Uscita dalla pagoda, Ada, ancora commossa, col volto ancor bagnato di lagrime, ma gli occhi sfavillanti di fierezza, era entrata in un piccolo salotto coperto da stuoie dipinte e decorato da mostruose divinità, poco dissimili da quelle di già descritte. Il serpente dalla testa di donna, la statua di bronzo dal volto orribile e la vasca di marmo bianco col pesciolino rosso, non mancavano.
Un uomo era di già entrato e passeggiava innanzi e indietro con visibile impazienza. Era un indiano di alta statura, magro come un bastone, col volto energico, lo sguardo lampeggiante e feroce, e il mento coperto da una piccola barba nera ed arruffata. Portava, avvolto attorno al corpo, un ricco “dootèe”, specie di mantello di seta gialla, trapunto in oro con in mezzo il misterioso emblema. Le braccia che aveva nude, erano coperte di cicatrici bianche e da bizzarri segni, che un indiano stesso si sarebbe rotto il capo senza pur decifrarli.
Nello scorgere Ada, quest’uomo si era fermato di botto fissando su di lei uno sguardo che aveva dei bagliori strani, e le sue labbra s’atteggiarono ad un riso, anzi ad un sogghigno che incuteva spavento.
– Salve alla “vergine della pagoda” – diss’egli, inginocchiandosi dinanzi alla giovanetta.
– Salve al gran capo prediletto della divinità, rispose Ada con voce tremante.
Entrambi tacquero, guardandosi fissamente. Pareva che cercassero reciprocamente di leggersi il pensiero che attraversava la loro mente.
– Vergine della pagoda sacra, – disse dopo qualche tempo l’indiano, – tu corri un gran pericolo.
– Ada fremette. L’accento dell’indiano era cupo e minaccioso.
– Dove sei stata questa notte? Mi dissero che tu sei entrata nella pagoda.
– E’ vero. Tu mi inviasti dei profumi e li versai ai piedi della tua divinità.
– Dici la nostra.
– Sì, la nostra, – disse la giovanetta coi denti stretti.
– Cos’hai veduto nella pagoda?
– Nulla.
– Vergine della pagoda, tu corri un gran pericolo,- ripeté l’indiano con voce ancor più cupa. – Io ho scoperto tutto!…
Ada aveva fatto un balzo indietro, gettando un urlo d’orrore.
– Sì, – proseguì l’indiano con rabbia concentrata, – ho scoperto tutto! Il tuo cuore, condannato a non battere mai su questa terra, ha palpitato d’amore per un uomo che tu vedesti nella jungla nera.
Quest’uomo è sbarcato la notte scorsa sui nostri domini e dopo d’aver alzato la mano su di noi, d’aver commesso un orrendo delitto, scomparve, ma io lo ritrovai. Quest’uomo è entrato nella pagoda.
– Tu menti! tu menti! – esclamò la sventurata giovanetta.
– Vergine della pagoda, amando quell’uomo hai mancato ai tuoi doveri.
Buon per te che quell’uomo non ardì alzare le sue mani su di te.
– Tu menti! tu menti! – ripeté la giovanetta, smarrita.
– Ma quell’uomo non uscirà vivo di qui, – ripigliò l’indiano con gioia feroce. – Folle, ei voleva sfidare noi potenti, noi che facciamo tremare l’Inghilterra. Il serpente entrò nella tana del leone e il leone lo sbranerà.
– Non farlo!
L’indiano si mise a sogghignare.
– Chi è che s’oppone ai voleri della nostra divinità?
– Io!
– Tu? – Sì, io, miserabile. Guarda!
Ada con un movimento rapido, aveva gettato a terra il “sari”, s’era armata di un pugnale dalla lama serpeggiante tinta d’un sottile veleno e se l’aveva appuntato alla gola. L’indiano da abbronzato che era, divenne nerastro.
– Cosa vuoi fare? – chiese egli, sgomentato.
– Suyodhana, – disse la giovanetta con un tono di voce da non lasciare dubbio. – Se tu tocchi un sol capello a quell’uomo, ti giuro che la tua dea perderà la sua vergine.
– Getta quel pugnale!
– Suyodhana, giura sulla tua dea che Tremal-Naik uscirà vivo di qui.
– E’ impossibile. Quell’uomo è condannato: il suo sangue è già destinato alla dea.
– Giuralo! – disse Ada con accento minaccioso.
Suyodhana si raccolse su se stesso come per slanciarsi verso di lei, ma la paura di giungere troppo tardi l’arrestò.
– Senti, “vergine della pagoda”, – disse egli, ostentando calma. – Quell’uomo sarà salvo, ma tu devi solennemente giurare che non l’amerai mai!
Ada mandò uno straziante gemito e si torse disperatamente le mani.
– Tu mi uccidi! – esclamò ella, singhiozzando.
– Sei l’eletta della nostra dea.
– Perché, mostruose creature, troncare sì presto una felicità appena nata? Perché spegnere sì presto il raggio di sole che inondava questo povero cuore chiuso ad ogni gioia? No, non è possibile ch’io infranga questa passione che è ormai gigante.
– Giuralo e quell’uomo è salvo.
– Sei tu dunque inesorabile? Non v’è più adunque alcuna speranza? Ma io rinnego la spaventevole tua dea che mi fa orrore, che maledii sin dal primo giorno che la fatalità mi gettò fra le vostre braccia.
– Siamo inesorabili, – incalzò l’indiano – Ma non hai tu adunque mai amato? – chiese ella, piangendo di rabbia.
– Non sai adunque cosa sia una passione infranta?
