Tschang-pin, più che una città, è una grossa borgata situata quasi ad eguale distanza fra Pechino e la grande muraglia, destinata un tempo a coprire la capitale dalle frequenti invasioni dei bellicosi tartari.
La popolazione, vedendo avanzarsi ed ingrandire rapidamente quell’uccello mostruoso, che probabilmente scambiava per un drago fantastico, pronto a divorare uomini, donne e fanciulli e a vomitare fuoco sulle abitazioni, in un momento aveva disertato completamente le piazze e le vie mandando urla di terrore.
Solamente alcuni drappelli di soldati, costumi azzurri a galloni giallo-aranciati, l’Impero, si erano schierati sulla cima d’un vecchio bastione, aprendo un fuoco violentissimo contro gli aeronauti.
Udendo le palle sibilare, il capitano aveva dato ordine al macchinista di innalzarsi.
Due eliche, disposte orizzontalmente ai lati del fuso e che fino allora erano rimaste mascherate, coperte da tele impermeabili, si erano subito poste in movimento, raggiungendo ben presto una velocità talmente grande da non poterle quasi più scorgere.
Lo “Sparviero”, aiutato anche potentemente dalle gigantesche ali che battevano affrettatamente, s’innalzò rapidamente raggiungendo in pochi minuti i millecinquecento metri.
Qualche palla si udiva ancora sibilare, segno evidente che quei manciù facevano fuoco con armi perfezionate, ma non erano più da temersi, perché l’alluminio del fuso era più che sufficiente per arrestarle.
– Vorrei dare una lezione a costoro – disse il capitano. – Se non temessi di uccidere delle persone inoffensive, farei vedere a quegli insolenti di quali armi formidabili noi disponiamo.
– Vorreste gettare loro addosso qualche bomba? – chiese Rokoff.
Il capitano non rispose. Guardava attentamente un bastione che si trovava al nord della città, difeso da una grossa torre quadrata, sormontata da un tetto doppio e che pareva in parte diroccata.
– Non vi deve essere nessuno là dentro, – disse – giacché è inservibile, la rovineremo del tutto. Macchinista: arresta la corsa.
– Avete anche della dinamite a bordo? – chiese Fedoro.
– Per che cosa farne? Non ho l’aria liquida a mia disposizione? Vale meglio del cotone fulminante e di tutti gli altri esplodenti finora inventati. Ora lo vedrete.
Il capitano scomparve nell’interno del fuso, passando per un piccolo boccaporto che si apriva dinanzi alla macchina e poco dopo risaliva tenendo in mano un tubo di ferro che da un parte era aperto e che si univa ad un filo attaccato a un rocchetto.
Lo “Sparviero”, trovandosi ormai fuori di tiro, avendo attraversata tutta la cittadella, scendeva in quel momento con una certa rapidità, sorretto solamente dai suoi piani inclinati che funzionavano da paracadute.
Le ali e le eliche non battevano e non giravano più.
Il fuso calava proprio sopra la vecchia torre, con un largo ondulamento, facendo fuggire precipitosamente gli abitanti delle ultime case ed i contadini che lavoravano nelle ortaglie.
Quando giunse a soli cento metri, il capitano abbandonò il tubo, lasciando svolgere rapidamente il filo del rocchetto.
– Macchinista, innalziamoci – disse, quando vide il cilindro cadere fra le tegole del tetto superiore. – Non è prudente tenersi a così breve distanza. Lo “Sparviero” risaliva rapidamente, mentre il filo continuava a svolgersi. Raggiunse i cinquecento metri, poi i settecento, quindi i mille.
I soldati manciuri, avendolo veduto abbassarsi, si erano slanciati attraverso le vie della città, sparando di quando in quando qualche colpo di fucile.
– Badate! – gridò il capitano a Rokoff e a Fedoro. – Tenetevi stretti. Do fuoco.
Quasi nel medesimo tempo una spaventosa detonazione rimbombava sotto di essi. Una fiamma immensa squarciò l’aria, lanciando in tutte le direzioni una tempesta di macigni e di rottami.
Lo “Sparviero”, quantunque si trovasse a mille metri, fu violentemente spostato dalla spinta dell’aria e sbalzato innanzi, atterrando di colpo Fedoro e Rokoff, i quali non avevano avuto il tempo di aggrapparsi alla balaustrata. Urla terribili si erano alzate dalla città, urla d’angoscia e di terrore sfuggite da venti e forse da trentamila petti.
