Trentasei ore dopo lo “Sparviero”, superato l’ultimo tratto dello Sciamo meridionale e attraversata l’imponente catena degli Aliyn-tag, entrava nel Tibet per un passo del Tokusdeban-geb, librandosi su quegli sterminati e spaventevoli altipiani, sferzati dai gelidi venti del settentrione.
Misterioso paese il Tibet, noto da moltissimi secoli eppur chiuso anche oggidì agli europei, di cui ben pochi, e sfidando ad ogni passo la morte, vi poterono penetrare per studiare la religione dei potentissimi Lama e dei Buddha viventi.
Questa immensa regione che occupa il centro dell’Asia, chiusa fra aspre montagne quasi prive di passaggi e altipiani deserti dove gli uomini a malapena possono vivere, e che al nord confina colla Mongolia, al sud colla enorme catena dell’Himalaya, all’est colla Cina e coll’Alta Birmania e all’ovest col Pamir e col Turkestan, è il più orribile paese che immaginare si possa.
Non è che una serie d’altipiani, per la maggior parte dell’anno coperti di neve e spazzati da venti che screpolano la pelle degli abitanti, e d’un’aridità spaventosa; di montagne che lanciano le loro vette ad altezze enormi e che alimentano coi loro ghiacciai i più giganteschi fiumi dell’India, della Birmania e del Siam; di burroni, di gole, di abissi, di creste, di punte e di antichi vulcani. Solamente nelle sue parti meridionali possiede vallate e altipiani che godono un po’ di fertilità ed un clima meno aspro, tanto da permettere la coltivazione di alcuni cereali e l’allevamento di montoni e di cammelli.
La settentrionale e la centrale sono invece un deserto e più arido del Sahara e dello Sciamo.
Eppure le acque non mancano, tutt’altro! Fiumi scorrono da tutte le parti, ma incassati fra gole selvagge e fra rupi scoscese e spaventose ed i laghi sono del pari abbondanti, laghi celebri, perché è intorno ad essi che s’innalzano i più famosi monasteri dei Lama, che ogni anno attirano a migliaia e migliaia i pellegrini provenienti dall’India, dalla Cina, dalla Mongolia, dalla Birmania e dal Siam, intraprendendo viaggi che spaventerebbero i più audaci esploratori europei.
Il Tibet è la culla del buddismo, religione vecchia quanto quella di Brahma, di Sivah e di Visnù, che conta milioni e milioni di seguaci sparsi su tutta l’Asia e dove ancora si possono vedere dei Buddha viventi, incarnazioni del Dio che non è ancora morto.
È là, fra quelle misteriose montagne, che vivono il Gran Lama, l’immortale ed il Dalai Lama, il suo pontefice; è là, che si conservano nei monasteri del Tengri-Nor, il lago sacro, le più antiche reliquie della religione; ed è là che si trovano ad ogni passo le vestigia del grande illuminato fuggito da Ceylon per ripararsi fra quegli altipiani inaccessibili a predicare ai popoli la novella religione.
E poi è anche pur là che sorge il Kalas degl’indiani, l’enorme piramide che ha la forma d’una pagoda rovinata, la dimora del Mahabeo o Gran Dio, il primo e il più fiero degli Olimpi; la montagna sacra che ha veduto risplendere per la prima la luce abbagliante della divinità e che secondo la leggenda ha quattro facce: una d’oro, la seconda d’argento, la terza di rubini e la quarta di lapislazzuli e dove fu costruito il primo tempio buddista due secoli innanzi l’era cristiana.
Montagna divina, dai cui fianchi scendono i più sacri fiumi dell’India: il Gange, l’Indo, il Tsangbo e il Satlegi e dalle cui caverne sono usciti i quattro animali più famosi e più venerati: l’elefante, la vacca, il leone e il cavallo, simbolo dei quattro corsi d’acqua reputati sacri.
Il cosacco, il russo e anche il capitano, nel vedere stendersi dinanzi a loro quella misteriosa regione e quegli altipiani che pareva non avessero più fine, avevano provato una viva commozione.
– Non so se sia quest’aria fredda o lo squallore di questo deserto, mi sento scombussolato – aveva detto Rokoff. – Che sia la rarefazione dell’aria?
