Pechino, l’immensa capitale del più popoloso impero del mondo, che da migliaia d’anni si erge, al par di Roma, come sfida al tempo, a poco a poca s’immergeva fra le tenebre.
Le immense cupole a scaglie azzurre dai riflessi dorati dei giganteschi templi buddisti; i tetti gialli dal lampo accecante degli sterminati palazzi della corte imperiale; i mille ghirigori di porcellana del tempio dello spirito marino che racchiude le tre incarnazioni del filosofo Laotsz; i candidi marmi del tempio del cielo; le tegole verdi del tempio della filosofia; la foresta immensa di guglie e d’antenne sostenenti mostruosi draghi dorati cigolanti alla brezza; le punte arcuate di metallo dorato delle torri, dei bastioni, delle muraglie enormi della città interdetta, scomparivano fra le brume della sera. Il fragore però che si ripercoteva in tutti gli angoli della città mostruosa, quel fragore sordo e prolungato prodotto dal movimento di tre milioni d’abitanti, dal rotolare di miriadi di carri e di carretti e dal galoppare di cavalli, quella sera non accennava a cessare, malgrado il proverbio cinese che dice: “la notte è fatta per dormire”.
Pareva anzi, contrariamente alle abitudini dei flemmatici cinesi, che aumentasse con un crescendo assordante.
Sulle torri, sulle terrazze, nei cortili, nei giardini, nelle piazze, nelle vie e nelle viuzze più lontane, perdute alle estremità dell’immensa capitale, strepitavano gong e tam-tam, echeggiavano conche marine con muggiti rauchi, tuonavano petardi, scoppiavano bombe, sibilavano razzi e stridevano, zufolando, le girandole, gettando all’aria miriadi di scintille.
La notte scendeva, ma Pechino avvampava coprendosi di luce.
Milioni di lanterne si accendevano dovunque, lanterne di tutte le forme e di tutte le specie; di carta oliata dai mille colori, di corno, di talco, di vetro, di seta, di madreperla, grandi come camere o piccole come un’arancia, a fasci, a gruppi, a colonne, ad archi, a gallerie, provocando clamori di maraviglia fra il popolo che si rovesciava, come una fiumana, fra le diecimila vie della città. Scintillavano le torri, le case dei ricchi, le catapecchie dei poveri, le massicce mura, le terrazze, i templi, i meravigliosi giardini dell’imperatore, i ponti, le guglie, le barche del vecchio canale, mentre in alto s’alzavano senza posa razzi di tutti i colori e i cervi volanti, coperti di lanterne, spaziavano per l’aria oscura, gareggiando coi primi astri. Gli abitanti di Pechino salutano, con quell’orgia di luce, la prima luna del nuovo anno. È la festa delle lanterne, alla quale devono prendere parte tutti, dall’onnipossente imperatore al povero coolie affamato che consumerà il suo ultimo sapeke (piccole monete che valgono meno d’un centesimo) o venderà la sua ultima giacca, per accendere dinanzi alla cadente e squallida casupola la sua modesta lanterna di carta oliata.
In mezzo alla folla che si accalcava per le vie, ad ammirare le illuminazioni delle case signorili, od a godersi il delizioso crepitio del p’ao Ku che simulano così bene il bruciare dei bambù verdi, o ad estasiarsi dinanzi ai gruppi di alberi eretti sulle piazze, che bruciavano spandendo all’intorno mille diversi bagliori mercé una gomma speciale che li ricopre, due uomini che non indossavano i barocchi costumi cinesi, si aprivano faticosamente il passo, senza risparmiare spinte e anche pugni, preceduti da un giovane cinese che portava una lampada monumentale dai vetri di talco azzurro.
Quei due uomini vestivano entrambi all’europea, con giacche e calzoni di grosso panno azzurro, alti stivali alla scudiera e berretti di pelo come usano i russi nella Siberia meridionale. Apparentemente non avevano armi, però da un certo rigonfiamento che si scorgeva sotto le giacche, si poteva facilmente supporre che portassero delle rivoltelle o per lo meno delle pistole.
Quello che seguiva subito il piccolo cinese, era un uomo sulla trentina, bianco e rosso come una fanciulla, cogli occhi azzurrognoli; i baffetti biondi, la fronte alta e spaziosa, i lineamenti regolari e bellissimi.
L’altro invece, aveva l’aspetto di un vero orso. Faccia larga e un po’ piatta, naso grosso, mascelle assai sporgenti, occhi neri, barba e capelli lunghissimi d’un rosso infuocato e pelle quasi bruna.
Mentre il suo compagno aveva l’aspetto un po’ effemminato ed una statura appena superiore alla media, l’altro aveva un torso da bisonte, un petto da orso grigio, membra massicce e perfino le mani villose. Anche nelle mosse aveva qualcosa di pesante e di duro che contrastavano vivacemente con quelle agili e decise del compagno.