– Ebbene, dov’è la torre e dov’è andato a finire il bastione? – chiese il capitano con voce tranquilla. – Guardate, signor Rokoff, e ditemi se l’aria liquida non vale meglio della dinamite.
Il cosacco, quantunque ancora stordito dal terribile scoppio, si era curvato sulla balaustrata. Che spaventevole disastro! La torre era scomparsa e al posto dove poco prima si elevava il bastione, si vedeva una buca immensa, come se cento mine fossero scoppiate insieme.
– Che cosa avete messo in quel tubo? – esclamò, guardando con terrore il capitano.
– Un semplice pezzo di lana immerso prima in una miscela d’aria liquida e di glicerina; null’altro.
– E avete ottenuto una simile esplosione!
– Vi sorprende?
– Voi allora potreste distruggere in pochi minuti una città intera.
– Lo credo – rispose il capitano, freddamente.
– Quale terribile strumento di guerra è il vostro “Sparviero”! Guai se tutte le nazioni dovessero possederne alcuni!
– Verrà il giorno che ne avranno; allora la guerra sarà finita per sempre, ammenoché non pensino a corazzare le città minacciate. Macchinista a tutta velocità! Andremo a dormire al di là della grande muraglia.
Lo “Sparviero” aveva ripreso lo slancio muovendo direttamente verso il nord, dove si vedevano delinearsi in lontananza alcune catene di montagne, assai frastagliate.
Il suolo s’innalzava gradatamente, interrotto da boschetti di giuggioli, che producono una specie di dattero, da cui i cinesi estraggono una bella tinta gialla; da lauri splendidissimi e da lunghe file di alberi del sevo, bellissimi vegetali dal fogliame verde chiaro e cosparse di mazzetti di bacche che sono ricoperte da una sostanza molto grassa dalla quale si estrae una specie di cera assai bianca, che produce una fiamma brillante e che surroga benissimo quella delle api.
Di quando in quando si vedevano anche delle piantagioni di tabacco, che riesce molto bene nella Cina settentrionale, di cotone che produce un filo splendido adoperato nella fabbricazione del famoso Nanking, e d’indaco verde.
Graziosi villaggi, seminascosti sul margine dei boschi o delle piantagioni, apparivano bruscamente ed allora era uno scompiglio fra i contadini.
Gli uomini urlavano, le donne piangevano, i ragazzi fuggivano disordinatamente, nascondendosi fra le piante, ma si rassicuravano presto, perché il terribile mostro alato continuava la sua corsa gareggiando vantaggiosamente cogli aironi che s’alzavano fra le risaie, coi beccaccini, colle oche selvatiche e cogli immensi stuoli di corvi gracchianti.
Qualche colpo di fucile, sempre inoffensivo, sparato dietro qualche folto cespuglio o presso qualche capanna salutava di quando in quando gli aeronauti. II maldestro bersagliere s’affrettava però a fuggire all’impazzata, per paura che il formidabile drago lo facesse a pezzi col suo rostro.
Alle sei di sera lo “Sparviero”, che s’affrettava sempre, solcando lo spazio con una velocità di trenta miglia all’ora, si librava sopra la grande muraglia cinese.
Questa gigantesca opera, che per molti secoli fu creduta immaginaria, è una delle più colossali e anche delle più meravigliose, perché si estende ininterrottamente per ben seicento leghe, ossia per duemila miglia, attraverso deserti, a steppe, a montagne e a fiumi dal largo corso, quali l’Hoang-ho, svolgendosi attraverso le più selvagge regioni della Mongolia e del Kuku-noor.
Il primo imperatore che ne concepì l’idea fu Tsing-chi-hoang-ti, il secondo della dinastia dei Tsin.
Vedendo succedersi le invasioni dei tartari, i quali ogni anno mettevano a ferro e a fuoco i confini dell’Impero, tutto distruggendo sul loro passaggio, ordinò di chiudere i passi pei quali quei bellicosi predoni entravano in Cina.
