – Hanno preso tutte le loro misure per impedirci l’evasione. Che il diavolo se li porti nell’inferno di Buddha, se ve n’è uno.
Attraversato il corridoio si trovò in un’altra sala, tappezzata tutta in seta rossa a fiorami gialli, circondata da bellissimi divani ricamati in oro, con parecchi tavoli laccati di manifattura cinese e con in mezzo un letto massiccio, molto ampio, con incrostature di madreperla e le coperte di seta.
– Suppongo che sarà la stanza per dormire – disse Rokoff. – Devono essere ben ricchi questi monaci, per sfoggiare un tale lusso!…
Anche quella sala riceveva la luce da un lucernario di talco. All’intorno invece nessuna finestra, nemmeno un pertugio.
– Se si potesse salire lassù – mormorò il cosacco, misurando collo sguardo l’altezza della volta. – Sei metri! Come arrivarci? Perlustriamo ancora: chissà!…
Passò un’altra porta ed entrò in un gabinetto di toeletta, tutto in seta azzurra, con altri tavoli laccati coperti da barattoli, da bottigliette, da piccoli recipienti d’argento, contenenti probabilmente dei profumi e delle pomate.
Dei bastoncini odorosi, piantati su dei candelieri d’oro, di fattura squisita e finemente cesellati, bruciavano spandendo all’intorno un profumo penetrante. Anche là nessuna finestra, perché la luce scendeva dall’alto, da un foro circolare.
– Siamo prigionieri – disse Rokoff, che era assai di cattivo umore, molto impressionato dalla brutta piega che prendevano le cose. – E poi anche se noi riuscissimo a raggiungere la volta e sfondare un lucernario, come fuggire? Il monastero è altissimo e almeno io non ho alcun desiderio di rompermi il collo e di fracassarmi le gambe. Prima di coricarci andiamo a udire se Fedoro sa trovare un mezzo qualunque per andarcene. Si dice che i meridionali hanno la fantasia feconda.
Rifece lentamente la via percorsa, rientrò nel salone e vide il russo sprofondato nella sua sedia a braccioli e che dormiva profondamente.
– A quanto pare né l’amico Buddha, né l’acquavite tiepida non l’hanno ispirato – mormorò Rokoff, che non seppe trattenere un sorriso. – Che discorso farà domani? Mi si rizzano i capelli solamente a pensarlo! Giacché dorme, imitiamolo; i monaci aspetteranno.
Si recò nella stanza da letto e si avvolse nelle coperte di seta, senza più preoccuparsi né dei Buddha viventi, né del Bogdo-Lama dalla lunga barba. Quel sonno dovette essere ben lungo, perché quando si svegliò una profonda oscurità regnava nella stanza. Il giorno era trascorso e la notte era nuovamente scesa.
– Che cosa diranno i monaci? – pensò, sbadigliando come un orso. – Che i loro letti sono molto soffici o che i figli del cielo amano dormire come le marmotte? E Fedoro?
Si alzò e tese gli orecchi. Al di fuori si udiva il vento ruggire ancora intorno alle torri e sui tetti arcuati del monastero; nell’interno invece regnava un profondo silenzio.
– La burrasca non è ancora cessata – mormorò. – Che duri dei mesi interi in queste regioni? Il peggio è che con questo ventaccio il capitano non potrà ritornare.
Scese dal letto, andò a prendere nel gabinetto di toeletta un bastoncino profumato che ardeva ancora e si diresse verso la sala da pranzo.
Tutto il vasellame era scomparso e con esso anche Fedoro e la sua poltrona.
– Che l’abbiano portato via? – si chiese.
Ricordandosi però che vi era un’altra porta all’estremità della sala, s’armò d’una sedia che nelle sue mani diventava un’arma formidabile e la varcò.
Vi era un corridoio eguale a quello che conduceva nel suo appartamento, coperto di paraventi. Lo attraversò con precauzione e giunse in una stanza da letto precisa alla sua.
Fedoro non era stato rapito. Dormiva beatamente su un soffice e ricchissimo letto avvolto in una coperta di seta azzurra.
– Svegliati – disse Rokoff, scuotendolo vigorosamente. – Hai dormito dodici ore, se non venti o ventiquattro. È un po’ troppo per un Buddha vivente. Il russo aprì gli occhi, stiracchiandosi.
