I fiori che addormentano (prima parte)

Quando Tremal-Naik tornò in sé, si trovò rinchiuso in uno stretto sotterraneo illuminato da un piccolo spiraglio difeso da una doppia fila di grosse sbarre e solidamente legato a due anelli di ferro, infissi in una specie di colonna.
Dapprima si credette in preda ad un brutto sogno ma ben presto si convinse che era realmente prigioniero.
Una vaga paura s’impossessò allora di quell’uomo, che pur aveva dato tante prove di un coraggio sovrumano.
Cercò di riordinare le idee, ma nel suo cervello regnava una confusione che non riusciva a diradare. Si rammentava vagamente di Negapatnan, della fuga di lui, della limonata, ma nulla di più.
– Chi può avermi tradito? – si chiese, rabbrividendo. – Cosa accadrà ora di me?
Cos’è questa nebbia che mi offusca il cervello?… Che mi abbiano ubbriacato con qualche bevanda a me sconosciuta?
Fece uno sforzo per alzarsi, ma subito ricadde; aveva udito aprirsi una porta.
– Chi scende qui? – chiese.
– Io, Bhârata, – rispose il sergente avanzandosi.
– Finalmente – esclamò Tremal-Naik. – Mi spiegherai ora per quale motivo lo mi trovo qui prigioniero.
– Perché ormai sappiamo che tu sei un thug.
– Io!… Un thug!…
– Sì, Saranguy.
– Tu menti!…
– No, hai parlato, hai tutto confessato.
– Quando?
– Poco fa.
– Tu sei pazzo, Bhârata.
– No, Saranguy, ti abbiamo dato da bere la “youma” e tu hai confessato ogni cosa.
Tremal-Naik lo guardò con ispavento. Si ricordava della limonata che il capitano gli aveva fatto bere.
– Miserabili! – esclamò con disperazione.
– Vuoi salvarti? – disse Bhârata, dopo un breve silenzio.
– Parla, – disse Tremal-Naik con voce rotta.
– Confessa tutto e forse il capitano ti farà grazia della vita.
– Non lo posso: ucciderebbero la donna che io amo.
– Chi?
– I “thugs”.
– Quale storia narri tu? Parla.
– E’ impossibile! – esclamò Tremal-Naik con accento selvaggio. – Sian tutti maledetti!
– Ascoltami, Saranguy. Ormai noi sappiamo che i “thugs” hanno la loro sede a Raimangal, ma ignoriamo e quanti siano e dove vivano. Se tu lo dici, chissà, forse non morrai.
– E cosa farete di tutti quei “thugs”? – chiese Tremal-Naik con voce strozzata.- Li fucileremo tutti.
– Anche se fra essi vi fossero delle donne?
– Esse prima di tutti.
– Perché?… Quale colpa hanno?
– Sono più terribili degli uomini. Rappresentano la dea Kâlì.
– T’inganni, Bhârata! T’inganni!
– Tanto peggio.
Tremal-Naik si prese la fronte fra le mani, conficcandosi le unghie nella pelle.
I suoi occhi erravano smarriti, il suo volto era pallidissimo, quasi cinereo, ed il petto gli si sollevava impetuosamente.
– Se si concedesse la vita ad una di quelle donne… forse parlerei.
– E’ impossibile, poiché prenderli vivi costerebbero torrenti di sangue. Li soffocheremo tutti, come bestie feroci, nei loro sotterranei.
– Ma ho una donna, una fidanzata! – esclamò Tremal-Naik con un accento disperato. – Vuoi tu, tigre, farla morire!… No, no, non parlerò.
Uccidetemi, tormentatemi consegnatemi alle autorità inglesi, fate di me quello che volete, non parlerò.. I “thugs” sono numerosi e potenti, si difenderanno e forse salveranno colei che io tanto ho amato e che amo ancora.
– Una domanda ancora. Chi è questa donna?
– Non posso dirlo.
– Saranguy, – disse con voce alterata, – vuoi dirmi chi è quella donna?
– Mai.
– E’ bianca o abbronzata?
– Non te lo dirò.
– Sarà una fanatica come le altre.
Tremal-Naik non rispose.
– Sta bene, – ripeté il sergente. – Fra tre o quattro giorni ti condurremo a Calcutta.
Una viva commozione alterò i lineamenti del prigioniero, il quale guardò il sergente che usciva e la feritoia.
– Questa notte bisogna fuggire, – mormorò, – o tutto è perduto.
La giornata trascorse senza che qualche cosa di nuovo accadesse. A mezzodì e al tramonto fu portata al prigioniero un’ampia scodella di “carri” e una coppa di “tody”.
Appena il sole tramontò dietro le foreste e l’oscurità nella cantina divenne fitta, Tremal-Naik respirò. Stette cheto per tre lunghe ore, temendo che qualcuno improvvisamente entrasse, poi si mise alacremente all’opera per tentare l’evasione.
Gli indiani sono famosi nel legare le persone ed occorre una lunga pratica per sciogliere i loro nodi complicatissimi. Tremal-Naik per fortuna possedeva una forza prodigiosa e buoni denti.
Con una scossa allentò una corda che gl’impediva di curvare la testa poi, pazientemente, non badando al dolore, avvicinò uno dei polsi alla bocca e si mise a lavorare coi denti, tagliando, segando, sfilacciando.
Riuscito a tagliare la corda, sbarazzarsi degli altri legami fu per lui l’affare d’un sol momento.
S’alzò stiracchiandosi le membra indolenzite, s’avvicinò poscia alla feritoia e guardò fuori.
La luna non era ancora sorta, ma il cielo era splendidamente stellato.
Buffi d’aria fresca e imbalsamata dal profumo di mille diversi fiori, entravano per la feritoia.
Nessun rumore veniva dal di fuori, né persona umana scorgevasi sulla fosca linea dell’orizzonte.

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