– Ebbene, Fedoro, ci si arriva? – chiese ad un tratto l’uomo tozzo, sbuffando come una foca. – Ne ho abbastanza dei cinesi e delle loro lanterne.
– Non sei entusiasta di questo spettacolo, Rokoff? – chiese il giovane, ridendo. – Eppure questa sera Pechino presenta delle scene meravigliose.
– Preferisco le mie steppe del Don, colle loro alte erbe: almeno là si può vedere il sole o la luna e anche bruciare selve e accendere pozzi di petrolio senza farsi schiacciare dalla folla.
– Tutti così questi cosacchi – rispose il giovane. – La steppa ed il loro fiume, le loro albe ed i loro tramonti, poi basta.
– È vero, Fedoro – rispose l’uomo barbuto, facendo una smorfia che voleva, essere un sorriso. – Siamo un po’ selvaggi noi.
– Dunque, Pechino non ti alletta?
– Noi ci troviamo qui da tre ore, e non ho veduto finora altro che lanterne e fuochi artificiali; fuochi artificiali e lanterne. Ah! Mi dimenticavo anche zucche pelate e code; code e zucche pelate, e chiami tutto ciò uno spettacolo, Fedoro? Io ne ho fin troppo, te l’assicuro.
– Quando saremo a casa di Sing-Sing, non dirai più così.
– Troveremo almeno da mangiare? – chiese il cosacco, dimenando ferocemente le mascelle.
– E come? Ad un uomo che viene a contrattare cinquecento tonnellate di “tè polvere di cannone” non vuoi che si offra da mangiare? Anzi giungeremo in buon punto per assistere ad uno di quei banchetti fenomenali che non scorderemo più, mio buon Rokoff.
– Ti assicuro che mi farò onore, perché da Taku a oggi, non sono mai riuscito a calmare interamente la fame, quantunque abbia mandato giù non so quante terrine di riso, di pasticci inqualificabili e non so quante migliaia di chicchere di tè. Se noi resteremo in Cina un mese ancora, dimagrirò spaventosamente.
– Tra dieci giorni torneremo a Taku e c’imbarcheremo per l’Europa.
– Per Odessa, mio caro. Se avessi saputo che la Cina era così, non avrei lasciato il mio squadrone per accompagnarti.
– Sì, per Odessa.- rispose Fedoro.
– Per le steppe del Don! Che non finisca più questa marcia? E che questi cinesi non diminuiscano mai? Comincio a perdere la pazienza e allora guai alle code che si troveranno alla portata delle mie mani.
Fedoro interpellò il ragazzo che portava la lanterna, ormai mezza schiacciata dai continui urti della folla.
– Presto, signore, due passi ancora – rispose l’interrogato, in pessimo inglese. – La casa di Sing-Sing non è lontana.
– È mezz’ora che quel monello ci ripete questa frase – disse l’irascibile figlio delle steppe, tirandosi l’irsuta barba. – Mi ha l’aria di beffarsi di noi, questo briccone.
– Pazienza, Rokoff – disse Fedoro. – Non bisogna aver fretta in Cina. I figli del Celeste Impero non hanno una misura esatta del tempo.
– Auff! E sempre folla!
Le vie si succedevano alle vie, fiancheggiate ora da casupole, ora da templi immensi, ora da dimore splendide coi tetti a punte rialzate e le pareti coperte di porcellane, da chiostri meravigliosamente traforati, da padiglioni e da giardini tutti fiammeggianti di lanterne multicolori.
La folla si precipitava come un torrente senza fine, pigiandosi fra le case, irrompendo tumultuosamente nelle piazze, urtandosi, spingendosi fra grida, urla, fragori di trombe, di tam-tam, di gong, di mille strani strumenti musicali, mentre le bombe tuonavano senza posa sui poggioli, sulle verande, sulle terrazze, e le girandole lasciavano cadere una pioggia di scintille sugli ampi capelli dei curiosi, sui cavalli, sugli asini e sulle portantine che s’incrociavano in tutti i, sensi. Fedoro, stanco, stava per fermarsi onde prendere un po’ di respiro, quando il ragazzo, che aveva rinunciato a portare più lungi la sua lanterna, ormai ridotta in uno stato deplorevole, si volse verso di lui, dicendogli:
– Ci siamo.
– Finalmente! Anch’io, non ne potevo più!
– Si vede quella dannata casa del signor San… San… Ting… Auff! che nome! Non riuscirò mai a digerirlo, mio caro Fedoro.
– Se dice che ci siamo!…
– Non è la prima volta che ce lo ripete. Che abiti all’inferno questo negoziante di tè?
