– Ebbene, mio caro, – disse Macpherson con accento sarcastico,-come hai passata la notte?
– Credo di averla passata meglio di te, – rispose lo strangolatore.
– E cos’hai deciso?
– Che non parlerò. La mano del capitano corse all’impugnatura della sciabola.
– Che sieno tutti eguali, questi rettili? – gridò egli.
– Pare che sia così, – disse lo strangolatore.
– Non dirlo così presto, però. Ti dissi che posseggo dei mezzi terribili.
– Non abbastanza terribili pei “thugs”.
– Dei mezzi che martirizzano al punto da invocare la morte.
– Mezzi che non valgono i nostri.
– Lo vedremo quando ti contorcerai fra gli spasimi più tremendi.
– Puoi cominciare subito.
Il capitano impallidì, poi un’ondata di sangue gli salì al volto.
– Non vuoi proprio parlare, adunque? – gli chiese con voce strozzata dall’ira.
– No, non parlerò.
– E’ la tua ultima risposta? Bada…
– L’ultima.
– Sta bene, ora agiremo. Bhârata?
Il sergente s’avvicinò.
– C’è un palo nel sotterraneo?
– Sì, capitano.
– Legherai solidamente quell’uomo.
– Bene, capitano.
– Quando il sonno lo vincerà, lo terrai desto a colpi di spillo. Se fra tre giorni non parlerà, farai macerare le sue carni a colpi di frusta. Se si ostina ancora, verserai dell’olio bollente, goccia a goccia, sulle sue ferite.
– Fidatevi di me, capitano. Aiutami, Saranguy.
Il sergente e Tremal-Naik trascinarono via lo strangolatore, il quale aveva ascoltato la sentenza senza che un muscolo del suo volto trasalisse Discesero una scala a chiocciola molto profonda ed entrarono in una specie di cantina molto vasta, sostenuta da volte, ed illuminata da una feritoia aperta a fior di terra, difesa da solide sbarre di ferro.
Nel mezzo ergevasi un palo, a cui fu legato lo strangolatore. Bhârata vi pose accanto tre o quattro spilli lunghi e colla punta acutissima.
– Chi veglierà? – chiese Tremal-Naik.
– Tu, fino a questa sera. Poi un sipai ti darà il cambio.
– Va bene.- Se il nostro uomo chiude gli occhi, pungi forte.
– Ti obbedirò, – rispose Tremal-Naik con calma glaciale.
Il sergente risalì la scala. Tremal-Naik lo seguì con lo sguardo fino che poté, poi, quando ogni rumore cessò, si sedette di fronte allo strangolatore che lo fissava tranquillamente.
– Ascoltami, – disse Tremal-Naik abbassando la voce.
– Hai anche tu qualche cosa da dire? – chiese Negapatnan, beffardamente.
– Conosci Kougli?
Lo strangolatore udendo quel nome trasalì.
– Kougli!- esclamò. – Non so chi sia.
– Sei prudente, sta bene. Conosci Suyodhana?
– Chi sei tu? – chiese Negapatnan, con manifesto terrore.
– Uno strangolatore come lo sei tu, come lo è Kougli, come lo è Suyodhana.
– Tu menti.
– Ti do una prova che dico il vero. La nostra sede non è nella jungla, né a Calcutta, né sulle rive del sacro fiume, ma nei sotterranei di Raimangal.
Il prigioniero rattenne a gran pena un grido, che stavagli per uscire dalle labbra.
– Che sia vero che tu sei dei nostri? – chiese egli.
– Non ti ho dato le prove?
– E’ vero. Ma perché sei venuto qui?
– Per salvarti.
– Per salvare me?
– Sì.
– Ma come? Con qual mezzo?
– Lascia fare a me e prima di mezzanotte sarai libero.
– E fuggiremo assieme.
– No, io rimango qui. Ho un’altra missione da compiere.
– Una qualche vendetta?
– Forse, – disse Tremal-Naik con aria tetra. – Ora silenzio e aspettiamo le tenebre.
Lasciò il prigioniero ed andò a sedersi ai piedi della scala, aspettando pazientemente la notte.
