Lo strangolatore (seconda parte)

Talvolta si chinava verso terra ed ascoltava, fingendo di cercare le traccie dell’elefante. Quel brusco cangiamento, quegli sguardi e quelle manovre, non sfuggirono ad Aghur, il quale credette che il bengalese avesse paura.
– Animo, Manciadi, diss’egli, allegramente. – Non credere che sia tanto difficile abbattere una bestia, anche se è munita di proboscide.
Una palla in un occhio e tutto sarà finito.
– Non ho paura io, – rispose bruscamente il bengalese, sforzandosi, ma invano, di atteggiare le sue labbra ad un sorriso.
– Mi sembri inquieto.
– Infatti lo sono, ma non è l’elefante che mi preoccupa.
– E che cosa, adunque?
– Aghur, – disse Manciadi con accento strano. – Hai paura della morte?
– Se ho paura della morte?… Perché mi fai questa domanda? Non ho mai avuto paura di nulla… io!
– Meglio per te.
– Non ti capisco.
– Comprenderai fra qualche ora, silenzio ed avanti.
– E’ pazzo, – pensò Aghur, – o mezzo morto dalla paura. Sta bene, lo abbatterò io il colosso.
I due indiani affrettarono il passo, malgrado il sole che gli arrostiva e gli ostacoli che ingombravano il sentiero, e un’ora dopo giungevano in un boschetto di giacchieri alberi, le cui frutta, anziché pendere all’estremità dei rami, escono direttamente dal tronco, d’un bel colore giallo, d’una fragranza straordinaria e del peso di oltre trenta libbre.
Quivi giunti, Manciadi con grande sorpresa del compagno, si mise a fischiare un’arietta malinconica, giammai udita nella jungla nera.
– Cosa fai? – gli chiese Aghur.
– Fischio, – rispose Manciadi tranquillamente.
– Farai fuggire l’elefante.
– Anzi lo attiro. Gli elefanti amano la musica e, quando la odono, accorrono.
– To’! non l’ho mai saputo.
– Cammina, Aghur, e guardati ben d’attorno. Sai tu dove trovasi uno stagno?
– Qui vicino.
– Andiamo.
Aghur, quantunque tuttociò gli sembrasse assai strano, ubbidì.. Prese un sentieruccio appena visibile e condusse il compagno sulle rive di un piccolo stagno contornato da ammassi di pietre rozzamente scolpite rovine di un’antica pagoda.
– Tu rimarrai qui, – gli disse il bengalese. – Io batto il bosco e scovo l’elefante, poiché qui dev’essere nascosto.
Si mise sotto il braccio la carabina e si allontanò senza aggiungere sillaba. Appena fu certo di non essere né veduto, né udito, si mise a correre rapidamente e si arrestò ai piedi di un palmizio, sul cui tronco vedevasi rozzamente inciso l’emblema misterioso degl’indiani di Raimangal.
– A me ora, diss’egli. – Questo bosco sarà la sua tomba.
Si drizzò quanto era lungo ed emise un fischio. Un segnale eguale vi rispose e qualche minuto dopo, fra il varco di due cespugli appariva la sinistra figura di Suyodhana. Egli incrociò le braccia sul petto, fregiato del serpente dalla testa di donna, e fissò Manciadi con uno sguardo acuto come la punta d’una spilla.
– “Figlio delle sacre acque del Gange”, sii il benvenuto, – disse il bengalese, toccando la polvere colla fronte.
– Ebbene? – chiese brevemente Suyodhana.
– Siamo battuti.
– Che vuoi tu dire?
– Tremal-Naik è vivo.
Suyodhana divenne ancor più cupo e si conficcò le unghie nelle carni.
– Avrei mancato al colpo? – ringhiò egli. – Eppure il pugnale vendicatore gli squarciò il seno!
Chinò il capo sul petto e s’immerse in tetri pensieri.
– Manciadi, – disse dopo qualche tempo, quell’uomo deve morire.
– Comanda, “figlio delle sacre acque del Gange”.
– La vergine della sacra pagoda fu profondamente ferita dal velenoso sguardo di quell’uomo. La sciagurata ancora l’ama, né cesserà d’amarlo finché egli vivrà.
– Crederà alla sua morte?
– Sì, perché io le darò le prove.
– Cosa devo fare? Devo avvelenarlo?