I principi, che soffrivano assai da quelle scorrerie, ne imitarono l’esempio e la grande muraglia sorse, scorrendo attraverso regioni deserte e spingendosi perfino su monti quasi inaccessibili.
Vista dalla parte del territorio cinese, questa grande muraglia parrebbe una costruzione semplicissima di terra battuta, coronata da merlature e da torri; osservandola invece dal lato esterno si presenta solidissima, piantata su larghi basamenti di pietra che i secoli non hanno potuto ancora danneggiare.
In certi luoghi, reputati allora pericolosi, si innalza per venti e anche venticinque piedi ed è tanto larga che potrebbero avanzarvisi sei cavalli di fronte; ed in altri invece è molto più bassa. In tutta la sua lunghezza è guardata da massicce torri di forma quadrata e da fortezze nelle quali, ai tempi delle invasioni tartare, vi potevano stare perfino un milione di combattenti. Oggidì però, che la Mongolia è sottomessa all’impero, la muraglia non offre più la compattezza d’una volta. Vasti tratti sono stati lasciati a rovinare e i posti di guardia sono rari, eccettuato nel tratto settentrionale, destinato a coprire la provincia di Pechino.
– Non credevo che fosse ancora in così buono stato – disse il capitano, nel momento in cui lo “Sparviero” la superava, tenendosi a un’altezza di trecento metri. – Si vede che i cinesi erano maestri in fatto di costruzioni.
– E che torri poderose – disse Rokoff, il quale guardava con viva curiosità quelle solide bastionate.
– Ma che soldati paurosi – aggiunse Fedoro. – Vedo là alcune guardie che fuggono come se avessero le ali ai piedi. Queste non valgono i manciù di Tschang-pin.
Un gruppo di montagne, non troppo alfe e dai fianchi boscosi, si estendeva al di là della grande muraglia.
Il capitano le indicò al macchinista, dicendo:
– Andremo a riposarci lassù; nessuno verrà di certo a disturbarci.
– Prenderemo terra? – chiese Fedoro, meravigliato.
– E perché no? – rispose il capitano. – “La notte è stata creata per dormire” dicono i cinesi, e quando il sole tramonta tutti gli uccelli interrompono i loro voli e si cercano un rifugio. Noi, che siamo i figli dello “Sparviero”, faremo altrettanto, signore. Il paese d’altronde mi sembra deserto e le guardie della muraglia non oseranno venirci a cercare.
Lo “Sparviero”, aiutato dalle due eliche orizzontali, s’innalzava gradatamente, volando sopra folte boscaglie di pini, di querce e di lauri, e a profondi burroni in fondo ai quali si udivano scrosciare impetuosi torrenti.
Giunto sulla prima vetta, che appariva piana e ingombra solamente di cespugli assai bassi, che l’oscurità non permetteva bene di discernere, descrisse un ampio giro, poi cominciò ad abbassarsi lentamente, tenendo le immense ali alzate e lasciando solamente funzionare le eliche orizzontali.
Cinque minuti dopo il fuso si coricava dolcemente fra le piante, senza alcuna scossa.
– Ditemi se con un aerostato si sarebbe potuto discendere in questo modo – disse il capitano.
– No, signore – risposero a una voce Fedoro e Rokoff.
– Ciò vuol dire, dunque, che il mio “Sparviero” è superiore a tutti i palloni più o meno dirigibili e a tutte le macchine volanti finora inventate.
– Dobbiamo ammetterlo senza riserve – disse Rokoff, con entusiasmo.
– Verrete con me? Mi annoiavo di essere solo o quasi.
– Non vi lasceremo, se così vi piace.
– Macchinista, accendi il fuoco in mezzo a questi cespugli profumati e preparaci un buon pranzo. Abbiamo ancora alcune bottiglie di brodo di coda di canguro che abbiamo preparato in Australia e che ci daranno una zuppa eccellente.
– Del brodo che viene dall’Australia! – esclamò Fedoro.
– Gelato a quaranta gradi sotto zero – rispose il capitano, ridendo. – Sarà squisito, ve lo assicuro, quantunque messo nella mia ghiacciaia venticinque giorni or sono. Abbiamo anche dei pasticci, della carne di montone, del bue, dei puddings e anche dello champagne, che salterà ben alto. Ah! Sapete signori dove si è adagiato il mio “Sparviero”? In mezzo a una piantagione di tè! Signor Fedoro, voi sapete di certo prepararlo. Ne faremo una buona provvista, visto che i cinesi non vogliono lasciarci avvicinare.