– Può essere – aveva risposto il capitano. – Noi ci troviamo già a quattromila metri sul livello del mare e continuiamo ad innalzarci. Non sarei sorpreso, se procedendo, vi cogliessero delle nausee.
– Che paese orribile! Non si vedono che montagne, neve e ghiacciai: burroni e gole e abissi che sembrano senza fondo. Buddha non doveva trovarsi troppo bene in questi luoghi e doveva rimpiangere sovente la dolce temperatura della sua verdeggiante Ceylon.
– E gli abitanti, dove sono? Non vedo una capanna, né una tenda in alcun luogo.
– Non ne vedremo tanto presto, signor Rokoff. Chi potrebbe vivere in questo orribile deserto? Solamente nel cuore dell’estate, delle bande di briganti si radunano nelle gole in attesa del passaggio dei pellegrini mongoli che si recano a visitare i monasteri del lago Tengri-Nor per gettare in quelle acque, ritenute sacre, le ceneri dei loro più celebri capi.
– Perché vadano più presto nel nirvana di Buddha? – chiese Fedoro.
– Tale è la loro credenza – rispose il capitano.
– Gl’indiani le gettano nel Gange ed i tibetani nel Tengri-Nor.
– Sì, signor Fedoro. Qui d’altronde la religione di Brahma e di Budda si fondono, perché anche gl’indiani intraprendono dei lunghi pellegrinaggi nel Tibet essendovi qui il loro monte sacro, il Merù dei loro antichi, che riguardano come il pistillo del simbolico fiore del loto che per loro rappresenta il mondo.
– Ma cos’è quel cono immenso che si rizza laggiù tutto bianco e coi fianchi coperti di ghiacciai? – chiese Rokoff, additando un’immensa piramide che spiccava vivamente sul purissimo orizzonte.
– Il Kremli, un masso di seimila metri d’altezza che serve per le sepolture celesti – rispose il capitano.
– Portano lassù i morti?
– No, le sole ossa dei più famosi capi reputati degni della sepoltura celeste, invece di quella terrestre. Quelle ossa devono prima venire polverizzate, quindi convertite in pillole per darle da mangiare alle aquile.
– Le quali devono portarle in cielo, secondo la credenza dei tibetani.
– Sì, signor Rokoff.
– E la sepoltura terrestre in che consiste allora? – chiese Fedoro.
– È un po’ diversa e meno onorifica, dovendo avere per feretro il ventre dei cani e dei lupi. Il morto, dopo essere stato lasciato sospeso per sette giorni ad un angolo della sua casa, rinchiuso in un sacco di pelle, si taglia a pezzi e si porta su una cima qualunque a pasto dei cani.
– E se invece lo mangiano gli avvoltoi? – chiese Rokoff, ridendo.
– Tanto meglio perché, a dispetto dei Lama, andrà più presto in paradiso.
– Che strane cose – disse Fedoro.
– Sono cose da pazzi – soggiunse Rokoff. – Capitano, andremo a visitare anche la capitale del Tibet.
– Vi passeremo sopra senza fermarci. I Tibetani non amano gli stranieri e, se ci prendessero, sarebbero capaci di farci fare una brutta fine, in fondo a qualche sotterraneo pieno di scorpioni.
Lo “Sparviero” si librava su quegli sterminati e spaventevoli altipiani…
– Che cosa dite? – chiese Fedoro.
– È così che fanno morire i loro prigionieri, quando non preferiscono invece squartarli e darli da mangiare ai selvaggi di U.
– Speriamo di non lasciarci prendere.
– Non ci abbasseremo che nei luoghi assolutamente deserti. Qui non corriamo alcun pericolo, essendo questi altipiani spopolati, ma al sud, nella regione dei laghi, nelle profonde valli dello Tschans-tschu, dovremo usare molta prudenza. I Lama non scherzano e non tollerano gli europei nel loro paese. Ecco il grande altipiano.
– E il freddo che aumenta – disse Fedoro.
– E crescerà sempre più – aggiunse il capitano. – Indossiamo i nostri vestiti d’inverno e riscaldiamo il fuso. L’aria liquida è buona nei paesi caldi, non qui.
Lo “Sparviero” che s’innalzava sempre, aveva raggiunto una altezza di cinquemila metri sul livello del mare, per poter raggiungere il margine dell’immenso altipiano e non bastava ancora perché più al sud si vedevano delinearsi catene di montagne ben più alte, che formavano una barriera gigantesca.
