Un uomo sepolto vivo

Quando Rokoff e Fedoro, dopo una tranquilla dormita, uscirono dal fuso, videro il capitano che stava esaminando attentamente le piante del tè che coprivano tutta la sommità della montagna, prolungandosi anche lungo i fianchi, fino al margine dei boschi.

Era una splendida piantagione, tenuta con somma cura, composta di migliaia e migliaia di piante, coperte da ammassi di paglia per ripararle dal freddo notturno. Le ricerche del capitano dovevano però essere vane, perché le foglioline non erano peranco spuntate. I rami avevano appena cominciato a mettere le gemme le quali non dovevano svilupparsi che molto più tardi. Quelle piante erano tutte basse e somigliavano a cespugli, alti appena un metro od un metro e mezzo.

– Ebbene signore, avete fatto la vostra raccolta? – chiese Fedoro, ridendo.

– Nemmeno una foglia – rispose il capitano, facendo un gesto desolato.

– Ve lo avevo detto che era troppo presto.

– Eppure mi avevano assicurato che anche in questa stagione si fa raccolta.

– Nelle provincie meridionali e non qui, signore. Nella Cina settentrionale si comincia nell’aprile, mai prima, poi si fa la seconda raccolta nel maggio, quindi nel luglio, poi in agosto che è l’ultima, ma anche quella che dà una qualità più scadente.

– È la prima che fornisce la qualità migliore?

– Sì, capitano, essendo allora le foglie piccole, coperte ancora da una leggera peluria, però è la meno abbondante.

– E le foglie non subiscono qualche operazione prima di essere messe in commercio? – chiese Rokoff.

– Anzi molte – rispose Fedoro. – Appena raccolte si espongono all’aria ed al sole per parecchie ore, entro canestri di bambù, poi si pongono entro padelle di ferro e si torrefanno leggermente, mescolandole e spremendole con forza, onde ne esca tutto il succo che contengono.

Si mettono quindi in vassoi, lasciandovele per qualche tempo, poi una nuova torrefazione a lento fuoco che si ripete varie volte, quindi si fa la scelta.

– E perché? – chiese il cosacco.

– Non tutte le foglie sono uguali, quindi si creano vari tipi di tè che sono più o meno pregiati. Il verde, che ha invece una tinta un po’ azzurrognola è il migliore e si profuma con fiori d’arancio, con mo-li che sono una specie di gelsomini, con rose di tsing-moi e con kwei-hoa che assomigliano alle nostre gardenie.

Questo tè si chiama shang-hiang ed è il più pregiato. Vi sono poi altre specie: il tè nero di Bohea, il pekoe ossia dei capelli bianchi perché le sue foglie hanno una leggera peluria; il kiai-shan, e l’yang-lin-tung, poi il ma-chu o perla di canape e finalmente il tha-chia o fiore di perla.

– Io ho udito vantare una qualità che non avete nominato – disse il capitano.

– Il “tè polvere da cannone” è vero?

– Sì, signor Fedoro.

– Che strano titolo – disse Rokoff. – Forse che somiglia alla polvere?

– È uno dei migliori e la sua preparazione è lunga e non facile – disse Fedoro. – Per ottenerlo bisogna prima far seccare del tè nero, poi arrotolarlo colle mani e coi piedi, quindi torrefarlo in un piatto esposto ad un fuoco vivo di carbone di legna. Ciò fatto, si stende su bacili di bambù e lo si pulisce del tritume e delle code, quindi si chiude in sacchetti di tela che vengono calpestati e rotolati in tutti i sensi e per parecchie ore, da vigorosi facchini. Ridotto in granelli, si passa in setacci di varie grossezze, quindi subisce un’ultima torrefazione.

– Con tutto ciò noi non avremo il piacere di bere né una tazza di “polvere di cannone”, né di tè comune – disse il capitano. – Bah! Andremo a chiederne ai nomadi del deserto.

Stava per tornare allo “Sparviero”, quando verso il margine della foresta si udirono dei canti monotoni.

– To’! – esclamò il capitano, arrestandosi. – Vi sono degli abitanti qui?

– Ecco una bella occasione per rinnovare la vostra provvista di tè – disse Rokoff.

– Quale accoglienza ci faranno? Voi che siete ancora vestiti da cinesi non avrete nulla da temere, ma io?