Mezz’ora dopo i quattro aeronauti, seduti presso un allegro fuoco, essendo la temperatura assai fredda, cenavano con un appetito invidiabile, facendo buona accoglienza alla zuppa di coda di canguro, ad un pasticcio di gamberi preparato chissà in quale città dell’America o dell’Australia, a un cosciotto di montone e a un superbo grappolo di banane ottimamente conservate.
Il capitano fece servire dell’eccellente vino di California, poi una bottiglia di champagne, il cui vetro era incrostato di ghiaccioli.
– Signor Rokoff – disse il comandante, messo in buon umore da quel delizioso vino bianco. – È l’aria delle alte regioni o la mia tavola che vi mette in appetito?
– L’una e l’altra – rispose l’ufficiale, che aveva divorato per due e che da vero cosacco faceva gli occhi dolci a una veneranda bottiglia di whisky recata dal macchinista. – Voi, signore, avete una dispensa ammirabile.
– Che cercheremo di vuotare presto per rinnovarla con qualche cosa di meglio. Entriamo in una regione ricca di selvaggina e il mio macchinista è un cuoco famoso.
– Siete anche cacciatore?
– Mi vedrete presto, alla prova. Nel deserto di Gobi gli yacks selvaggi abbondano e anche le lepri sono numerose. Faremo delle belle battute.
– Attraverseremo il deserto?
– Tale è la mia intenzione.
– E poi? – chiese Fedoro.
– Il Tibet mi tenta colle sue montagne spaventevoli, coi suoi altipiani immensi, coi suoi lama e il suo Buddha vivente. Tutto però dipende da certe circostanze.
– E quali, se è lecito conoscerle?
Il capitano, invece di rispondere, caricò flemmaticamente la sua pipa, l’accese, poi cambiando bruscamente tono, disse:
– Signor Fedoro, voi che dovete aver viaggiato molto pei vostri commerci, siete mai stato a Kiakta?
– No, signore – rispose il russo.
– Meglio così – mormorò il capitano.
– Perché dite questo?
– Ah! Voi conoscete molto bene la preparazione del tè?
– Ma… – disse Fedoro, sorpreso da quel continuo cambiamento di discorso.
– Come negoziante…
– Questo è vero.
– Ne troveremo da raccogliere in questa piantagione?
– Uhm! Ne dubito, capitano. La stagione è ancora troppo fredda.
– Mi rincrescerebbe, perché la mia provvista è finita ed i cinesi non vogliono saperne di avvicinarsi a noi.
– In tutte le case se ne trova qui – disse Rokoff. – Mi hanno detto che il cinese rinuncia piuttosto al riso anziché al tè.
– E che cosa volete concludere?
– Che la prima fattoria che troveremo la metteremo a sacco – rispose Rokoff. – Da noi si fa così, quando i soldati mancano del necessario.
– È vero – disse il capitano, sorridendo. – Mi dimenticavo che voi siete cosacco. Signori, è tardi e le nostre cabine hanno dei buoni letti.
– Andremo a dormire a bordo? – chiese Fedoro.
– Ah! Voi non avete ancora veduto l’interno della mia aeronave. Macchinista, una lampada.
– E vi fidate a dormire senza sentinelle?
– Chi volete che di notte vada a passeggiare sulle montagne? Andiamo. Prese la lampada che il macchinista aveva acceso e condusse i suoi ospiti a bordo, facendoli scendere pel piccolo boccaporto situato dinanzi alla macchina. L’interno dell’immenso fuso di metallo era disposto con cura estrema e anche con molto lusso.
Vi era un bellissimo salotto lungo quattro metri e largo quanto l’intera aeronave, due gabinetti da toletta, quattro cabine con soffici letti e un salottino da lavoro ingombro di carte geografiche e di strumenti di varie specie.
Le due estremità erano occupate dalle ghiacciaie riboccanti di viveri d’ogni specie e dalle macchine destinate alla riproduzione dell’aria liquida.
– Buona notte. – Domani faremo una lunga volata al disopra del Gobi e andremo a pescare le trote nei laghetti del Caracorum.
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