Il panorama che s’offriva agli sguardi degli aeronauti era d’una bellezza selvaggia e insieme spaventevole.
Pareva che da un momento all’altro fossero piombati sulle sterminate pianure della Groenlandia o fra le orribili montagne dell’Islanda.
Era un caos di pianure che s’alzavano in forma di gradinate mostruose, intersecate da abissi, da spaccature, da gole o da piramidi colossali che pareva dovessero toccare il cielo.
Tutto era bianco per la neve caduta, d’un candore immacolato, che feriva crudelmente gli occhi i quali non potevano sopportare tutto quello splendore. Qua e là dei ghiacciai giganteschi, scintillavano come diamanti di dimensioni esagerate, rovesciando lentamente i loro fiumi di ghiaccio nei profondi burroni dove si scioglievano a poco a poco, alimentando torrenti che più tardi dovevano tramutarsi in corsi d’acqua d’una mole e d’una lunghezza infinita e riversarsi verso l’India, verso la Mongolia, verso il Turkestan e nelle fertili vallate dell’impero cinese.
Un vento freddissimo, che faceva vibrare le ali dello “Sparviero” e che fischiava e ruggiva fra i piani inclinati, soffiava tratto tratto, imprimendo all’aerotreno delle brusche scosse. Era così secco che le carni degli aeronauti si raggrinzivano e che le labbra si screpolavano.
Quando le raffiche diventavano più impetuose, sollevavano gli strati nevosi, scombussolandoli, alzandoli ed abbattendoli, facendoli turbinare in mille guise e formando talvolta delle vere trombe di neve che raggiungevano anche lo “Sparviero”, facendolo roteare su se stesso, nonostante le battute precipitose delle ali.
Poi d’un tratto i fischi ed i muggiti cessavano, le nevi ricadevano, il silenzio tornava sull’immenso altipiano, un silenzio pauroso che produceva una profonda impressione sugli animi degli aeronauti, come se fosse foriero di qualche improvvisa catastrofe.
D’un tratto sordi fragori si propagavano nelle vallate e negli abissi, fragori che aumentavano rapidamente d’intensità. Erano valanghe che si staccavano dalle cime dei picchi, che rotolavano di scaglione in scaglione per poi inabissarsi, con orrendo frastuono, nelle profonde spaccature che s’aprivano in tutte le direzioni.
– Che paese orribile! – esclamò Rokoff, il quale, dopo essersi ben coperto con pellicce dategli dal capitano, aveva ripreso il suo posto a prora del fuso. – Non credevo che ne esistesse uno simile. E quanto durerà?
– Non meno di tre giorni – rispose il capitano. – Ho impresso al mio “Sparviero” la maggior rapidità possibile, ma la distanza da attraversare è enorme e poi questo vento ci ostacola la corsa.
– Non finirà per produrre qualche guasto alle nostre ali?
– Si riaccomoderanno – rispose il capitano.
– Che brutto momento se la vostra macchina si dovesse immobilizzare in mezzo a questi altipiani.
– È d’una robustezza eccezionale e non si guasterà, signor Rokoff. Noi compiremo felicemente la traversata del Tibet e caleremo nell’India.
– Nell’India? – esclamarono a una voce Rokoff e Fedoro. – Non andremo più verso l’oriente?
– No, signori – rispose il capitano, mentre la sua fronte si abbuiava. – In seguito a circostanze impreviste, sono costretto a mancare alla mia promessa. La nostra rotta sarà il Bengala, dove voi potrete trovare subito qualche nave in partenza per l’Europa. In una ventina di giorni sarete a Odessa.
– Avete comunicato con qualcuno durante il nostro viaggio? – chiese Fedoro.
– No, non avendo amici nell’Asia centrale. La mia presenza è reclamata in altri paesi dove voi non potrete seguirmi, quantunque con molto rincrescimento da parte mia, avendo imparato ad apprezzarvi e stimarvi come due veri amici.
– Questa vostra improvvisa risoluzione mi stupisce, capitano.
– Non dipende da me, bensì da quell’uomo che voi avete trovato a bordo del mio “Sparviero” dopo la pesca delle famose trote del Caracorum. Egli non può seguirmi in Europa.
– Per quale motivo?
