Armati di doppiette di fabbrica americana e muniti di numerose cartucce, i tre aeronauti attraversarono la radura, dirigendosi verso gli alberi che ornavano le rive dell’isolotto.
Bande di uccelletti si alzavano dinanzi a loro fuggendo in tutte le direzioni: gazze, allodole e quaglie; ma non era quella la selvaggina che cercavano. Fra gli alberi e i canneti avevano veduto svolazzare numerose coppie di fagiani dorati dalle splendide penne; beccaccini, oche, gallinelle e shui-nu, ossia schiavi d’acqua, così chiamati perché non si trovano che là dove scorre qualche fiume o si allarga qualche palude.
Prima di aprire il fuoco, s’accordarono per fare il giro dell’isolotto, onde accertarsi se anche le rive opposte erano deserte, volendo evitare di attirare l’attenzione di qualche abitante.
In quel momento sul fiume non si trovava alcuna giunca, né alcuna barca da pesca.
Anche sulle due rive che fronteggiavano l’isolotto non si scorgeva alcuna abitazione.
Solamente dei pini maestosi lanciavano le loro cime verdeggianti a quaranta e anche cinquanta metri d’altezza, formando una vera foresta. Poteva però darsi che sotto quelle piante si celasse qualche gruppo di casupole cinesi o tartare.
I tre aeronauti avevano già quasi compiuto il giro dell’isolotto senza aver incontrato alcun essere umano, quando il capitano si arrestò dinanzi a un gruppo di piante dal fogliame molto folto e largo e i cui rami apparivano coperti da una materia bianca che sembrava farina.
– Che cosa sono? – chiese, volgendosi a Fedoro. – Si direbbe che su questi alberi è nevicato.
– I pe-lah hanno lavorato – rispose il russo.
– I pe-lah! Ne so meno di prima.
– Sono insetti che producono la cera.
– Delle api?
– No, signore, somigliano a vermiciattoli.
– E questa materia bianca sarebbe?
– Della cera di prima qualità.
– Non ho mai saputo che oltre le api vi siano altri insetti che ne producono – rispose il capitano.
– I pe-lah sono molto comuni in Cina e tutta la cera che si consuma viene raccolta su queste piante.
– Se si trova anche qui, significa che questo isolotto di quando in quando viene visitato da qualche abitante delle rive.
– Perché dite questo?
– Perché i pe-lah non si propagano senza l’aiuto dell’uomo. I Cinesi usano raccogliere le uova entro cartocci di foglie di palma e, trovate queste piante, che come vedete somigliano ai frassini, li appendono ai rami. Gl’insetti non tardano a svilupparsi e coprono tronchi, rami e foglie d’uno strato di cera purissima.
– E come si fa a raccoglierla? – chiese Rokoff. – Non mi sembra cosa facile staccarla.
– Invece è un’operazione facilissima. Tagliano i rami e li tuffano nell’acqua bollente finché la materia si sia sciolta.
– Furbi questi cinesi!
– Ah!… Vedete!… Non mi ero ingannato!… I raccoglitori sono già venuti qui ed hanno lasciato anche una barca.
In mezzo ai canneti, legata al tronco d’una pianta, si scorgeva un piccolo pan-mi-ting, barchetta assai stretta, a punta rialzata, usata per lo più pel trasporto del riso.
Era molto vecchia, coi bordi mezzo consunti dall’azione dei remi, tuttavia ancora in grado di poter compiere la traversata del fiume senza correre il pericolo di affondare.
– Se hanno lasciato qui questa barca, vi devono essere degli abitanti sulle rive – disse il capitano. – Signori miei, mi rincresce assai, ma non potrò permettervi di cacciare su questo isolotto. Desidero che tutti ignorino che qui si riposa il terribile drago.
– Andiamo nei boschi – disse Rokoff. – La corrente non è molto impetuosa in questo luogo. Così esploreremo le vicinanze e ci accerteremo se qualche pericolo ci minaccia.
Il capitano rimase qualche istante silenzioso, esitando fra l’accettare la proposta o respingerla, poi disse:
– Non sono che le dieci, quindi c’è tempo per fare la colazione. Sapete condurre una scialuppa?
– Il Don mi era familiare, – rispose il cosacco – e pochi sapevano condurre una barca meglio di me.
– Imbarchiamoci.
– E il macchinista non s’inquieterà per la nostra assenza? – chiese Fedoro.