– No, il veleno non sempre uccide; vi sono degli antidoti.
– Devo strangolarlo? Ho il mio laccio.
– Andiamo adagio. Hai eseguito quanto ti ordinai?
– Sì, “figlio delle sacre acque del Gange”. Aghur m’attende presso lo stagno.
– Bene, tu lo ucciderai.
– E poi? chiese il fanatico con terribile calma.
– Poi tornerai alla capanna e narrerai a Kammamuri che Aghur fu assassinato. Ti crederà e correrà a cercarlo; comprendi il resto.
– Hai altro da dirmi?
– Più nulla.
– E strangolato che abbia Tremal-Naik, cosa dovrò fare?
– Raggiungermi a Raimangal: va’!
Manciadi toccò una seconda volta la polvere colla fronte e si allontanò colla dritta sul calcio d’una pistola.
– Decisamente, – disse il bengalese, – il “figlio delle sacre acque del Gange” è un grande uomo!
Il fanatico non pensò nemmeno al doppio assassinio che stava per commettere. Suyodhana così aveva ordinato, e Suyodhana parlava in nome della mostruosa divinità alla quale tutti loro avevano consacrato il loro braccio e la loro vita. Attraversò lentamente il bosco dei giacchieri e giunse allo stagno, presso il quale stava sdraiato, colla carabina sulle ginocchia, la futura vittima.
– Hai veduto l’elefante? – gli chiese Aghur.
– Non ancora, ma ho scoperto le sue traccie, disse l’assassino guardandolo con due occhi che mandavano sinistri bagliori.
– Cos’hai che mi guardi così? – domandò Aghur.
Il bengalese non rispose e continuò a guardarlo.
– Hai scoperto qualche cosa di strano?
– Sì, – rispose Manciadi. – Aghur, ti ricordi cosa ti dissi un’ora fa?
– L’indiano parve sorpreso ed inquieto. Forse presentiva la catastrofe.
– Allorché mi parlasti della morte?
– Sì.
– Me lo ricordo, – rispose Aghur.
– Non ti sembra crudele morire a vent’anni, quando l’avvenire forse sorride? Non ti sembra atroce abbandonare questa terra indorata dal sole e profumata dall’olezzo di mille fiori, per scendere nella tomba, nell’oscurità, nel mistero?
– Sei pazzo? – domandò Aghur.
– No, Aghur, non sono pazzo, – disse l’assassino avvicinandoglisi fino a toccarlo. – Guarda! – Aprì la tunica che coprivalo e mise allo scoperto il suo petto tatuato del serpente colla testa di donna.
– Cos’è? – chiese Aghur.
– L’emblema della morte.
– Non capisco.
– Tanto peggio per te.
Il bengalese sciolse il laccio che teneva nascosto sotto la tunica e lo fece fischiare attorno alla sua testa.
– Aghur! – gridò, – Suyodhana ti ha condannato e devi morire!
L’indiano comprese allora tutto. Balzò in piedi colla carabina in mano, ma gli mancò il tempo di puntarla sul traditore.
Un fischio tagliò l’aria e il poveretto, stretto alla gola dal laccio, la cui palla di piombo lo percosse fortemente alla nuca, stramazzò a terra.
– Assassino!… – urlò egli con voce strozzata.
– Aghur! – disse lo strangolatore con accento funebre. – Saluta un’ultima volta il sole che ti accarezza, respira un’ultima volta quest’aria che corre sulle “Sunderbunds”, invia l’estremo saluto ai tuoi compagni e scendi nella tomba.
-Kammamuri!… Padrone!… – balbettò Aghur, dibattendosi.
Il fanatico afferrò solidamente il laccio e soffocò la voce della vittima con una violenta strappata, poi gli si gettò sopra e col pugnale lo trafisse.
– Muori, ché la dea lo vuole! – gli gridò un’ultima volta Manciadi.
Aghur, col volto cinereo, gli occhi schizzanti dalle orbite cacciò fuori un rauco gemito e cercò di risollevarsi, ma ricadde.
– E uno, – disse il fanatico, lanciando un guardo feroce sull’assassinato. – Ora, pensiamo all’altro.
E s’allontanò a rapidi passi, mentre uno stormo di marabù calava sul cadavere ancor caldo dell’infelice Aghur.

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