– Vi prego di non chiedermi alcuna spiegazione su ciò. Ah! Guardate come la catena dei Fschong-kum-kul scintilla! È meravigliosa! E dietro vi sta il lago, un bel bacino che fra poco vedremo. Macchinista, alziamoci ancora o andremo a infrangerci contro quei picchi.
Come soleva far sempre, quando non desiderava dare spiegazioni, il capitano aveva bruscamente cambiato discorso, approfittando della comparsa di quelle montagne che parevano sorte improvvisamente sull’altipiano. Fedoro e Rokoff ritennero inopportuno insistere su quel discorso, rivolgendo tutta la loro attenzione sull’imponente panorama che si estendeva dinanzi ai loro sguardi stupiti.
L’altipiano cambiava, alzandosi rapidamente in scaglioni sempre più giganteschi, i quali andavano ad addossarsi agli Fschong-kum-kul. Non vi erano più né spaccature, né burroni, né gole, ma il terreno appariva tormentato come se un formidabile terremoto lo avesse sconvolto.
Si vedevano enormi rupi rovesciate e spezzate, ammassi sterminati di macigni, crateri di antichi vulcani coi margini franati, avvallamenti strani, poi bacini coperti di ghiacciai, veri mari di luce che abbagliavano gli occhi con tale intensità, da non poterli guardare più d’un minuto.
Al sud, la catena ingigantiva rapidamente. Era un caos di piramidi e di guglie, bianche di neve, che si slanciavano arditamente verso il cielo come se volessero traforarlo, solcate qua e là da spaccature che dovevano avere delle dimensioni straordinarie.
Lo “Sparviero” aveva incominciato a risalire, potentemente aiutato dalle eliche orizzontali, le quali funzionavano vertiginosamente intanto che le due immense ali battevano colpi precipitati.
La respirazione cominciava a diventare penosa per tutti, anche pel capitano, che pur doveva essere abituato alle grandi altezze.
Provavano dei capogiri, delle nausee, dei ronzii agli orecchi e un’estrema debolezza.
Era il male delle montagne, prodotto dalla estrema rarefazione dell’aria, ben noto agli alpinisti e soprattutto agli abitanti della catena delle Ande, che lo chiamano il puna.
– Capitano – disse Rokoff – che cosa succede? Mi sembra di essere ubriaco e che il mio stomaco provi il mal di mare.
– E a me pare di soffocare – disse Fedoro – sento il cuore e le tempie battere precipitosamente, mentre invece la testa mi sembra che venga stretta da un cerchio di ferro.
– Siamo a settemilacinquecento metri, signori miei – rispose il capitano dopo aver osservato i barometri sospesi alla balaustrata. – A simili altezze l’aria è quasi irrespirabile, però le vostre nausee cesseranno subito appena avremo varcato quella catena di monti e torneremo ad abbassarci.
– Soffrono anche gli animali portati a simile elevazione?
– Più degli uomini, signor Rokoff, e infatti su questi altipiani non vedete né cammelli, né montoni e nemmeno jacks. Si gonfiano, perdono le forze, la loro respirazione diventa affannosa e bruciante e sovente cadono al suolo fulminati.
– Ci innalzeremo ancora?
– No, non sarebbe prudente; l’asfissia potrebbe manifestarsi, o per lo meno avvenire delle emorragie al naso e agli orecchi, che è meglio evitare.
– Avete mai superato queste altezze? – chiese Fedoro.
– Ho potuto raggiungere i diecimila metri, facendo uso di serbatoi d’ossigeno, eppure non ritenterei la prova. Volevo provare ad attraversare tutto lo strato d’aria che circonda il nostro globo.
– Per giungere alla luna? – chiese Rokoff, ridendo.
– No, per vedere il sole violetto.
– Violetto!… Che dite mai, signore?
– E che, anche voi credete che il sole sia giallo come noi lo vediamo ora?
– Io non l’ho mai veduto cambiare colore, capitano.
– Nemmeno io, eppure non è giallo e se non esistesse intorno al nostro globo la massa d’aria, tutto il mondo diventerebbe, almeno di giorno, violetto.
– Questa è grossa!
