L’Hugly, le cui acque sono reputate sacre dalle popolazioni dell’alta India le quali intraprendono di frequente dei lunghi pellegrinaggi, per gettarvi le ceneri dei loro defunti o per bagnarvisi è uno dei più importanti fiumi della grande penisola asiatica. La sua lunghezza non supera le cinquanta leghe, essendo formato dalla riunione dei fiumi Cossimbazar e Djellinghey, i due rami più occidentali del Gange; ma la massa delle acque è considerevolissima, ingrossata sulla destra dal Dorumoudah dal Roupnaram, dal Tingorilly e dall’Hidiely.
Su questo braccio del Gange regna un’attività straordinaria, febbrile, che eguaglia quella dei fiumi giganti dell’America settentrionale.
Approfittando dell’alta marea, che si fa sentire molto forte, vascelli, provenienti da tutti i porti del globo lo salgono arrestandosi o a Calcutta, o a Chandernagor o a Hougly, le tre città più importanti collocate sulle sue rive.
Piroscafi, barchi “brick”, brigantini, golette e “slopp”, s’incontrano dovunque lungo il suo corso. Non parliamo delle pinasse, dei “poular”, dei “bangle”, dei “mur-punky”, dei “fylt’ sciarra”, dei “gonga” e di tutte quelle altre barche più o meno grandi, di costruzione indiana, che si contano a migliaia e che s’incrociano in tutti i versi.
Nel momento però che la baleniera si staccava dalla riva, poche barche solcavano la corrente e quasi tutte provenienti dal sud, che è quanto dire dal mare. Dal nord scendevano invece ammassi di cadaveri che andavano capricciosamente alla deriva, ad arenarsi sulle numerose isole ed isolotti o sulle rive dove cadevano sotto il dente delle tigri e dei sciacalli, sempre pronti a prendere parte a quei giganteschi banchetti che la superstizione indiana offre loro gratuitamente.
– Animo, – disse Tremal-Naik. – Bisogna giungere al forte prima che la spedizione prenda il largo. Se giungiamo tardi, perdete Raimangal.
– Lascia fare a noi, – rispose colui che pareva fosse il capo di quei “thugs”. – Arriveremo a tempo.
– Quale distanza abbiamo da qui al forte?
– Meno di dieci leghe.
– Quando credi che la spedizione partirà?
– All’alta marea, senza dubbio. Fra una mezz’ora comincerà a montare e correremo più rapidi di uno “steamer”.
I “thugs”, robusti garzoni, rotti a tutte le fatiche ed abituati sino dall’infanzia al remo, accomodatisi sui banchi si misero ad arrancare di buon accordo, con colpi secchi e rigorosi.
La baleniera, una bella e solida imbarcazione, costruita appositamente per la corsa, non tardò a filare con notevole velocità, sfiorando appena l’acqua, la cui corrente minacciava di arrestarsi pel prossimo arrivo della marea, la quale sale con tanta furia da causare, non di rado, a Calcutta, un accrescimento di livello superiore ai cinque piedi.
La notte era limpidissima, illuminata da una luna superba e l’aria dolce, rinfrescata di quando in quando da una brezzolina, che scendeva dall’alto corso della fiumana.
Le rive, visibili come in pieno giorno, presentavano di quando in quando delle belle vedute, affatto speciali ai fiumi indiani.
Ora erano boschi magnifici di palmizi, di cocchi dall’aspetto maestoso, colle lunghe foglie disposte a cupola, e di manghi, stretti in mille diverse guise da quegli strani arrampicanti chiamati calami che raggiungono di frequente la lunghezza di centocinquanta metri. Ora erano campi sterminati di senapa, i cui fiori gialli spiccavano chiaramente sotto gli argentei raggi dell’astro notturno; oppure piantagioni di indaco, di zafferano, di sesamo, di scialappa o immense distese di bambù smisurati, in mezzo alle quali andavano e venivano bande di bufali selvaggi, animali veramente formidabili, più temuti delle tigri e che non esitano ad assalire anche un reggimento di gente armata.
Talvolta apparivano miseri villaggi, soffocati sotto una densa vegetazione, oppure cinti da risaie, chiuse tra arginetti alti parecchi piedi, destinati a trattenere le acque, e più spesso rizzati sull’orlo di putridi stagni sopra i quali ondeggiava una nebbia pestilenziale, carica di febbre e di cholera.
Non mancavano però gli eleganti “bengalow” sui cui tetti piramidali sonnecchiavano bande di cicogne nere, di ibis brune e di mangiatori di ossa uccelli giganteschi, avidissimi e molto rispettati dagli indiani, i quali, secondo la loro strana dottrina delle trasmissioni, credono che nei loro corpi si trovino le anime dei sacerdoti di Brahma.
Mezz’ora era di già scorsa, da che la baleniera aveva lasciato la piccola insenatura, quando sulla riva destra si udì una voce a gridare:
– Ehi!… Alt!…
Tremal-Naik, a quella brusca intimazione, che non s’aspettava, essendo il fiume deserto, prontamente si alzò.
– Chi è che c’intima di arrestarci? – chiese egli guardandosi attorno.- Qualche fratello forse?
– Guarda laggiù, – disse uno dei remiganti, additandogli la riva.
– Passiamo dinanzi al “bengalow” del capitano Macpherson.
– Che ci abbiano scoperti?
– Deve essere così. I furbi hanno sospettato qualche cosa e tengono d’occhio le barche che salgono il fiume. Non vedi degli uomini, sulla terrazza?