– Ci armeremo ed in caso di pericolo ci ripiegheremo sullo “Sparviero” e riprenderemo il volo.

– Macchinista, dei fucili e tieni la macchina pronta – disse il capitano. – Dopo tutto non ci mangeranno.

Intanto i canti, sempre più monotoni, continuavano verso il bosco e si udivano delle donne gridare lamentosamente.

Il capitano ed i suoi ospiti si armarono di fucili Mauser portati dal macchinista e attraversarono la piantagione di tè, avanzando però con prudenza.

L’odio contro gli stranieri non doveva essersi ancora estinto, essendo troppo recente la presa della capitale da parte delle truppe europee ed americane e l’espugnazione sanguinosa di Tient-Tsin. Non bisognava quindi fidarsi troppo dei coduti figli del Celeste Impero, specialmente in una regione così lontana ormai da Pechino.

– Pare che piangano – disse il capitano, fermandosi presso i primi pini. – Che abbiano fumato troppo oppio?

– Si vedono – disse Rokoff, il quale si era avanzato d’alcuni passi.

– Non sono che una ventina di persone e le donne formano la maggioranza. Non avremo quindi da temere un attacco da parte loro.

– Che cosa fanno? – chiese Fedoro.

– Non lo so.

– Venite – disse il capitano.

Dinanzi a loro si estendeva una roccia, la quale dominava un burrone coperto da pini e da grosse querce.

Il capitano e i suoi amici si arrampicarono sulla rupe, tenendosi nascosti fra fitti cespugli di noccioli selvatici.

In quel momento s’inoltrava nel burroncello una strana processione, la quale si dirigeva precisamente verso la roccia, dove si vedeva una buca che pareva scavata di recente.

Precedevano due cinesi che all’aspetto parevano due contadini, essendo coperti di grossolane vesti di cotone e sulle spalle portavano una cassa adorna di dorature e di qualche scultura.

A pochi passi seguiva un uomo d’aspetto ributtante, col viso privo del naso, colle labbra orrendamente contorte e le mani atrocemente incancrenite e coperte da pustole. Indossava una bella zimarra di seta azzurra a risvolti rossi, con grandi fiori gialli, aveva ai piedi zoccoletti che parevano nuovi, con alta suola di feltro e sul capo una specie di calotta di seta rossa, adorna di fiocchi. Dietro venivano alcuni uomini e parecchie donne le quali salmodiavano dei versetti.

– Ma questo è un funerale – disse Fedoro, stupito.

– Brutto incontro – disse Rokoff, facendo una smorfia.

– Io credo che v’inganniate, signor Fedoro – osservò il capitano. – Non vedete che il feretro è vuoto?

– Il morto lo segue.

– Lo segue! – esclamarono ad una voce il capitano ed il cosacco.

– È quell’uomo che manca del naso.

– Scherzate? – chiese il comandante dello “Sparviero”.

– È un lebbroso, signore.

– Vedo che è coperto di pustole.

– Ed ora lo si va a seppellire.

– Vivo!

– Vivo, signore.

– Ah! Non crederò mai!

– Voi non conoscete gli usi cinesi.

– Pochissimo, tuttavia…

– Vi dico che il morto è il lebbroso.

– E noi permetteremo che lo seppelliscano vivo? – esclamò Rokoff, impugnando il Mauser. – Fucileremo quelle canaglie che vogliono sopprimerlo.

– Non faresti che rimandare ad altro giorno il funerale, perché il lebbroso esigerà di essere sepolto.

– E tu credi che lui sia contento?

– Non vedi come si avanza calmo e tranquillo verso la fossa? – chiese Fedoro. – D’altronde la morte per lui è un bene lungamente forse desiderato; qui i lebbrosi non vengono curati da nessuno. Si sfuggono come cani idrofobi, si relegano in una capanna e si lasciano morire in un isolamento veramente spaventoso. Quell’uomo avrà chiesto di venire sepolto con tutti gli onori, per mettere termine alle sue sofferenze e i parenti lo hanno accontentato, ben felici di potersi sbarazzare d’un essere pericoloso.

– Ma sai che questi cinesi sono delle vere canaglie?