– Non occupatevi di lui – rispose il capitano. – Lavorerà più tranquillo.
Raggiunsero la piccola imbarcazione, la quale era fornita di due paia di remi e vi balzarono dentro, tagliando l’ormeggio.
Rokoff la spinse subito al largo, e arrancando vigorosamente, si diresse verso la sponda destra, che era coperta da giganteschi alberi, intorno ai quali volteggiavano bande di corvi e di bellissime e grasse gen-gang, ossia anitre mandarine, assai stimate dai buongustai cinesi.
Essendo la corrente non molto rapida, in causa della immensa larghezza del fiume e della poca pendenza del letto, in meno d’un quarto d’ora i tre aeronauti sbarcavano sul margine della foresta di pini e di querce, in un luogo che pareva assolutamente deserto.
– Vedete nulla? – chiese il capitano a Rokoff, il quale si era già cacciato sotto gli alberi, impaziente di fare un massacro di volatili.
– Non vedo alcuno.
– Siamo sul territorio tartaro? – chiese Fedoro.
– Sì – rispose il capitano.
Vedendo passare sopra la propria testa una banda di fagiani argentati, il cosacco aveva prontamente scaricato i due colpi del suo fucile, facendo cadere al suolo quattro o cinque di quei superbi e deliziosi volatili.
La detonazione si era appena ripercossa sotto le piante, quando a breve distanza si udirono rimbombare precipitosamente alcuni colpi di tam-tam.
– Ah! Diavolo! – esclamò il cosacco, raccogliendo in fretta i volatili. – Che vi sia qualche villaggio in questi dintorni?
– Siamo in tre e bene armati e l’isola è lontana – rispose il capitano. – Nessuno può supporre che noi siamo venuti di là!
Le battute sonore del tam-tam erano cessate e più nessun altro rumore si udiva sotto i pini e le folte querce.
– Ritorniamo? – chiese Fedoro. – Sono inquieto pel vostro compagno.
– È al sicuro e noi vegliamo su di lui – rispose il capitano. – Continuiamo la nostra caccia ed esploriamo la riva.
Essendo i volatili tutti fuggiti dopo quelle due detonazioni, i tre aeronauti si cacciarono sotto le piante, dirigendosi là dove avevano udito risuonare il tam-tam.
Avendo dei buoni fucili fra le mani e abbondanti munizioni, non si preoccupavano molto della presenza dei tartari, uomini valorosi sì, ma pessimamente armati anche oggidì, usando ancora gli antichi archi.
I volatili ricomparivano e sempre numerosissimi, promettendo una caccia abbondante. Cingallegre grigie, grossi merli, quaglie, tortore grossissime, corvi dal collare bianco, beccaccine e fagiani fuggivano in mezzo ai cespugli e fra i rami, offrendosi in fitte bande ai colpi dei cacciatori.
Anche numerose lepri balzavano a destra e a sinistra, non essendo perseguitate dai cinesi, i quali danno la preferenza ai cani e ai topi, molto più gustosi, a loro giudizio.
Il capitano e i suoi compagni avevano cominciato un vero fuoco di fila, facendo cadere uccelli e lepri in tale abbondanza, da temere che la scialuppa non potesse contenere tutta quella selvaggina.
Così, senza accorgersene, trasportati dall’ardore della caccia, si erano inoltrati nella foresta per un paio di chilometri, quando si trovarono improvvisamente dinanzi a una vasta capanna di paglia e di fango, a doppio tetto e circondata da una veranda riparata da stuoie.
Un uomo tarchiato, di statura bassa, colla faccia quasi piatta e assai larga, color del limone e vestito di ruvido cotone turchino, era uscito da una cinta situata a breve distanza, entro la quale pareva che si trovassero riuniti numerosissimi cani. Vedendo quegli stranieri, aveva cercato subito di riparare nella capanna, ma il capitano gli aveva intercettato la ritirata.
– Non temete – gli disse. – Quantunque noi siamo europei, non abbiamo alcuna intenzione di farvi male. Siamo qui per cacciare e nient’altro.
Il tartaro, poiché doveva essere tale, a giudicarlo dai lineamenti del suo volto, fece silenziosamente un saluto muovendo le mani e guardando di sotto le folte ciglia gli stranieri.
– Potete accordarci ospitalità per qualche ora, pagandovi? – chiese il capitano. – Siamo carichi di selvaggina, abbiamo fame e la nostra barca è lontana.
