Kammamuri (prima parte)

Kammamuri, dopo l’avvenuta separazione, aveva preso la via che conduceva al fiume, cercando di seguire le traccie dell’indiano che lo precedeva. Però, bisogna dirlo, il bravo maharatto si allontanava dal suo padrone a malincuore, e quasi con rimorso.
Egli, con ragione, temeva che Tremal-Naik commettesse qualche pazzia, sapendo che voleva rivedere la misteriosa visione e perciò ogni dieci passi s’arrestava titubante, più disposto ad indietreggiare, malgrado il divieto, che di andare innanzi.
Come ritornare alla capanna, sapendo che il padrone trovavasi nella jungla maledetta, dove i nemici pullulavano come i bambù? Gli sembrava una enormità, una cosa assolutamente impossibile, quasi un delitto.
Non aveva ancor percorso mezzo miglio, quando si decise di ritornare sui propri passi a costo di far andare in bestia Tremal-Naik.
– Infine, – disse il bravo maharatto, – un compagno potrà servirgli a qualche cosa. Animo, Kammamuri, coraggio ed occhi aperti.
Fece una piroetta sui talloni e si diresse nuovamente verso l’ovest, non ponendo più mente all’indiano che fino allora lo aveva preceduto.
Non aveva fatto ancor venti passi, che udì una voce disperata a gridare:
– Aiuto! aiuto!
Kammamuri fece un salto indietro.
– Aiuto! – mormorò egli. – Chi chiama aiuto?
Stette in ascolto, con una mano all’orecchio: il venticello notturno che spirava dall’ovest, portò a lui un fischio acuto.
– Succede qualche cosa laggiù, – borbottò il maharatto, inquieto.- Il vento porta, chi ha gridato deve essere a mezzo miglio da qui, nella direzione presa dal mio padrone. Che assassinino qualcuno?
La paura di cadere nelle mani degli indiani era forte, ma la curiosità la vinse.
Si pose la carabina sotto il braccio e si diresse verso l’ovest, scostando i bambù con precauzione. Proprio in quell’istante echeggiò una detonazione.
Nell’udirla, il maharatto senti gelarsi il sangue nelle vene. La carabina di Tremal-Naik, che tante e tante volte aveva udito rombare nella jungla nera, la conosceva troppo bene perché potesse ingannarsi.
– Grande Siva! – mormorò coi denti stretti. – Il padrone si difende.
L’idea che Tremal-Naik corresse un pericolo, gl’infuse un coraggio straordinario.
Disprezzando ogni precauzione, dimenticando che forse gl’indiani lo spiavano, si mise a correre verso il luogo dal quale sembrava essere partita la detonazione.
Un quarto d’ora dopo giungeva ad una specie di radura, nel mezzo della quale contorcevasi un oggetto lungo lungo, sparso di macchie. Quel corpo emetteva dei sibili acuti, particolari ai serpenti, allorché sono irritati.
– To’, un pitone!- esclamò Kammamuri il quale, famigliarizzato a simili rettili, non provava paura alcuna.
Stava per allontanarsi, per evitare il pericolo di venire assalito e stritolato, quando s’accorse che il rettile non era più intero e che a lui vicino giaceva un corpo umano.
Sentì rizzarsi il ciuffo di capelli che crescevagli sulla nuca.
– Che sia il padrone, – mormorò.
Afferrò la carabina per la canna, affrontò il rettile che contorcevasi rabbiosamente perdendo sangue e gli schiacciò la testa.
Liberatosi del mostro, corse a quel corpo umano che non dava più segno di vita.
– Visnù sia benedetto! – esclamò, emettendo un sospirone. – Non è il padrone.
Infatti era un indiano, quello stesso che per lanciarsi contro Tremal- Naik era caduto fra le spire del pitone. Il povero diavolo non era più riconoscibile, dopo la terribile stretta del rettile.
Era una massa di carne contorta, stritolata, inondata di sangue.
Aveva la bocca smisuratamente aperta e lorda d’una spuma sanguinosa, gli occhi fuori delle orbite, punte di ossa infrante che gli uscivano dal petto orrendamente sfondato e le membra spezzate in dieci diversi luoghi.
Kammamuri si curvò su di lui per udire se respirava ancora, ma quelle carni erano già fredde.
– Il pover’uomo non ha potuto resistere alla potente stretta, – disse.- Tanto peggio per lui: quest’indiano non può essere che uno di quelli che ci davano la caccia, poiché vedo sul suo petto il misterioso tatuaggio. Orsù, qui non c’è ormai più nulla da fare e corro il pericolo di venire scoperto.
