L’impresa più difficile era riuscita. Ora si trattava di inseguire a tutto vapore la fregata che aveva un vantaggio di quasi quindici ore, raggiungerla o alla foce del fiume od in mare e mettere in opera il secondo piano, non meno arduo, né meno pericoloso, ordito dal “cacciatore di serpenti”.
Sbarazzato il ponte dei cadaveri, medicati i feriti, che fortunatamente non erano molti, Tremal-Naik si portò sulla lunetta con Hider, mentre un gabbiere si installava sulla crocetta dell’albero, armato d’un potente cannocchiale.
Alla voce del nuovo comandante, Udaipur che aveva preso il comando della macchina, lasciò la camera e si slanciò sul ponte.
– Bisogna volare, Udaipur, – disse Tremal-Naik.
– I forni sono colmi di carbone, capitano. Abbiamo la massima pressione.
– Non basta. Bisogna raggiungere la “Cornwall”.
– Carica le valvole a cinque atmosfere, – disse Hider.
– Corriamo il pericolo di saltare, quartier-mastro.
– Non monta; vattene.
Il macchinista discese a precipizio nella camera della macchina.
La cannoniera volava come un uccello. Torrenti di fumo nero misto a scorie, uscivano furiosamente dal camino troppo ristretto; il vapore fischiava, sbuffava, ruggiva entro l’involucro di ferro e le ruote turbinavano con furia tale che la membratura scricchiolava da prua a poppa e che l’acqua rimbalzava, schiumeggiando, fino ai bordi.
– Getta il “lok”! – gridò Hider.
– Quindici nodi e cinque decimi, – gridò, qualche minuto dopo, un marinaio.
– Corriamo come uno dei più rapidi cacciatori di mare, – disse il quartier-mastro.
– Raggiungeremo la fregata? – chiese Tremal-Naik.
– Lo spero.
– Sul fiume?
– Sul mare. Non vi sono che centoventicinque chilometri fra Calcutta e il golfo.
– Quanto fila la fregata?
– Sei nodi all’ora e con mare calmo. E’ troppo vecchia e troppo impoppata.
– Ma non vorrei che giungesse a Raimangal.
– Nel qual caso, cosa faresti?…
– L’assalirei a colpi di sperone.
– Sei uomo risoluto, Tremal-Naik – disse il quartier-mastro, sorridendo.
– Bisogna che sia risoluto. Mi occorre la testa del capitano.
– Ma tu corri un gran pericolo!
– Lo so, Hider.
– Il capitano potrebbe scoprirti.
– Lo ucciderò prima.
– E se tu fallisci il colpo?
– Non lo fallirò, – disse Tremal-Naik con incrollabile fermezza. – Quell’uomo è forte.
– Ed io sarò più forte di lui. Qui, nel cuore, sta scolpito un nome; quello di Ada!… Questo nome mi fa bollire il sangue: questo nome distrugge ogni timore: questo nome mi fa diventare una tigre ed un gigante. Colle mie braccia mi sentirei capace di afferrare la Cornwall e di stritolarla col capitano che la comanda e gli uomini che la montano.
– Ami sempre la “vergine della pagoda”, adunque?
– L’amo e tanto, che se ella mi venisse a mancare, mi ucciderei.
– Ti compiango, – disse Hider con voce lievemente commossa. Tremal- Naik lo guardò con ansietà.
– Mi compiangi? – mormorò.
– Perché?…
– Non lo saprei dire.
– Sai forse qualche cosa tu?
– Non so nulla, – disse il thug, nella cui voce c’era una vibrazione triste.
– Mi sono ingannato?
– Sì, amico.
Hider guardò fisso fisso Tremal-Naik che era diventato meditabondo emise un profondo sospiro, e lasciò la lunetta per recarsi a prua.
La cannoniera continuava a divorare la distanza, fendendo le acque del fiume colla irresistibile potenza di un cetaceo. Le due rive fuggivano con crescente rapidità, mostrando confusamente boschi, paludi sconfinate coperte di canne e di erbe ingiallite, risaie melmose, brutti villaggi affogati entro putride acque o soffocati fra liane e palmizi dalle cupe volte, sotto le quali è fatale il soggiorno, per quanto sia breve, all’europeo non acclimatizzato.
Alle quattro, la cannoniera passava dinanzi a Diamond-Harbour, porticino situato presso la foce dell’Hugly, e dove i piroscafi ricevono gli ultimi dispacci. Non c’era che una casetta bianca circondata da sei cocchi. Dinanzi ergevasi l’albero dei segnali, sulla cui cima sventolava la bandiera inglese.
Subito le rive del fiume si allargarono considerevolmente e cominciarono ad abbassarsi, quasi al livello dell’acqua. In lontananza si disegnò la grande isola di Sangor, che segna il confine fra le acque del fiume e quelle del mare.
– Il mare! – gridò il marinaio installato sulla crocetta della maestra. Tremal-Naik, bruscamente strappato dalle sue meditazioni da quel grido, si slanciò a prua, mentre i marinai s’arrampicavano sulle sartie e sulle griselle. Tutti gli sguardi si volsero verso le “Sandheads” (teste di sabbia) immensi banchi pericolosissimi proiettati dal Gange nel golfo del Bengala.