– La mia casa non è un albergo – rispose il tartaro, che pareva assai contrariato. – E poi ho degli amici che dormono.
– Non li disturberemo. Non vi chiediamo che di accendere il fuoco e di arrostirci un paio di questi fagiani e qualche anitra mandarina. Siete un coltivatore?
– Un tartaro non si occupa dei prodotti della terra – rispose il proprietario, con accento piccato. – Sono un allevatore di cani.
– Bell’industria! – esclamò Rokoff, a cui era stata tradotta la risposta da Fedoro.
– Anzi, molto proficua – rispose questi.
– Orsù, acconsentite? – chiese il capitano impazientito. – Un tael si troverà bene nelle vostre tasche.
Udendo parlare di denaro, il tartaro, venale come tutti i suoi compatrioti, abbozzò un sorriso e fece col capo un cenno affermativo.
– Date – disse poi.
Il capitano gli gettò fra le mani due fagiani e un’anitra.
– Sbrigatevi soprattutto – gli disse. – È mezzodì e non abbiamo fatto ancora colazione.
– Ecco un volto che non mi rassicura affatto – disse Rokoff, seguendo collo sguardo il tartaro.
– Gli abitanti di questa regione sono mezzo selvaggi – rispose Fedoro. – I cinesi non sono ancora riusciti a civilizzarli, dopo tanti secoli di contatto.
– Avrei preferito tornarmene all’isolotto – disse Rokoff.
– Ed io no – disse il capitano.
– E si può conoscerne il motivo?
– Sapete che io penso continuamente ai manciù che ci hanno cannoneggiati? Io temo una sorpresa da parte loro ed è perciò che ho acconsentito ad attraversare il fiume onde sorvegliare le loro mosse.
– Dove si trova il fortino?
– Su questa riva; sicché, se vorranno cercarci, saranno obbligati a passare per di qua, o alla nostra destra, o alla nostra sinistra. In tale caso ci ripiegheremo prontamente sul fiume e prenderemo il largo.
– E se giungessero prima che la riparazione fosse compiuta? – chiese Fedoro.
– Ci innalzeremo come meglio potremo e andremo più lontano a trovare un luogo più deserto.
– O daremo battaglia – disse Rokoff, risolutamente. – Io non ho paura né dei manciù, né dei cinesi.
Un latrare assordante interruppe la loro conversazione.
– Che i cani del tartaro odino gli europei? – chiese Rokoff, ridendo. – Udite che fracasso! L’hanno con noi.
– O che che il nostro ospite o qualcuno dei suoi abbia invece cominciato a strangolarli? – disse Fedoro.
– Eh che! – esclamò il cosacco. – Si allevano i cani per poi ucciderli?
– E per mangiarli anche.
– Oh! S’ingrassano appositamente come si fa da noi coi maiali?
– Sì, e non solo per le loro carni, bensì per ottenere delle bellissime pellicce innanzitutto – disse Fedoro. – In questa regione e anche nella vicina Manciuria, migliaia e migliaia di famiglie vivono con questa curiosissima industria. I cani appartengono a una bella razza, fornita d’un manto finissimo, che tiene più caldo della lana dei nostri montoni e che viene adoperato nella confezione di pellicce di valore. Per avere un buon mantello non occorrono meno di otto animali e si vende in media a diciotto lire, qualche volta anche a venti.
– Due lire per cane! Poca cosa, Fedoro.
– E non conti la carne?
– Puah!…
– Si fa una immensa esportazione di prosciuttini di cane, che sono molto stimati dai cinesi e che si vendono anche cari, specialmente se sono grassi. Come vedi, è un’industria produttiva.
– Capitano, – disse Rokoff – non fatevi servire alcun piatto del paese. Quel tartaro sarebbe capace di portarci qualche strano manicaretto di carne canina.
– Ci tengo più ai nostri fagiani e alla nostra anitra – rispose il comandante ridendo. – Non amo né topi, né cani.
– Ah!… – disse ad un tratto Rokoff. – Non ci aveva detto il tartaro di avere degli amici nella sua casa?
– Sì – rispose Fedoro.
– Che dormano? Io non odo alcun rumore e non vedo che il nostro ospite passare e ripassare dinanzi alla porta.
– È vero – disse il capitano, colpito da quella osservazione
– Andiamo a vedere se ha mentito o se i suoi amici sono scomparsi sotto terra.
I tre cacciatori s’avvicinarono alla casa e s’affacciarono alla porta.