– Non so cosa sia l’amore, – disse l’inflessibile indiano. Giura, “vergine della pagoda”, o io spengo quell’uomo.
– Ah! maledetti!…
– Giura!
– Ebbene!… – esclamò l’infelice con voce spenta.- Io… io giuro…
che non amerò… più quell’uomo.
Emise un urlo disperato, straziante, si portò le mani al cuore e cadde priva di sensi sulle stuoie. L’indiano ruppe in uno scroscio di risa.
– Tu hai giurato che non l’amerai, – diss’egli con satanica gioia, raccogliendo il pugnale che la giovanetta aveva lasciato cadere. – Ma io non ho giurato che quell’uomo uscirà vivo di qui. Sorridi, eccelsa divinità e gioisci: questa notte ti offriremo una nuova vittima!
Accostò alle labbra uno zuffolo d’oro e cavò un acuto fischio.
Un indiano, col laccio stretto attorno ai fianchi ed il pugnale in mano entrò, inginocchiandosi dinanzi a Suyodhana.
– “Figlio delle sacre acque del Gange”, eccomi, diss’egli.
– Karna, – disse Suyodhana, – porta via la “vergine della pagoda” e veglia su di lei.
– Conta su di me, “figlio delle sacre acque del Gange”.
– Quella vergine tenterà forse di suicidarsi, ma tu glielo impedirai, giacché la nostra divinità non ha per ora che costei. Se muore, morrai tu pure.
– Lo impedirò.
– Radunerai poscia una cinquantina dei più fanatici e li disporrai intorno alla pagoda. L’uomo non deve sfuggirci.
– V’è un uomo nella pagoda?
– Sì, Tremal-Naik, il “cacciatore di serpenti” della jungla nera. Va ed a mezzanotte sii qui.
L’indiano afferrò la povera Ada fra le braccia ed uscì. Suyodhana, o meglio il “figlio delle sacre acque del Gange”, aspettò che ogni rumore di passi fosse cessato, poi s’inginocchiò dinanzi alla vaschetta di marmo, nella quale guizzava il pesciolino dorato.
– Padre mio, – diss’egli.
Il pesciolino che nuotava in fondo al bacino, a quella voce venne a galla.
– Padre mio, – proseguì l’indiano. – Un uomo, un miserabile, ha alzato gli occhi sulla “vergine della pagoda”. Quest’uomo è in mano nostra; vuoi che viva o che muoia?
Il pesciolino si sprofondò nuotando con vivacità. Suyodhana si alzò di scatto: un sinistro lampo balenò nei suoi sguardi.
– La dea l’ha condannato, – diss’egli con voce cupa… – Quell’uomo morrà!
Tremal-Naik, rimasto solo, s’era lasciato cadere ai piedi della statua comprimendosi fortemente il cuore che battevagli furiosamente, come se volesse uscirgli dal petto. Giammai un’emozione simile aveva scosso le sue fibre; giammai aveva provato tanta gioia, nella solitaria e selvaggia sua vita fra le canne e le tigri.
– Bella! bella! – esclamava egli, senza por mente che trovavasi nella pagoda maledetta e che forse cento orecchi l’ascoltavano. – Oh! sarai mia sposa, sì, vago fiore della jungla, dovessi mettere a ferro e a fuoco questa isola, dovessi da solo cozzare coi mostri che ti hanno condannato. Uscirò di qui, ritroverò i miei prodi compagni ed allora ti rapirò, ti salverò. Essi son forti, tu hai detto, essi sono terribili, ma io sarò più forte e più terribile e farò loro scontare a caro prezzo quelle lagrime che tu, infelice, hai sparso dinanzi a me.
L’amore mi darà la forza di compiere tale impresa.
Si era alzato e si era messo a passeggiare, agitatissimo, colle pugna convulsivamente chiuse ed i lineamenti sconvolti da una rabbia concentrata.
– Povera Ada! – ripigliò egli, con profonda tenerezza. – Qual destino mai pesa su di te? Perché tu non puoi amarmi? La morte troncherà la tua vita, hai detto, il giorno che tu dovessi diventar mia sposa; ma io l’arresterò questa morte, io la infrangerò colle mie proprie mani.
Oh! svelerò sì, questo tremendo mistero e quel giorno tremino gli sciagurati che ti condannarono.
Egli s’arrestò udendo le acute note del “ramsinga”.
– Maledetto istrumento! – esclamò. – Suona sempre!
Rabbrividì al pensiero che gli attraversò il cervello.
– Questa tromba annuncia una sventura, – mormorò. – Che m’abbiano scoperto o che abbiano ucciso Kammamuri?
Rattenne il respiro tendendo gli orecchi. Il suo fine udito raccolse un brusìo di voci, che sembravano venire dal di fuori.
– Cosa vuol dir ciò? Al di fuori v’è della gente. Che sieno gli indiani, gli abitanti di questi funebri luoghi?
Si guardò intorno con superstizioso terrore, ma era affatto solo, guardò l’apertura della pagoda, ma era affatto libera.
– Qualche cosa sta per succedere, lo sento, disse a voce bassa, – ma mostrerò chi sia Tremal-Naik, quando si batte.
Esaminò le cariche delle pistole e della carabina, temendo forse che una mano misteriosa le avesse levate; esaminò persino la lama del suo fedele pugnale, tinto più di cento volte nel sangue dei serpenti e delle tigri, e s’accoccolò dietro alla mostruosa statua, rimpicciolendosi più che gli era possibile.
La “vergine della pagoda” (terza parte)
19 Marzo 2007 Di Lascia un commento
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