Manciadi (seconda parte)

Ben presto s’avvidero che l’oggetto nero che andava alla riva era il tronco di un albero, a cui era aggrappato un uomo. In pochi istanti lo raggiunsero allungando le mani al naufrago, che le afferrò colla forza della disperazione.
– Salvatemi!… – balbettò egli ancora una volta, lasciandosi deporre nel fondo del battello.
I due indiani si curvarono su di lui osservandolo con curiosità. Era un uomo della loro razza, bengalese al tipo, di statura inferiore alla media, di colorito assai oscuro, estremamente magro ma coi muscoli assai pronunciati, indizio sicuro d’una forza non comune. Aveva la faccia qua e là contusa e la gialla tunica, strettamente chiusa al corpo, macchiata di sangue.
– Sei ferito? – gli domandò Kammamuri.
Quell’uomo lo fissò attentamente con due occhi che avevano strani riflessi.
– Credo, – mormorò dipoi.
– Hai la veste insanguinata. Lasciami vedere – Non è nulla, – diss’egli, mettendosi le mani sul petto, come se avesse paura di metterlo allo scoperto. – Ho battuto la testa su quel tronco d’albero e mi sanguinò il naso.
– Da dove vieni?
– Da Calcutta.
– Ti chiami?
– Manciadi.
– Ma come ti trovi qui?
Il bengalese tremò in tutte le membra, battendo i denti.
– Chi abita questi luoghi? – chiese egli, con terrore.
– Tremal-Naik, il “cacciatore di serpenti”, – rispose Kammamuri.
Manciadi tornò a tremare.
– Feroce uomo, – balbettò.
Aghur ed il maharatto si guardarono l’un l’altro con sorpresa.
– Tu sei pazzo, – disse Aghur.
– Pazzo!… Non sai tu che i suoi uomini mi diedero la caccia, come se fossi una tigre?
– I suoi uomini ti diedero la caccia! Ma siamo noi i suoi compagni.
Il bengalese si raddrizzò, guardandoli con ispavento.
– Voi!… Voi!… – ripeté. – Sono perduto!
S’aggrappò all’orlo del canotto colla evidente intenzione di lanciarsi nel fiume, ma Kammamuri l’afferrò a mezzo corpo obbligandolo a sedersi.
– Spiegami la causa di questo spavento, – gli disse con accento minaccioso. – Noi non facciamo male ad alcuno, ma ti avverto che se tu non parli chiaro ti spacco il cranio col calcio della mia carabina.
– Volete assassinarmi! – piagnucolò Manciadi.
– Sì, se non ti spieghi. Cosa sei venuto a far qui?
– Sono un povero indiano e campo la vita cacciando. Un capitano dei sipai mi promise cento rupie per una pelle di tigre, e qui venni sperando di soddisfarlo.
– Tira avanti.
– Ieri sera approdai alla riva opposta del Mangal, e mi appiattai nella jungla, due ore dopo mi si slanciarono addosso alcuni uomini e mi sentii stringere il collo da un laccio…
– Ah! – esclamarono i due indiani. – Un laccio, hai detto?
– Sì – confermò il bengalese.
– Gii hai veduti quegli uomini? – chiese Aghur.
– Sì, come vedo voi.
– Cosa avevano sul petto?
– Mi pare d’aver visto un tatuaggio.
– Erano quelli di Raimangal, – disse Kammamuri. – Continua.
– Impugnai il mio coltello, – proseguì Manciadi, che fremeva ancora per lo spavento, – e tagliai la corda. Corsi a lungo inseguito dappresso e giunto al fiume mi vi gettai dentro a capofitto.
– Sappiamo il resto, – disse il maharatto. – Tu adunque sei cacciatore.
– Sì, e valente.
– Vuoi venire con noi?
– Un lampo strano brillò negli occhi del bengalese.
– Non domando di meglio, – s’affrettò a dire. Sono solo al mondo.
– Sta bene, noi ti adottiamo. Domani mattina ti presenterò al padrone.
I due indiani rituffarono i remi nel fiume e ricondussero il canotto nel piccolo seno. Appena sbarcarono, Punthy si slanciò contro il bengalese, abbaiando rabbiosamente e mostrandogli i denti.
– Zitto, Punthy, – disse Kammamuri, trattenendolo.- E’ uno dei nostri.
Il cane, anziché obbedire, si mise a ringhiare minacciosamente.
– Questa bestia mi pare che non sia troppo cortese, – disse Manciadi, sforzandosi a sorridere.
– Non aver paura, ti diventerà amico, – disse il maharatto.
Legato il canotto, raggiunsero la capanna dinanzi alla quale vegliava la tigre. Cosa strana, anche questa si mise a brontolare in modo tutt’altro che amichevole, guardando di traverso il nuovo arrivato.
– Oh! – esclamò egli spaventato. – Una tigre!
– E’ addomesticata. Fermati qui che vado dal padrone.
– Dal padrone! E’ qui forse? – chiese il bengalese attonito.
– Sicuro.
– Ancora vivo!…
– To’! – esclamò il maharatto sorpreso. – Perché tale domanda?
Il bengalese trasalì e parve confuso.
– Come sai tu che è ferito, per farmi tale domanda? – replicò Kammamuri.
– Non m’hai detto tu che era stato ferito?
– Io!…
– Mi sembra.
– Non mi rammento.
– Eppure non posso averlo udito dire che da te o dal tuo compagno.
– Cosi deve essere.
Kammamuri ed Aghur rientrarono nella capanna. Tremal-Naik dormiva profondamente e sognava, poiché delle parole tronche uscivano dalle sue labbra.
– Non vale la pena di svegliarlo, – borbottò Kammamuri, volgendosi ad Aghur.
– Lo presenteremo domani, disse quest’ultimo. – Cosa ti sembra di quel Manciadi?
– Ha l’aspetto d’un buon uomo e ho tutte le ragioni per credere che ci aiuterà validamente.
– Lo credo anch’io.
– Lo faremo vegliare lui fino a domani.
Aghur prese una terrina di cangi, densa decozione di riso, e la recò a Manciadi il quale si mise a mangiare con una voracità da lupo.
Raccomandatogli di fare buona guardia e di dare l’allerta se scorgesse qualche pericolo, s’affrettò a rientrare, chiudendo, per precauzione, la porta.
Era appena scomparso che Manciadi s’alzò con una sveltezza sorprendente. I suoi occhi s’erano d’un subito accesi e sulle sue labbra errava un satanico sorriso.
– Ah! Ah! – esclamò egli, sogghignando.
S’accostò alla capanna e vi appoggiò l’orecchio, ascoltando con profondo raccoglimento. Stette così un lungo quarto d’ora, poi partì colla rapidità di una freccia arrestandosi mezzo miglio più lontano.
Accostò le dita alle labbra ed emise un acuto fischio. Tosto al sud un punto rossastro si alzò fendendo le tenebre e scoppiò spandendo una luce vivida che subito si spense con una sorda detonazione.
Altre due volte il fischio risuonò, poi nella jungla tutto tornò silenzio e mistero.

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