Il tartaro aveva spennato i tre volatili e li aveva messi già ad arrostire, infilati in una corta lancia.
Non aveva però mentito dicendo di avere nella sua casa degli amici. In un angolo, il più oscuro della stanza, si vedevano seduti o meglio semisdraiati su una stuoia, cinque individui pallidi, trasfigurati, colla pelle dei volti grinzosa, gli sguardi istupiditi, il naso affilato.
Si tenevano gli uni addosso agli altri e tremavano come se fossero assaliti da una forte febbre, mentre i loro petti si alzavano con un rantolo strano che aveva qualche cosa di lugubre.
Uno pareva che fosse morto od addormentato e dalle sue labbra, agitate da un tremito convulso, sfuggiva una bava giallognola, la quale si spandeva fino sulla stuoia.
Il capitano e i suoi due compagni si erano arrestati sulla soglia della stanza, guardando con orrore quegli uomini che pareva dovessero da un momento all’altro esalare l’ultimo respiro.
– Chi sono costoro? – chiese il capitano. – Dei moribondi?
Il tartaro, che stava facendo girare lo spiedo, si volse, facendo un gesto di stizza, poi disse con voce tranquilla:
– Miei amici.
– Che tu hai avvelenato?
– No… sono dei mangiatori d’oppio. Lasciateli dormire; non vi daranno alcun impaccio.
– Lo hanno fumato?
– No, mangiato. Potete accertarvene, perché nelle loro borse devono avere ancora parecchie pallottole.
– Che il diavolo se li porti! – esclamò Rokoff, slanciandosi fuori della stanza. – Quei miserabili mi fanno perdere l’appetito.
Il capitano e Fedoro, non meno nauseati, lo avevano seguito, preferendo fare colazione all’aperto piuttosto che con quei ributtanti individui.
– Io avevo finora creduto che l’oppio si fumasse e non già che si mangiasse – disse il capitano. – Quella gente si avvelena lentamente.
– I mangiatori d’oppio sono numerosi in Cina e soprattutto nella Mongolia – rispose Fedoro – nonostante le leggi severe decretate dall’imperatore.
– E ne assorbiscono molto?
– Generalmente si accontentano di una pallottolina di cinque o dieci centigrammi; fatta però l’abitudine, raddoppiano e anche triplicano la dose.
– E che cosa provano? – chiese Rokoff.
– Dapprima una viva sovreccitazione fisica e intellettuale che li rende talvolta pericolosi, diventando temerari e spavaldi; poi un benessere generale che li immerge in un sonno profondo, abbellito da sogni piacevoli. A poco a poca si abbrutiscono e diventano ributtanti, ischeletriti, tremanti come se avessero sempre indosso la febbre e quasi nella impossibilità di camminare diritti. Un mangiatore d’oppio si riconosce subito essendo sempre in preda a una specie di sonnolenza che rende le sue mosse tarde e incerte.
– E non possono abbandonare quel brutto vizio?
– Sarebbe peggio; ricadrebbero in una profonda apatia che ben presto li condurrebbe alla morte – rispose Fedoro.
– E fumandolo, invece? – chiese il capitano.
– I fenomeni sono quasi identici, tuttavia meno intensi. Volete farne la prova? Il tartaro non mancherà di pipe, né di oppio; devo avvertirvi, innanzi tutto, che le prime volte quel narcotico produce nausee e acuti dolori di testa.
– Non ne ho alcun desiderio. Ho udito raccontare che si beve anche col caffè.
– Sì, nel Turchestan; e quella bevanda eccitantissima si chiama koknar. È anzi tale l’abitudine che hanno ormai quegli abitanti, che non potrebbero farne a meno. Per loro è diventata una vera necessità, come per la maggior parte degli europei il vermut, l’assenzio o la birra. L’uomo che volesse rinunciarvi, non potrebbe resistervi a lungo; diverrebbe presto un infelice, privo di qualsiasi energia, apatico, svogliato e non saprebbe imprendere qualsiasi lavoro.
– Al diavolo l’oppio! – esclamò Rokoff. – Preferisco mille volte la mia pipa carica di buon tabacco.
In quel momento il tartaro usciva dalla capanna, recando su un tondo d’argilla i fagiani e l’anitra mandarina con un contorno di pien-hoa, specie di radici e di hing, frutti angolosi che crescono negli stagni e che assieme alle prime surrogano, fino a un certo punto, il pane, che è quasi sconosciuto nella Tartaria e nella Mongolia.