– Qui hanno l’abitudine di seppellire vive le persone che danno qualche impaccio. Per raccontartene una, ti dirò che l’imperatore Yang-Yu, avendo fatto prigionieri duecentomila ribelli, per non riempire le carceri li fece seppellire vivi tutti. E come vedi quella barbara usanza non è ancora cessata.

– Questo però non è un ribelle – disse il capitano.

– È forse più pericoloso potendo infettare l’intero villaggio – rispose Fedoro.

– Se è vero come voi dite, che quel disgraziato è contento di andarsene all’altro mondo, noi non interromperemo questa lugubre cerimonia – disse il capitano. – Se però vedremo che all’ultimo momento opporrà qualche resistenza, non rimarremo impassibili spettatori. Per ora lasciamoli fare.

I portatori, giunti presso la fossa, deposero il feretro, mentre i parenti, gli amici e le donne, forse per paura di contrarre la terribile malattia, si fermavano a qualche distanza.

Il lebbroso si era fermato guardando la fossa, come per assicurarsi che fosse abbastanza profonda.

Si volse quindi verso il corteo, li salutò sorridendo, poi estrasse dalla ho-pao (borsa usata da tutti i cinesi) che portava alla cintura una piccola fiala e la vuotò d’un colpo, senza che le sue mani provassero il menomo tremito.

– Deve essere oppio – disse Fedoro.

Ciò fatto il lebbroso, sempre calmo e tranquillo si sdraiò nella ricca cassa incrociando le mani sul petto e fece un segno col capo.

I due portatori coprirono sollecitamente la bara, inchiodarono frettolosamente il coperchio e la calarono nella fossa, facendo precipitare la terra ammucchiata intorno.

– Se ne va contento – disse Rokoff, stupito. – Questi cinesi non temono dunque la morte?

– No – rispose Fedoro. – Figurati che si preparano la bara molti anni prima che la morte li colpisca e che se la tengono sempre sotto il letto.

– E noi abbiamo lasciato fare!

– Non era cosa che ci riguardasse – disse il capitano. – D’altronde non intervenendo abbiamo abbreviato le torture che quel disgraziato soffriva e forse da parecchi anni. Scendiamo e tagliamo il passo a quelle persone. Se il loro villaggio non è lontano, andremo a farci vendere del tè.

Girarono la rupe e avendo trovato un sentieruzzo, si calarono nel burroncello, giungendovi quando gli uomini e donne stavano per lasciare la tomba del lebbroso.

Vedendo comparire improvvisamente quei tre uomini armati di fucili, i cinesi si radunarono prontamente coprendo le loro donne le quali, credendo forse d’aver a che fare con dei briganti, si erano messe a urlare disperatamente.

– Pace – disse il capitano in buon cinese. – Non temete nulla dall’uomo bianco, che è amico dei cinesi.

Un vecchio, che aveva una coda lunghissima e due baffi che gli giungevano fino a mezzo petto, si fece innanzi, muovendo le mani in forma di ventaglio e ripetendo: isin! isin! parola che equivale ad un deferente saluto.

– Chi è l’uomo che avete sepolto? – chiese il capitano.

– Un lebbroso, signore, che era stanco di soffrire – rispose il vecchio, gettando uno sguardo spaventato sui tre stranieri.

– Non l’avete costretto?

– No, signore, lo giuro sui miei antenati.

– Dov’è il vostro villaggio?

– Laggiù, in fondo a quella valletta.

– Siete in molti?

Tutta la popolazione è qui.

– Avete del tè da venderci?

– Sì, signore.

Me ne porterete quanto più potrete; vi avverto però che se vi farete attendere troppo o se fuggirete, manderò ad inseguirvi un drago enorme, il quale vi divorerà tutti.

– Conosciamo abbastanza la potenza degli uomini bianchi per non esporci al rischio di provarla – rispose il vecchio, che continuava a tremare.

– Siccome non mi fido di te, lascerai qui qualche ostaggio fino al tuo ritorno.

– Ti lascerò la figlia del lebbroso.

– Purché non abbia delle pustole.

– Giudicherai tu stesso, signore, se è più sana di me. Vieni, Tsi!

Una fanciulla di tredici o quattrodici anni, con un visetto grazioso che la faceva rassomigliare ad una europea, salvo la tinta della pelle che era d’un giallo sbiadito, e un’abbondante capigliatura raccolta in trecce, si fece innanzi, barcollando sulle due scarpettine quasi microscopiche.