Un leggiero strofinìo di bambù scossi, lo inchiodò sul suolo. Si piegò prontamente e si distese in mezzo alle erbe, rimanendo immobile come il cadavere che aveva vicino.
Se non era stato ancora veduto, poteva sfuggire allo sguardo di colui o di coloro che avevano smosso i bambù, essendo le canne alte.
Lo strofinìo era subito cessato, ma non bisognava fidarsi. Gli indiani sono pazienti come le pelli-rosse dell’America e spiano la preda per delle ore, anzi per delle giornate, e Kammamuri, indiano pur lui, non le ignorava.
Stette così parecchio tempo, poi ardì alzare il capo e guardare all’intorno.
Un sibilo lamentevole fendé l’aria e si senti strozzare da un laccio, che una mano abile aveva gettato attorno al suo collo.
Rattenne il grido che stava per uscirgli dalle labbra, afferrò con pugno solido la corda impedendo così che lo strangolasse e ricadde fra le erbe dibattendosi come un agonizzante. L’astuzia riuscì pienamente.
Lo strangolatore, che tenevasi imboscato dietro ad un gruppo di canne da zucchero selvatiche, credendo che la vittima fosse per spirare, balzò fuori per finirla a colpi di pugnale. Kammamuri aveva afferrata una delle pistole e l’aveva armata drizzandola su di lui.
– Sei morto! – gli gridò.
Un lampo ruppe le tenebre, seguito da una detonazione. Lo strangolatore barcollò, portò le mani al petto e cadde di peso fra le erbe.
Kammamuri gli fu sopra colla seconda pistola.
– Dov’è Tremal-Naik? – gli chiese.
Lo strangolatore tentò di risollevarsi, ma ricadde. Un getto di sangue gli uscì dalla bocca, stralunò gli occhi, emise un gemito e s’irrigidì. Era morto.
– Battiamocela, – mormorò il maharatto. – Tra poco avrò alle calcagna i suoi compagni.
Saltò in piedi e si diede a precipitosa fuga dalla parte che era venuto persuaso che il morto fosse l’indiano che lo aveva preceduto e che Tremal-Naik fosse riuscito a salvarsi.
Percorse, così correndo, più d’un miglio inoltrandosi sempre più nella jungla, procurando di mantenere una via retta per giungere alla riva del fiume e di là aspettare il ritorno del padrone che non voleva abbandonare. Era la mezzanotte, quando si trovò sul limitare di una foresta di palme da cocco, superbe piante che superano in bellezza le palme da datteri, e che una sola basta per fornire ad una intera famiglia il cibo, la bevanda e persino le vestimenta.
Il maharatto non ardì andare più innanzi; s’arrampicò su una di quelle piante e stabilì lassù il suo domicilio, sicuro di non venire assalito dagl’indiani e meno ancora dalle tigri, che dovevano trovarsi in buon numero in quell’isola.
Si accomodò sul tronco, si legò colla corda presa allo strangolatore e rassicurato dal profondo silenzio che regnava, chiuse gli occhi.
Non dormì che pochissime ore, poiché un baccano infernale lo svegliò.
Una grossa banda di sciacalli, sbucata chi sa mai da dove, aveva attorniato l’albero e gli faceva l’onore di una spaventevole serenata.
Quegli animali, poco dissimili dai lupi, che pullulano come le formiche in tutta o quasi tutta l’India, ed i cui morsi sono ritenuti velenosi, erano più di cento e facevano salti disperati, sfogando la loro rabbia con urli lamentevoli, quasi strazianti, da incutere terrore anche a chi è abituato a udirli da lunga pezza.
Kammamuri avrebbe ben voluto allontanarli con qualche schioppettata, ma la tema di attirare gl’indiani, assai più terribili di quelle bestie, lo trattenne e si rassegnò ad ascoltare il loro concerto che durò fino all’alba.
Allora poté gustare il sonno che si prolungò più di quanto avrebbe voluto, poiché quando riaprì gli occhi, il sole aveva quasi compito l’intero suo giro e declinava rapidamente all’occidente. Spaccò una noce di cocco giunta a completa maturanza, grossa quanto la testa di un uomo, la cui polpa indurita rammenta il sapore delle mandorle, ne inghiottì una buona parte e si rimise bravamente in marcia, non già questa volta coll’intenzione di recarsi alla riva, ma di trovare Tremal-Naik.

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