La giornata lentamente passò. Il sole scomparve dietro l’orizzonte e l’oscurità divenne profonda nella cantina.
Era il momento opportuno per agire. Fra un’ora e forse meno, il sipai doveva scendere.
– All’opera, – disse Tremal-Naik, alzandosi bruscamente e traendo dalla cintola due lime inglesi.
– C’è da fare? – chiese Negapatnan, con emozione.
– Devi aiutarmi, – rispose Tremal-Naik. Taglieremo le sbarre della feritoia.
– Non s’accorgeranno che tu mi hai aiutato a fuggire?
– Non s’accorgeranno di nulla.
Sciolse i legami che stringevano il corpo, le braccia ed entrambi i piedi del prigioniero, e assalirono vigorosamente i ferri, cercando di non fare rumore.
Tre sbarre erano state di già divelte e non ne rimaneva che una, quando Tremal-Naik avvertì uno scalpiccìo che veniva dalla scala.
– Fermati! – diss’egli rapidamente. Qualcuno scende.
– Il sipai forse?
– Certo è lui.
– Allora siamo perduti.
– Non ancora. Sai gettare il laccio?
– Giammai fallii il colpo.
Tremal-Naik sciolse il laccio che portava stretto attorno al corpo, nascosto dal “dubgah” e glielo diede.
– Mettiti presso alla porta – gli disse, estraendo il pugnale. – Il primo che appare, uccidilo.
Negapatnan ubbidì prendendo il laccio nella mano dritta. Tremal-Naik si mise di fronte a lui, dietro allo stipite della porta, col pugnale alzato.
Il rumore andava avvicinandosi. D’un tratto un lume rischiarò la scala e apparve un sipai, con una scimitarra sguainata.
– Attento, Negapatnan, – bisbigliò Tremal-Naik.
La faccia del thug divenne terribile. Gli occhi mandavano sinistri bagliori. Le labbra lasciavano a nudo i denti, le nari si dilatavano.
Pareva una bestia assetata di sangue. Il sipai si arrestò sull’ultimo pianerottolo.
– Saranguy! – chiamò.
– Scendi, – disse Tremal-Naik. – Non ci si vede più.
– Va bene, – rispose, e varcò la soglia della cantina.
Negapatnan era lì. Il laccio fischiò nell’aria e si strinse così fortemente attorno al collo, che il sipai cadde al suolo senza emettere un lamento.
– Devo strozzarlo? – chiese il thug, ponendo un piede sul petto del caduto.
– E’ necessario, disse Tremal-Naik, freddamente.
Negapatnan tirò a sé il laccio. La lingua del sipai uscì un palmo dalle labbra, gli occhi schizzarono dalle orbite e la pelle da bronzina divenne nera. Agitò per qualche istante le braccia, poi si irrigidì. Era morto.
– Che la dea Kâlì abbia il suo sangue, – disse il fanatico, sciogliendo il laccio. – Spicciamoci, prima che scenda qualche altro.
La feritoia fu nuovamente assalita e la quarta sbarra fu spezzata.
– Passerai? – chiese Tremal-Naik.
– Passerei per una feritoia molto più stretta.
– Sta bene. Ora legami solidamente e imbavagliami.
– Il “thug” lo guardò con sorpresa.
– Io legarti? E perché? – chiese.
– Perché non si sospetti che io sono uno dei tuoi.
– Ti capisco. Sei più astuto di me.
Tremal-Naik si gettò in terra presso al cadavere del sipai, e Negapatnan lo legò e lo imbavagliò.
– Sei un brav’uomo, – disse il thug. – Se un giorno avrai bisogno di un amico fedele, ricordati di me. Addio.
Si slanciò verso la feritoia, dopo di essersi armato delle pistole del sipai, vi si issò e scomparve.
Non erano trascorsi ancora dieci secondi, che s’udì un colpo di fucile ed una voce gridare:
– All’armi! Un uomo fugge!
La fuga del “thug” (seconda parte)
11 Maggio 2007 Di Leave a Comment
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