– Ah! sei tu, Rokoff? – chiese. – Grazie.
– Di che cosa?
– Di avermi portato su questo buon letto.
– Io! Ho dormito come un tasso.
– Chi mi ha messo a letto? Io non avevo mai veduto prima questa stanza.
– Saranno stati i monaci. E il sermone che devi pronunciare domani?
– Il sermone! Ah! Sì, mi ricordo… d’essermi addormentato mentre lo pensavo.
– Ti ha per lo meno ispirato il sonno?
– Non so, Rokoff, ma ho tante idee pel capo. Sai che ho sognato di vedere Buddha?
– Fedoro!… Che l’Illuminato si sia cacciato davvero nelle nostre anime? L’ho sognato anch’io.
– Un bell’indiano di statura gigantesca?
– No, il mio era più brutto d’un calmucco – disse Rokoff.
– Colla pelle bronzina?
– Niente affatto, era verde come un ramarro e aveva le corna.
– Quello doveva essere il diavolo dei buddisti – disse Fedoro.
– Il diavolo o Buddha per noi fa lo stesso. Io non me ne intendo di queste cose e poi…
Un fracasso assordante, che fece tremare l’intero monastero gl’interruppe la frase.
Si udivano tam-tam e gong strepitare, campanelli squillare, trombe lanciare note acute e in lontananza scariche di fucile.
– Per le steppe del Don! – esclamò Rokoff, balzando in piedi. – Che cosa succede! Si assale il monastero?
Guardò verso la volta e vide una debole luce diffondersi sul lucernario.
– L’alba! – esclamò. – Quanto abbiamo dormito noi?
Stava per precipitarsi fuori della stanza, quando udì il gong sospeso alla porta della sala da pranzo squillare rumorosamente.
– Sono i monaci che chiedono di entrare – disse Fedoro, gettandosi giù dal letto.
– Che sia accaduto qualche grave avvenimento? Se fosse il capitano che arriva col suo “Sparviero”? – disse Rokoff. – Amico, prepariamoci a dar battaglia ai monaci se vorranno impedirci di prendere il volo.
– E se fossero invece i pellegrini che vengono ad ascoltarmi? – chiese Fedoro, impallidendo.
– Farai a loro la predica.
– Non l’ho preparata e poi che cosa dire? Non ho mai studiato la religione buddista. No, non avrò mai il coraggio di pronunciare un simile discorso.
– Inventa delle carote.
– Per perderci entrambi?
– Ah! Quale idea! – esclamò Rokoff.
– Getta fuori.
– Se parlassi io invece di te.
– Se nessuno ti comprende!…
– Gli spiriti celesti devono parlare un linguaggio speciale. Lascia fare a me, Fedoro. Se nessuno riuscirà a capirmi, tanto peggio per loro e meglio per me. Almeno potrò dire tutte le asinità che mi verranno in bocca, senza che nessuno possa offendersi.
– E io?
– Ti fingerai ammalato.
– Non commetteremo una balordaggine?
– È l’unico mezzo per levarci d’impiccio – disse Rokoff. – Tuonerò come un cannone e li farò rimanere tutti a bocca aperta.
Senza aspettare la risposta di Fedoro, il cosacco, convinto della bontà del suo straordinario progetto, era uscito dalla stanza, correndo verso la sala dove i quattro monaci lo aspettavano picchiando e ripicchiando sul gong.
– Che cosa volete? – chiese.
I quattro monaci, che non comprendevano una parola di russo, si guardarono l’un l’altro con stupore, poi, con una mimica molto espressiva, gli fecero capire che volevano vedere il suo compagno.
– Seguitemi – disse Rokoff – che aveva indovinato il loro desiderio. Quando entrarono nella stanza, trovarono Fedoro cacciato sotto le coperte e che mandava dei sospironi interminabili.
– Signore – disse uno dei monaci, inchinandosi fino a toccare il suolo. – Tutti gli abitanti del lago muovono in pellegrinaggio verso il monastero, per ascoltare il vostro sermone. Sono migliaia e migliaia che s’avanzano per vedere i futuri Buddha viventi.
– Ahimé! – gemette il russo. – Io sono assai ammalato e dovrò rinunciare all’insuperabile piacere di mostrarmi ai miei futuri adoratori. L’aria fredda delle vostre montagne mi ha abbattuto e mio padre, il grande Buddha, non mi ha inviato ancora la medicina che gli ho fatto chiedere. Onde però non privare i pellegrini del loro giusto desiderio, mio fratello mi surrogherà.