Come suo padre, il povero lebbroso, indossava un casacca di seta e portava dei larghi nin-ku, specie di calzoni che scendono fino alla noce dei piedi. Sulla testa aveva una di quelle piccole sciarpe chiamate nin-hiai, usate dalle piccole persone benestanti.

Guardò curiosamente il capitano ed i suoi due compagni, alzando abbassando vivamente le palpebre dalle lunghe ciglia di seta, poi sedette su sasso in attitudine rassegnata, dicendo brevemente al vecchio:

– Ti obbedisco.

Il drappello, dopo aver salutato gli stranieri, s’allontanò percorrendo il fondo del burrone, senza che un muscolo di quel grazioso visino avesse trasalito.

– Il padre di questa fanciulla doveva essere un ricco agricoltore – disse Fedoro, che la osservava attentamente. – Le contadine non vestono mai in seta, né si storpiano oggidì i piedi.

– Che suo padre fosse il capo del villaggio? – chiese il capitano.

– Certo.

– Che piedini graziosi! – disse Rokoff. – Non ne ho mai veduti di piccoli, e non credevo che le cinesi riuscissero ad arrestarne lo sviluppo a tal punto.

– Le persone di buona condizione ci tengono ad avere figlie coi piedi minuscoli, perché ciò aumenta il valore commerciale della donna, e tu sai che qui le spose si comperano. Più la scarpa che si presenta al futuro marito è piccola, più egli deve sborsare.

– Quindi qui la bellezza non conta?

– Viene dopo i piedi.

– Singolare paese!

– In origine però quest’usanza deve aver avuto qualche altro motivo – disse il capitano.

– Si dice che i cinesi di tempi antichi fossero terribilmente gelosi delle loro donne e che siano ricorsi a questo barbaro uso per impedire loro di fuggire. Infatti, coi piedi così storpiati, non possono camminare a lungo.

– Devono soffrire assai, almeno nei primi tempi – disse Rokoff.

– Questo è certo – rispose Fedoro.

– E come fanno per arrestarne lo sviluppo? – chiese il capitano.

– Perché l’operazione riesca perfettamente, secondo l’ideale degli uomini, piegano le dita sotto la punta del piede, eccettuato il pollice che deve rimanere libero, poi fanno in modo che il tallone cambi direzione diventando verticale, invece di orizzontale. Per ottenere ciò, adoperano delle fasce di seta o di cotone lunghe un metro e mezzo e larghe un palmo. L’operazione comincia quando la fanciulla ha sei o sette anni e non cessa se non quando tutte le parti molli sono atrofizzate ed il piede ha cessato di crescere. Ricorrono però sovente a dei modi più barbari, battendo la faccia dorsale dei piedi perfino coi ciottoli e producendo perfino delle fratture.

– Che tormento – disse Rokoff.

– Talora poi le fasce vengono continuamente strette e cucite.

– Vorrei vedere quei piedi.

– Non lo otterresti. Le donne cinesi sono così gelose da non concedere tale permesso nemmeno ai loro mariti.

– Ah! Che bel paese è la Cina! – esclamò Rokoff, ridendo. – Il paese delle sorprese strabilianti!

– Ecco gli uomini che tornano – disse il capitano. – La minaccia di scatenare il terribile drago ha fatto effetto.

Il vecchio era ricomparso seguito dai due portatori della bara carichi di due enormi canestri contenenti la deliziosa infusione. Il capitano regalò ai tre uomini due tael, prezzo ben superiore al contenuto dei panieri, un altro alla fanciulla, poi si diresse verso l’altipiano con Rokoff e Fedoro.

– Partiamo – disse.

Quando giunsero allo “Sparviero” la macchina già funzionava.

– Siamo pronti? – chiese il comandante.

– Sì, signore – rispose il macchinista.

Passarono sul fuso, le eliche orizzontali si misero in movimento turbinando, le ali si mossero sbattendo lievemente per non guastarsi al suolo e il treno aereo s’innalzò prendendo subito lo slancio verso l’opposto declivio della montagna. Sul margine della foresta i tre cinesi e la fanciulla, istupiditi dallo spavento, lo guardavano innalzarsi.

– All’ovest – disse il capitano al macchinista. – Andremo a cacciare sulle rive dell’Hoang-ho.

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