– Può sembrarvi tale; eppure, dopo gli ultimi studi e le ultime e più diligenti osservazioni fatte dagli scienziati europei ed americani, non vi è più da dubitare, signor Rokoff, per quanto la cosa possa parervi inverosimile. Se si squarciasse la nostra atmosfera, che è un velo ingannevole che fa ostacolo alla vista vera, si vedrebbero delle cose spettacolose che prima non si supponevano esistere. Togliete l’aria e con vostro grande stupore vi apparirebbe il cielo, anche in pieno meriggio, non più azzurro come lo vedete ora, bensì nero come il fondo d’una botte di catrame e al sommo di quell’abisso tenebroso vedreste fiammeggiare un. grande astro del più bel violetto e che altro non è se non il nostro sole.
– Il cielo nero?
– Sì, signor Rokoff.
– E perché ci appare invece azzurro?
– In causa delle rifrazioni della nostra atmosfera, la quale è satura ormai di luce, di vapori, di miriadi di germi erranti e di polveri impalpabili. Langley, il segretario dell’Istituto Smithsoniano degli Stati Uniti, e Su, il famoso astronomo dell’osservatorio di Washington, l’hanno ormai luminosamente provato.
– E come mai i raggi del sole ci appaiono gialli?
– Perché oltre alle fiamme violette, ne ha pure di gialle e siccome queste sono le più lunghe e hanno una maggiore estensione ci giungono prima. Quando le violette arrivano, le prime hanno già saturata la nostra atmosfera.
– Sicché anche gli altri astri, che a noi sembrano d’oro più o meno giallo o rossiccio, avranno invece tinte diverse.
– Sì, signor Rokoff. La stella Scorpione, per esempio, è d’un rosso fiammeggiante, mentre la sua vicina, che le tiene compagnia, è un piccolo sole verde pallido! Sirio invece è d’un viola oscuro; la Beta della costellazione del Cigno è pure violetta, mentre la sua compagna è giallo-pallido.
– Deve essere però enorme il nostro sole per sprigionare tanto calore.
– Un milione e duecentocinquantamila volte più grosso della terra, signor Rokoff.
– Che meschina figura farebbe il nostro globo.
– E altrettanto meschina la farebbe il sole messo a fianco di Acturus, il re dei soli, che espande pel cielo cinquemila volte più luce e calore dell’astro che ci illumina – disse il capitano.
– Eppure anche il nostro sole deve produrre del calore in quantità enorme – disse Fedoro.
– Tanto che nel solo spazio d’un secondo potrebbe, se accumulato, portare al grado di ebollizione cinquecento milioni di chilometri cubi di ghiaccio.
– Misericordia! – esclamò Rokoff. – Mi pare di sentirmi cucinare malgrado quest’aria gelata che mi fa scoppiare la pelle del viso.
– Ma allora il nostro globo non deve ricevere che una piccola parte del calore che irradia il sole – disse Fedoro.
– Una quantità infinitesimale – rispose il capitano. – Diversamente, la nostra terra da migliaia d’anni sarebbe stata abbruciata e ora non sarebbe più che un semplice carbone.
– Capitano, non vi è pericolo che il sole possa aumentare la massa di calore che ci manda?
– Se si deve credere agli scienziati, il calore del sole non ha ancora raggiunto il suo massimo sviluppo, anzi continuerebbe ad aumentare per sette od ottocentomila anni, poi dovrebbe succedere un periodo di ristagno e quindi di decadenza, perché l’astro finirà col consumarsi.
– E che cosa avverrà, quando comincerà a raffreddarsi, per la nostra umanità? – chiese Rokoff.
– Se non l’avrà abbruciata prima di giungere a quel periodo, tristi giorni dovranno passare gli abitanti del nostro globo. La terra, non più riscaldata, diverrà infeconda, anche in causa del continuo ritirarsi dei fuochi centrali; le sue estremità si copriranno di ghiaccio e i poli invaderanno a poco a poco l’America e l’Australia. I popoli saranno costretti a radunarsi sotto l’equatore, finché suonerà anche per quelle regioni l’ora fatale.
– Capitano, ora mi fate rabbrividire pel freddo – disse Rokoff. – Mi pare di trovarmi rinchiuso in un monte di ghiaccio. Mi sento venire la pelle d’oca pensando a quei giorni.
– Serbate i vostri brividi per altre occasioni – disse il capitano ridendo. – Fra dieci, o venti, o centomila secoli non vi saremo più, state sicuro. Lasciate quindi che tremino i nostri tardi pronipoti. Signori, passiamo la catena! Badate alle nausee!
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