– Nessuno però comprende il suo linguaggio, signore – disse il monaco.
– Egli parla la lingua usata nel nirvana, ma quantunque non compresa, entrerà nel cuore dei pellegrini. Andate a dirlo al grande Bogdo-Lama.
Udendo quelle parole, una profonda costernazione si era dipinta sul volto dei monaci, nondimeno salutarono rispettosamente e uscirono, facendo cenno al cosacco di seguirli.
– Bada, Rokoff – disse Fedoro.
– Non temere – rispose l’ex-ufficiale. – Farò stupire tutti, anche se non capiranno niente.
Cinque minuti dopo Rokoff si trovava in presenza del Bogdo-Lama, a cui i monaci avevano narrato dell’improvvisa malattia che aveva colto Fedoro.
Anche il vecchio pareva assai contrariato. Era bensì vero che Rokoff era il fratello di Fedoro, che al pari di lui era sceso dal Cielo, che aveva pure un aspetto più imponente e anche una magnifica barba rossa che doveva destare l’ammirazione generale dei pellegrini e che parlava la vera lingua usata nel paradiso di Buddha che nessuno, disgraziatamente o meglio fortunatamente, poteva comprendere. Vi fosse stato almeno qualcuno, fra i mille monaci che avesse potuto tradurre il discorso!…
Questa idea aveva però colpito il Bogdo-Lama. Possibile che nessun essere terrestre potesse capire quel maestoso figlio del grande Illuminato? Che parlasse proprio una lingua assolutamente ignota? Rokoff, che pareva indovinasse i pensieri che turbavano il cervello della Perla dei sapienti, cominciava adiventare inquieto. Sentiva per istinto che quella testa pelata doveva maturare qualche cosa di pericoloso.
E non si era ingannato. Mentre i gong e i tam-tam e i campanellazzi delle torri e dei tetti strepitavano senza posa, e in lontananza echeggiavano sempre più rumorosamente i colpi di fucile dei montanari, con sua viva sorpresa vide la sala riempirsi di monaci.
Tutti gli sfilavano dinanzi rivolgendogli qualche parola ed inchinandosi. Ne erano già passati tre o quattrocento quando, con suo vivo stupore, udì uno di costoro salutarlo in lingua russa.
– Tu parli la lingua del nirvana! – esclamò, involontariamente.
– Non so se questa sia la lingua che si usa nel paradiso dell’Illuminato – aveva risposto il monaco. – Io l’ho appresa da un tartaro e son ben felice di conoscerla, perché mi permette di farmi comprendere da un figlio del cielo.
Il Bogdo-Lama, che assisteva alla sfilata a fianco di Rokoff, udendoli parlare, aveva fatto un gesto di gioia. Il cosacco però era rimasto tutt’altro che contento e aveva mandato in cuor suo a casa del diavolo quel monaco che veniva a guastargli i progetti.
– Se costui mi capisce, che cosa dirò ora su Buddha? – si era chiesto, con angoscia. – Me lo appiccicheranno ai fianchi perché traduca alle turbe tutte le mie corbellerie. Che s’affoghino Buddha, i pellegrini, il Lama e quell’imbecille di tartaro che ha insegnato il russo a questo monaco. Se potessi trovare un mezzo qualsiasi per rifiutarmi di parlare? Se dicessi di essere diventato improvvisamente muto?
Era troppo tardi ormai per ritirarsi o per cercare dei pretesti per rinunciare alla famosa predica. I fedeli erano già entrati a centinaia e centinaia nel monastero, impazienti di vedere i figli di Buddha, che si erano degnati di scendere sulle sante acque del Tengri-Nor e di udire la loro parola divina.
– Venite – disse il monaco che parlava il russo, prendendolo per una mano e traendolo con dolce violenza. Il tempio è pieno.
Rokoff si sentì gelare il sangue.
– Datemi prima da bere – disse, tergendosi alcuni goccioloni di sudore che gl’imperlavano la fronte, nonostante il freddo intenso che regnava in quella sala.
– Avrete tutto ciò che desiderate.
– Dell’acquavite e molta per ispirarmi meglio e acquistare un po’ di coraggio – mormorò il disgraziato cosacco.