Tremal-Naik diresse lo sguardo verso il “bengalow”. Sulla terrazza che dominava il fiume scorse un gruppo di persone. La luna faceva brillare le canne dei loro fucili.
– Ehi!… fermati!… – ripeté la stessa voce.
– Tiriamo innanzi, – disse Tremal-Naik. – Se vorranno attaccarci, ci daranno la caccia.
La baleniera che aveva rallentato la corsa, continuò a risalire. Un clamore assordante s’alzò sulla terrazza.
– Tuoni e fulmini! – urlò un’altra voce.- Fate fuco!
– Sono essi! – gridò un’altra voce.- Fuoco, amici!
Tre o quattro colpi di fucili rintronarono. I “thugs”, quantunque di già lontani un cinque o seicento braccia, udirono le palle fischiare sopra l’imbarcazione.
– Ah! briganti! – esclamò Tremal-Naik, raccogliendo la carabina.
– Bada! – gridò uno dei “thugs”. – Si preparano a darci la caccia.
– Penso io a tenerli lontani. Drizzate l’imbarcazione verso quel grab che scende il fiume; forse viene da Calcutta e potrà darci qualche notizia sulla spedizione.
– Attento, Tremal-Naik! – gridò uno dei remiganti.
L’indiano volse lo sguardo verso la piccola rada del “bengalow” e scorse un “mur-punky”, montato da cinque o sei sipai e da una mezza dozzina di remiganti.
– Arranca! – comandò egli, montando la carabina.
La baleniera correva sempre con crescente celerità, nondimeno il “mur- punky” guidato da uomini più abili e forse più leggiero, guadagnava rapidamente strada. A prua era stata rizzata una gabbionata e dietro si erano nascosti i sipai, colle carabine spianate.
– Fermati! – tuonò una voce – Arranca sempre! comandò Tremal-Naik.
Un sipai alzò la testa. Quel momento bastò: Tremal-Naik puntò rapidamente l’arma e lasciò partire il colpo. Il sipai cacciò un grido, batté l’aria colle mani e piombò in fondo al battello.
– A chi tocca! – gridò Tremal-Naik, raccogliendo un’altra carabina.
Gli fu risposto con una scarica generale. Le palle scrosciarono sui fianchi della baleniera.
Un altro sipai si mostrò e cadde come il primo.
Quella matematica precisione sgomentò i sipai, i quali, dopo essersi brevemente consigliati, virarono di bordo dirigendosi verso la riva opposta.
– Sta’ in guardia, Tremal-Naik,- disse uno dei “thugs”. – Vi sono dei “bengalow” inglesi su quella riva.
– Che forniranno a loro degli uomini e delle barche, – aggiunse un secondo.
– Non lasceremo a loro tempo, – disse l’indiano; drizzate la prua al “grab”.
La nave che scendeva al mare, non era lontana che mezzo miglio.
Era uno di quei vascelli che si costruiscono a Bombay, ove, pare, la navigazione venne fino dai più remoti tempi ridotta a maggior perfezione che negli altri luoghi dell’India, e dove trovansi gli alberi del tek, noti per la loro estrema durezza e dei salici che resistono alle acque per qualche secolo.
La prua di quel “grab”, di architettura puramente indiana, era assai slanciata ed aguzza, adorna di divinità e di teste d’elefante scolpite con rara maestria. I suoi tre alberi coperti di tela, dagli alberetti al ponte, si curvavano sotto la fresca brezza del settentrione.
In quindici minuti la baleniera lo abbordava sotto l’anca di tribordo.
Il capitano del legno si curvò sul capo di banda, per sapere cosa desideravano.
– Da dove venite? – chiese Tremal-Naik.
– Dalla città bianca – rispose il lupo di mare.
– Da quante ore siete passato dinanzi al forte William?
– Da cinque.
– Avete veduto delle navi da guerra?
– Sì, una fregata: la Cornwall.
– Caricava?
– No, imbarcava soldati.
– Sono essi che vanno a Raimangal, – dissero i “thugs”.
– Sapete quale sia la destinazione della Cornwall?- chiese Tremal- Naik, coi denti stretti.
– L’ignoro, – rispose il capitano.
– Era accesa la macchina?
– Sì.
– Grazie, capitano.
La baleniera si staccò dal grab.
– Avete udito? – chiese Tremal-Naik, con rabbia.
– Sì, – risposerò i “thugs”, curvandosi sui remi.
– Bisogna giungere prima che la fregata prenda il largo o tutto è perduto. Arrancate! arrancate!
In quell’istante uno dei “thugs” gettò un grido di trionfo.
– Udite! – esclamò egli.
Ognuno tese l’orecchio trattenendo il respiro. Al sud si udiva un sordo muggito come l’avvicinarsi d’una burrasca.
– La marea! – gridarono i “thugs”.
La corrente dell’Hugly si era improvvisamente arrestata. Al sud apparve un’onda spumeggiante, che veniva innanzi colla velocità di un cavallo lanciato al galoppo. Arrivò con un cupo muggito sollevando la baleniera e passò oltre salendo rapidamente verso Calcutta, trascinando ammassi di detriti, di erbe e non pochi tronchi d’albero.
– Alla riva destra!- comandò il capo dei remiganti. – Tra un’ora saremo al forte.
La baleniera raggiunse la riva destra, ove la marea si fa sentire più rapida che sulla riva sinistra, e riprese la navigazione potentemente aiutata dai remi vigorosamente ed abilmente manovrati.
La fregata (prima parte)
28 Maggio 2007 Di Lascia un commento
Speak Your Mind