– Pazienza, Rokoff; poi ci riposeremo.
– Riposeremo dal cinese?
– È mio amico.
– Bella amicizia! Una zucca pelata!…
– Troverai un uomo amabilissimo e gentile.
– Uhm!
– Che sarà orgoglioso di ospitare un tenente della cavalleria russa. Il nostro paese gode oggi molte simpatie qui.
– Eppure i nostri in Manciuria ne hanno commesse di quelle grosse. Ne hanno annegati a centinaia nelle acque dell’Amur.
– Inezie, Rokoff.
– Saranno tali forse per i cinesi: già, son così tanti, che diecimila più o meno non contano.
– Non dire però male dei cinesi quando saremo da Sing-Sing.
– Anzi dirò che sono bella gente – disse il cosacco, ridendo. – Sarò gentile; te lo prometto, Fedoro.
– Allora tutto andrà bene.
– Eccoci – disse in quel mentre il ragazzo.
Fedoro ed il suo compagno erano giunti dinanzi ad una sontuosa dimora, adorna di colonnati coperti di lanterne, di frontoni di marmo, di ghirigori di porcellana, con tetti e soprattetti a punte arcuate sormontati da una vera selva di antenne sostenenti bandiere, draghi e gruppi di gigantesche lampade.
Ondate di luce variopinta si proiettavano sulla folla stipata dinanzi al palazzo, dove bruciavano girandole, bambù crepitanti, fuochi di bengala e detonavano razzi e petardi in gran numero.
– Bella casa! – esclamò il cosacco.
– Principesca – disse Fedoro. – Ciò non mi stupisce, perché si dice che Sing-Sing, col commercio del tè, abbia accumulato milioni su milioni.
Il ragazzo si era slanciato sull’ampia scala marmorea, sul cui pianerottolo si accalcavano numerosi servi vestiti sfarzosamente, con ampie zimarre di nankino fiorito e larghe cinture di seta ricamata in oro. Un momento dopo il gigantesco tam-tam, sospeso sopra la porta, echeggiava con fracasso assordante, annunciando al padrone della splendida dimora una visita importante.
– È per noi che fanno tanto rumore? – chiese Rokoff.
– Sì, rispose Fedoro.
– Avrebbero fatto meglio a risparmiarsi questa musica che sfonda i timpani degli orecchi.
– Rokoff! Tu diventi brontolone – disse Fedoro celiando.
Un cinese, un maggiordomo di certo, obeso come un ippopotamo, tutto vestito di seta rossa a fiori bianchi ed a lune sorridenti, che traballava grottescamente sui suoi zoccoli quadrati dall’alta suola di feltro, s’avanzò verso i due europei e s’inchinò profondamente incrociando le mani sul petto e muovendo graziosamente le dita, salutandoli con un cordiale:
– Tsin!… Tsin!…
– Ecco un uomo che deve mangiare delle grasse galline o per lo meno delle oche – mormorò il cosacco. – Si deve star bene in questa casa.
– Siete voi gli europei che il mio padrone aspetta? – chiese.
– Sì – rispose Fedoro, il quale comprendeva benissimo il cinese. – Io sono Fedoro Siknikoff, rappresentante e comproprietario della casa di esportazione di tè, Siknikoff e Bekukeff di Odessa.
– E l’altro? – chiese il maggiordomo, guardando il cosacco.
– Un mio amico.
– Seguitemi: ho ricevuto ordini a vostro riguardo.
Fedoro mise in mano al monello un tael, somma ragguardevole in Cina dove un operaio, lavorando dall’alba al tramonto, non guadagna più di sessanta centesimi, e seguì il maggiordomo in un superbo vestibolo scintillante di luce per la moltitudine di lanterne di seta che coprivano il soffitto.
Attraversarono in seguito parecchie gallerie, colle pareti coperte di arazzi meravigliosi rappresentanti draghi vomitanti fuoco e gru e cicogne in gran numero; passarono in mezzo a paraventi di seta di tutte le tinte, leggiadramente ricamati ed entrarono finalmente in una stanza illuminata da una gigantesca lanterna coi vetri di madreperla e che spandeva una luce diafana, del più sorprendente effetto.
– Aspettate qui gli ordini del mio padrone – disse il maggiordomo, inchinandosi fino a terra.
Rokoff, ch’era passato di stupore in stupore, s’era fermato sotto la lampada, girando all’intorno uno sguardo attonito.
Quella stanza, quantunque ammobiliata semplicemente, non usando i cinesi mobili pesanti, era così graziosa, da far stupire lo stesso Fedoro, quantunque da lunghi anni avesse percorso il Celeste Impero, visitando tutte le città costiere.