Seguì il monaco attraverso parecchi androni, insieme a una dozzina di preti, incaricati probabilmente di sorvegliarlo e d’impedirgli qualsiasi tentativo di fuga e venne condotto in un gabinetto dove si trovava una tavola imbandita.
Con mano nervosa afferrò un fiasco d’argento pieno di acquavite tiepida e senza preoccuparsi della presenza dei monaci, lo vuotò più di mezzo senza staccarlo dalle labbra. Era forse una grave imprudenza, essendo quel liquore fortissimo, del sciam-sciù cinese estratto dal riso fermentato, che doveva produrre una semiubriachezza quasi fulminante, ma Rokoff ne aveva proprio bisogno, in quel momento, per affrontare coraggiosamente la terribile prova.
E quella bevuta fenomenale fece davvero un buon effetto. Il cosacco, mezzo stordito, si sentì tutto d’un tratto acquistare un’energia straordinaria.
– Andiamo – disse con voce risoluta.
Il monaco che doveva servirgli da interprete gli fece percorrere un ultimo corridoio, poi aprì una porticina e Rokoff, stupito, si trovò su una specie di palco coperto da un ricco baldacchino di seta gialla a frange d’argento e dinanzi a un mare di teste. Era entrato nel tempio del monastero, una immensa sala sorretta da sessanta colonne di legno dipinte in rosso e con ornamenti d’oro, capace di contenere due o tremila persone.
Nel mezzo, sotto un lucernario, troneggiava un Buddha di proporzioni gigantesche, seduto colle gambe incrociate, su un enorme blocco di pietra staccato probabilmente da una delle più sante montagne del Tibet, forse dalla famosa Tisa, la grande piramide dei Hano-dis-ri, il Mera degli antichi indiani. Tutto all’intorno, centinaia e centinaia di pellegrini, giunti da tutte le parti del lago, si pigiavano, conservando però un religioso silenzio. Erano tutti montanari dalle facce poco rassicuranti e colle cinture riboccanti d’armi, fanatici pericolosissimi, che potevano far passare un brutto quarto d’ora al povero cosacco se li avesse ingannati, anche se si trovavano nel tempio dedicato al grande Illuminato.
Vedendolo comparire sul palco, i pellegrini erano caduti in ginocchio, battendo la fronte sulle pietre del pavimento e borbottando delle preghiere. Nessuno aveva avuto il coraggio di guardarlo.
Rokoff, già stordito da quell’abbondante bevuta che gli faceva ronzare gli orecchi e girare la testa, era rimasto come inebetito dinanzi a quella folla in adorazione, colla bocca aperta e gli occhi dilatati da un terrore invincibile.
– Devo confessare che ho paura – aveva mormorato. – Che cosa sta per succedere? Mi sento mancare il coraggio e paralizzare la lingua.
Si era voltato per vedere se la porta era aperta. Se non fosse stata chiusa sarebbe certamente fuggito, precipitando la catastrofe.
– I birbanti! – esclamò. – M’hanno chiuso nel palco. Coraggio, mio caro Rokoff: si tratta di salvare la mia pelle e anche quella di Fedoro.
Alzando gli sguardi aveva veduto di fronte al suo palco, presso la statua di Buddha, il Bogdo-Lama assiso su un divano circondato da un numeroso stuolo di monaci e con a fianco il prete che doveva servire d’interprete.
Il barbuto pontefice non staccava i suoi sguardi dal cosacco e cominciava a dar segni d’impazienza, meravigliandosi forse che il figlio di Buddha tardasse tanto a trovare la parola. Già due volte aveva alzato il braccio, facendogli cenno di principiare il sermone e anche i pellegrini cominciavano ad alzare la testa e a lanciare sguardi verso il palco.
Rokoff, comprendendo che ormai non poteva più indugiare senza compromettere gravemente la sua posizione di uomo celeste, fece appello a tutto il suo coraggio e alla sua fantasia, e tossì rumorosamente tre o quattro volte per richiamare su di sé l’attenzione dei fedeli. Cosa strana però, l’eterno chiacchierone non riusciva a trovare la parola, né da qual parte cominciare. E poi si sentiva girare sempre più la testa e montare in volto delle fiammate ardenti. Certamente aveva bevuto troppo. Finalmente si decise.