Portava inoltre un vaso colmo di acquavite e di riso e alcuni prosciutti, che dalla loro forma dovevano essere di cani e forse ingrassati con bachi da seta, come usano i cinesi.
– Riporta i prosciutti – disse Fedoro. – Non fanno per noi.
Il tartaro lo guardò con una certa meraviglia, poi ritornò nella sua casupola borbottando.
I tre aeronauti si sedettero sotto una superba quercia che nonostante il freddo aveva conservato ancora gran parte del suo fogliame e attaccarono con molto appetito l’arrosto, le radici e gli hing, magnificando soprattutto la squisitezza dei due fagiani.
– Ecco una colazione che molti ci invidierebbero, – disse Rokoff che divorava per quattro. – Capitano, i vostri pasticci di California e dell’Australia farebbero certamente una ben meschina figura dinanzi a questi deliziosi volatili.
– Nessuno c’impedirà di provvederci sempre di questi arrosti – rispose il comandante. – La Mongolia è ricca di uccelli e anche di selvaggina da pelo e faremo ogni giorno una battuta. Voi non avete fretta di tornarvene in Europa, è vero?
– No, signore – rispose Fedoro. – Desiderei però avvertire la mia casa di Odessa di non fare, almeno per un certo tempo, alcun assegnamento su di me e d’incaricare il mio rappresentante a Hong-Kong di acquistare il tè che io non ho potuto avere dal defunto Sing-Sing.
– Una cosa facilissima – rispose il capitano. – Si manda un telegramma.
– Ma… signore… voi vi dimenticate che qui non vi sono uffici telegrafici e che siamo nella Mongolia.
– Se qui non ve ne sono, ne troveremo presto uno il quale trasmetterà in poche ore il vostro dispaccio.
– E dove lo cercheremo?
– Non occupatevene, – disse il capitano con un sorriso misterioso. – Preparate il telegramma e fra tre giorni o quattro la vostra casa lo riceverà. Ehi, tartaro, portaci delle altre radici. Il signor Rokoff ha divorato tutto.
– Erano così eccellenti! – rispose il cosacco, ridendo.
– Mi avete capito? – gridò il capitano, dirigendosi verso l’abitazione. Con sua sorpresa il tartaro non si fece vivo.
– Dove sarà andato? – chiese Fedoro, un po’ inquieto.
Il capitano si spinse fino alla porta chiamando il proprietario ad alta voce e anche questa volta senza successo.
Entrò nella cucina e vide solamente i mangiatori d’oppio coricati l’uno presso l’altro e profondamente addormentati.
– Non c’è più? – chiese Rokoff raggiungendolo.
– È sparito – rispose il capitano.
– Che sia fuggito?
– Signori miei – disse il capitano – questa scomparsa m’inquieta. Raccogliamo la nostra selvaggina e andiamocene. Io non sono tranquillo.
– Che cosa temete? – chiese Fedoro.
– Non dimentichiamo che noi siamo stranieri e che l’odio del cinese e del tartaro verso l’uomo bianco non è ancora spento.
– Che quel briccone si sia recato in qualche villaggio a chiamare degli amici, per poi farci prendere?
– È quello che sospetto. Orsù, prendiamo i nostri volatili e corriamo al fiume.
– Maledetto paese! – esclamò Rokoff. – Non si può nemmeno fare colazione senza apprensioni!
Stavano per slanciarsi attraverso il bosco, quando Fedoro si arrestò dietro un gruppo di pini colossali, esclamando:
– Fermi tutti!
– Che cosa c’è – chiese Rokoff.
– Ci hanno tagliato la ritirata.
– Chi?
– I manciù! Eccoli che si avanzano attraverso il bosco.
– Ah! Brigante d’un tartaro! – gridò Rokoff. – Egli ci ha traditi! Che siano i soldati del fortino?
– Lo saranno di certo – rispose Fedoro.
– Nella casa – disse il capitano. – Là almeno ci troveremo al coperto e potremo resistere lungamente.
– E lo “Sparviero”? – chiesero con angoscia il cosacco e il russo.
– Il mio macchinista non è uomo da lasciarsi sorprendere e le eliche possono funzionare subito. Siamo noi invece che corriamo il pericolo di passare un brutto quarto d’ora. Fortunatamente abbiamo dei buoni fucili da caccia e mitraglieremo i manciù.
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