Era un quadrilatero perfetto, col pavimento coperto di piastre di porcellana azzurra che avevano dei dolci riflessi sotto la luce della lampada; colle pareti coperte di quella meravigliosa carta di Tung che invano gli europei hanno cercato di imitare, a fiorami dorati, che parevano ricamati, e col soffitto a quadri pazientemente intagliati.
Le finestre, piccolissime, avevano tende di seta trasparente che coprivano i vetri di talco.
Nel mezzo due letti massicci, bassi, con coperte di seta ricamata e guancialini di sottilissima tela fiorata; negli angoli, invece, leggeri tavoli laccati, scaffali di ebano, sputacchiere e vasi istoriati pieni di peonie fiammeggianti, e sedie di bambù che avevano certe vernici che parevano strati di vetro.
Su tutti i mobili poi, vasetti, vasettini, statuette, palle d’avorio traforate, ninnoli d’ogni specie, di porcellana, di ebano, di osso, di talco, di madreperla, di oro e d’argento, specchi di metallo a rilievi e profumiere.
– Non avrei mai supposto che questi cinesi sfoggiassero tanto lusso nelle loro case – disse Rokoff, dopo essersi guardato attentamente intorno. – Che cosa ne dici, Fedoro?
– Che vedrai ben altre cose – rispose il giovine.
– E il padrone di questa dimora?
– Spero che si farà vedere presto. Noi siamo ospiti che valgono delle centinaia di migliaia di lire ed i cinesi ci tengono al danaro anche…
Un colpo bussato alla porta, gl’interruppe la frase.
Il maggiordomo entrava portando due giganteschi biglietti di carta rossa, lunghi più d’un metro e larghi quasi altrettanto, sui quali si vedevano delle lettere adorne di geroglifici mostruosi e tre figure rappresentanti un fanciullo, un mandarino e un vecchio seduto presso una cicogna, cioè l’emblema della longevità.
Li depose su un tavolo, poi usci senza aver pronunciato una parola.
– Che cosa sono? – chiese il cosacco stupito. – Dei paraventi?
– Dei biglietti di visita – rispose Fedoro, ridendo.
– Eh!… Scherzi? Questi, dei biglietti!… Buon Dio!… che portafogli usano dunque questi cinesi?
– E d’augurio anche; guarda: vi sono dipinte sugli angoli le tre principali felicità ambite dai cinesi: un erede, un impiego pubblico e lunga vita.
– Un erede!… Ma noi non siamo ammogliati, Fedoro.
– Lo diverremo forse un giorno.
– E non sognamo pubblici impieghi, almeno io.
– Accetterai almeno l’augurio di diventare vecchio.
– Ah!… Questi cinesi!…
– Taci! Il maggiordomo torna.
– Con altri biglietti di visita, forse? Fabbricheremo dei superbi paraventi, mio caro amico.
– No, con dei regali, invece. Dopo gli auguri, i presenti: è la prima luna del nuovo anno.
– Siano benvenuti.
Il maggiordomo, dopo d’aver bussato discretamente, era entrato assieme a due servi, i quali portavano un paniere di vimini adorno di nastri e di frange dorate.
– Il mio padrone prega di accettare questo in attesa di visitare gli ospiti – disse.
Rokoff levò la coperta di seta che copriva il paniere, levando successivamente dei barattoli che dovevano contenere degli unguenti preziosi, delle statuette d’avorio, delle pezze di seta, poi dei recipienti d’argento di varie forme e finalmente una superba anfora d’oro, finemente cesellata ed incrostata di pietre preziose.
– Fedoro! – esclamò. – Un regalo da sovrano. È meravigliosa! Vale una fortuna!
– Che non è destinata alle nostre tasche, Rokoff. – disse Fedoro.
– Se ce la mandano in regalo!
– Ma essendo l’oggetto più prezioso, non possiamo accettarlo.
Il cosacco lo guardò con uno stupore facile a comprendersi.
– Lo dici per scherzo? – chiese.
– Sing-Sing si degna di trattarci da amici e come tali non dobbiamo abusare della sua generosità. Che cosa vuoi, mio buon Rokoff? Siamo in Cina e dobbiamo uniformarci agli usi del paese.
– Che generosità pelosa! – gridò il cosacco sdegnosamente.
– Da negoziante e soprattutto cinese. Metti l’anfora da una parte.
– Un così bell’oggetto regalato! Se l’avessi io, mi comprerei cento cavalli, ma che dico? Parecchie centinaia. Ah! E non si mangia qui?
– Aspettiamo prima la visita di Sing-Sing. Non si farà aspettare.
Fedoro aveva pronunciato quelle parole, quando il maggiordomo entrò per la terza volta, annunciando il padrone.
Un momento dopo Sing-Sing, il più ricco negoziante di tè della capitale dell’impero, entrava nella stanza.
Speak Your Mind