– Buddha!… Il grande Buddha! – gridò con voce tonante e picchiando il pugno sul parapetto del palco con tale violenza, da far scricchiolare le tavole – Era il grande Illuminato!… Un Dio… il più possente Dio che regna sopra le nuvole, fra il sole e la luna…
Si era interrotto mentre il monaco traduceva ai fedeli, silenziosi e raccolti, le sue parole. Dopo quell’esordio, certamente di grande effetto quantunque assolutamente vuoto, il buon cosacco non si era più sentito in grado di continuare.
Che cosa dire? Non lo sapeva assolutamente e poi nel suo cervello cominciava a regnare una tale confusione che nessuna idea voleva uscire. Doveva essere quel maledetto sciam-sciù che lavorava.
Quella tregua però non poteva durare delle ore. Gli sguardi del Bogdo-Lama dicevano abbastanza che era giunto il momento di riprendere il sermone, e Rokoff, che vedeva dipingersi sui visi dei pellegrini una certa meraviglia per quel lungo e inaspettato silenzio, dovette ricominciare.
– Buddha… era Buddha… un uomo… ma che dico, un Dio… più scintillante del sole e più dolce della luna!…
Un’orribile smorfia che fece il Bogdo-Lama e un gesto d’impazienza, lo rese avvertito che era tempo di lasciare in pace il sole e anche la luna, che nulla avevano a che fare con Buddha e di venire a qualche cosa di più concreto. Disgraziatamente le idee del cosacco si annebbiavano sempre più e anche le gambe cominciavano a piegarglisi sotto.
Che cosa disse allora? Non lo seppe di certo nemmeno lui. Preso da una subitanea foga oratoria, una foga da ubriaco, il cosacco si era messo a predicare all’impazzata, tuonando spaventosamente e picchiando pugni formidabili sul palco.
Parlava di santi, di religioni, confondendo Cristo con Buddha, tirando in campo Brahma, Siva e Visnù, il diavolo, le stelle, le nuvole, le macchine volanti, i cinesi, i tibetani e perfino gli asini che popolavano il nirvana dell’Illuminato e tante altre bestie che i veri credenti dovevano rispettare e amare invece di mangiarle.
Il monaco, soffocato da quel torrente di parole, si era più volte interrotto, dimenticandosi di tradurre buona parte di quella massa di corbellerie. Guardava con spavento Rokoff chiedendosi se non capiva più quello che diceva o se il figlio di Buddha era diventato improvvisamente pazzo. Che cosa c’entravano gli asini, le divinità indiane, le macchine volanti, ecc., col grande Illuminato? Anche i pellegrini sembravano stupefatti di quel sermone sconclusionato, che il monaco aveva in parte tradotto. Il Bogdo-Lama invece era diventato furioso e guardava ferocemente il cosacco che continuava a parlare come un vero demente, tirando pugni a manca e a dritta, minacciando di sfasciare il palco e tentando di sfondare la porta. No, non era un figlio del cielo, costui!… Era un energumeno, un ignorante, un buffone che minacciava uno scandalo enorme.
Finalmente, non potendo più trattenersi, il Lama si era alzato.col pugno teso, gridando con voce sibilante:
– Mentitore!
Rokoff, che era completamente ubriaco in quel momento e che parlava delle steppe del Don e della guerra russo-turca, ebbe un barlume. Aveva compreso il pericolo.
Tutti i pellegrini si erano alzati urlando a loro volta:
– Mentitore! Non sei un buddista!
Era una catastrofe completa.
Rokoff intuì che stava per succedere qualche cosa di grave.
Il baccano era diventato assordante e la confusione al colmo. Tutti lo minacciavano e delle armi luccicavano nelle mani dei più fanatici.
Con una spinta irresistibile, il disgraziato predicatore sfondò la porta, mandò a gambe levate i monaci che gli stavano dietro, passando sui loro corpi a corsa sfrenata e fuggì a rompicollo attraverso i corridoi, mentre nel tempio scoppiavano rumori terribili.
Un momento dopo, senza sapere il come, Rokoff piombava come una bomba nell’appartamento di Fedoro.
Questi, vedendolo entrare ansante, col volto congestionato, colla tonaca raccolta attorno ai fianchi e gli sguardi smarriti, si era gettato giù dal letto, chiedendo:
– Rokoff… che cosa è accaduto?
– Non lo so… disastro completo… mi vogliono accoppare… fuggiamo!…
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