Nessun vascello appariva sulla linea dell’orizzonte, né al di qua, né al di là dell’isola Sangor; nessun lume brillava nella semi-oscurità.
Un grido di rabbia irruppe dalle labbra di Tremal-Naik.
– Gabbiere! – gridò all’indiano che si trovava sulla crocetta dell’albero, col cannocchiale puntato.
– Capitano!
– Si scorge?
– Non ancora.
– Udaipur, carica le valvole.
– Abbiamo la massima pressione, – osservò il macchinista.
– A sei atmosfere! – gridò Hider, che si mordeva la barba. – Quattro uomini di rinforzo nella macchina.
– Saltiamo in aria, – brontolò Udaipur.
Quattro indiani discesero nella camera della macchina. I fornelli furono riempiti di carbone.
La cannoniera non correva più; saltava sulle onde azzurre del golfo, fischiando e tremando. Un calore torrido saliva dalla stiva e un fumo nerissimo usciva furiosamente dal tubo.
– Dritto all’isola Raimatla! – gridò Hider, al timoniere.
La distanza che li separava dall’isola spariva rapidamente. Tutti gli indiani si erano issati sulle imbarcazioni sospese alle grue od alle sartie od alle griselle dell’albero e scrutavano l’orizzonte.
Un silenzio profondo regnava sul ponte, rotto solamente dalle febbrili pulsazioni della macchina e dai sibili del vapore che usciva dalle valvole.
– Nave a prua! – gridò ad un tratto il gabbiere.
Tremal-Naik provò una scossa come fosse stato toccato da una pila elettrica.
– La vedi? – tuonò egli.
– Sì, – rispose il gabbiere.
– Dove?…
– Al sud.
– Ed è?…
Il gabbiere non rispose. S’era alzato in piedi sulla crocetta, per abbracciare maggior orizzonte e guardava fisso fisso col cannocchiale.
– Nave a vapore! – gridò poi.
– La fregata!… La fregata!… – urlarono gl’indiani.
– Silenzio! – tuonò il quartier-mastro. – Ehi, gabbiere, dove va quella nave?
– All’est, radendo l’isola Raimatla.
– Guarda la prua.
– La vedo.
– Come è?
– Ad angolo retto.
Il quartier-mastro si slanciò verso Tremal-Naik che stava sulla lunetta.
– E’ la fregata, – gli disse. – Non v’è in India che la “Cornwall” che abbia lo sperone ad angolo retto.
Tremal-Naik in preda ad un’indicibile emozione, emise un grido di trionfo.
– Dove va? – chiese egli con voce stridula. – Osserva bene.
– Sempre all’est. Gira l’isola, al di fuori, temendo forse di non trovare acqua bastante nel canale.
– Sei certo?
– Certissimo.
– Sicché la incontreremo?…
– Al di là dell’isola, se ci inoltriamo nel canale.
– Governate in modo da incontrarla.
– Ma… – disse Hider.
– Silenzio, comando io.
Tremal-Naik lasciò la lunetta e discese nel quadro di poppa; Hider si collocò invece alla ruota del timone.
La cannoniera, che camminava tre volte di più della fregata, non impiegò molto a girare l’isola. Alle dieci del mattino usciva dal canale formato da Raimatla e le terre vicine, celandosi dietro l’estrema punta di un isolotto deserto, che sorge di fronte a Jamera.
Hider con un solo sguardo si assicurò che la nave nemica era ancora lontana.
– Tremal-Naik! – gridò.
Il cacciatore di serpenti apparve sul ponte, ma non era più lo stesso uomo di prima.
La tinta bronzina della sua pelle era diventata olivastra quanto quella di un malese; gli occhi apparivano assai ingranditi, mediante segni biancastri ben tracciati; i denti, poco prima bianchi come l’avorio, erano diventati neri come quelli del più arrabbiato masticatore di “betel”. Così sfigurato, con un cappellaccio di fibre di rotang sul capo, una cotonina rossa ai fianchi, due lunghi “kriss” (pugnali serpeggianti a punta avvelenata) sospesi alla cintura, era affatto irriconoscibile.
– Mi riconosci? – chiese al quartier-mastro che lo guardava con ammirazione.
– Ti riconosco perché a bordo non ho visto malesi.
– Credi che il capitano mi riconoscerà?
– No, non è possibile.
– Dimmi ora, come si chiamano i due affiliati imbarcati sulla Cornwall.
– Palavan e Bindur.
– Terrò in mente questi nomi. Fa’ mettere in mare un’imbarcazione.
Ad un cenno del quartier-mastro la “yole” fu calata.
– Cosa vuoi fare? – chiese dipoi.
– Aspettare qui la fregata e poi salire a bordo.
– Ed io?
– Tu andrai a nasconderti nel canale di Raimangal. Alla prima detonazione che odi, uscirai in mare e mi raccoglierai.
Afferrò una corda e discese nella “yole” la quale rullava vivamente sotto le ondate.
La cannoniera emise un fischio sonoro e s’allontanò rapidamente.
Un’ora dopo non era più che un punto nero sull’orizzonte, appena visibile.
A bordo della “Cornwall” (prima parte)
4 Giugno 2007 Di Lascia un commento
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