Una notte terribile (seconda parte)

S’affrettò a raggiungere il padrone ed a liberarlo dalle erbe che lo coprivano.
– Silenzio, – diss’egli, ponendogli un dito sulle labbra. – Se ci ode, siamo irremissibilmente perduti.
Ma Tremal-Naik, in preda al delirio, agitava pazzamente le braccia e dalle labbra gli uscivano parole insensate:
– Ada… Ada!… – gridava egli, sbarrando spaventosamente gli occhi – dove se’ tu, “vergine della pagoda”?… Ah! ah! mi ricordo… Sì, mezzanotte! mezzanotte!… Ed essi sono venuti, tutti armati, molti contro uno, ma non ho paura no, io, non tremo, sai, Ada, sono il “cacciatore di serpenti”… forte! molto forte! L’ho visto sai quell’uomo, quello che ti ha condannata. Era brutto, molto brutto e voleva strangolarmi. Perché quegli uomini hanno dei lacci? Perché hanno anche loro il serpente sul petto? Quanti serpenti, quante teste di donna. Ma non mi fan paura. Che? io aver paura di loro? Io, Tremal- Naik?… Ah!… Ah!…
Tremal-Naik diede in uno scroscio di risa, che fece fremere il maharatto fino in fondo all’anima.
– Ma padrone, sta’ zitto! – supplicò Kammamuri, che udiva il maledetto animale saltare furiosamente sul limite della jungla.
Il delirante lo guardò con occhi semi-chiusi e proseguì a voce più alta:
– Era notte, notte molto buia, io scendevo dall’alto e sotto di me vagava la visione. L’ho udito il profumo cadere sulle pietre. Perché, crudele, adorare quella divinità? Non mi ami tu adunque?… Tu sorridi, ma io fremo. Tu sai quanto ti ama il “cacciatore di serpenti”. Avrei forse un rivale? Guai a lui!… Guarda che si avvicinano i maledetti… ridono, sghignazzano e mi minacciano… via di qui, via, assassini, via, via!… Hanno ancora i lacci, li gettano… aspettate che io vengo… La vendicherò, assassini, eccomi!… Kammamuri ! Kammamuri ! mi strangolano !
Il delirante si alzò a sedere cogli occhi stralunati e la schiuma alle labbra e tendendo il pugno chiuso verso il maharatto gridò:
– Sei tu che vuoi strangolarmi? Kammamuri, dammi le pistole che lo accoppi.
– Padrone, padrone, – balbettò il maharatto.
– Ah tu… non sai chi sono? Kammamuri, mi strangolano!… Aiuto!…
aiu…
Il maharatto gli soffocò le grida, mettendogli rapidamente una mano sulla bocca e rovesciandolo a terra. Il ferito si dibatteva furiosamente ruggendo come una fiera.
– Aiuto!… – tornò ad urlare.
Dalla parte degli alberi si udì un potente grugnito. Il maharatto, tremante di spavento, vide il muso triangolare del rinoceronte far capolino fra le fronde. Si tenne per perduto.
– Grande Siva! – esclamò, raccogliendo in furia la carabina.
Il rinoceronte guardò il gruppo coi suoi occhietti piccoli e brillanti, ma più con sorpresa che con collera.
Non vi era un istante da perdere. Quella sorpresa non doveva durare molto, per quel brutale colosso, che tanto facilmente si irrita.
Il maharatto, reso ardito dall’imminenza del pericolo, puntò freddamente la carabina, mirò uno degli occhi e lasciò partire la scarica, ma la palla mal diretta si schiacciò sulla fronte del rinoceronte, il quale tese orizzontalmente il corno preparandosi ad assalire.
La perdita dei due indiani era ormai quasi certa. Ancora pochi minuti e avrebbero subìta la medesima sorte della tigre.
Fortunatamente Kammamuri non aveva perduto il suo sangue freddo. Visto l’animale ancora in piedi, lasciò cadere l’arma diventata inutile, si precipitò sopra Tremal-Naik, lo sollevò fra le sue braccia, corse allo stagno e saltò dentro, sprofondando fino alle spalle.
Il rinoceronte caricava allora con furia irresistibile. In quattro salti varcò la distanza e piombò pesantemente nell’acqua, sollevando uno sprazzo di fango e di spuma.
Kammamuri, atterrito, cercò di fuggire, ma non lo poté. Le sue gambe si erano affondate in una sabbia tenacissima e in modo tale, che ogni sforzo riusciva inutile.
Il poveretto, mezzo asfissiato, tremante, pallido, gettò un urlo straziante:
– Aiuto! Son morto!…
Udendo dietro di sé sordi fischi, si volse e vide il rinoceronte dibattersi furiosamente e avventare a destra e a sinistra tremendi colpi di corno. Il colosso, trascinato dall’enorme peso, era affondato fino al ventre e continuava ad affondare nelle sabbie mobili.
– Aiuto!… – ripeté il maharatto, sforzandosi di mantenere fuori dall’acqua il padrone.
Un lontano latrato rispose alla disperata chiamata. Kammamuri trasalì:
quel latrato l’aveva udito ancora e non una, ma mille volte. Una pazza speranza gli balenò in mente.
– Punthy!… – gridò.
Un cane nero, vigoroso, grosso, sbucò dalla fitta massa di bambù e corse verso lo stagno latrando con furore. Quel cane che arrivava in così buon punto, era proprio il fedele Punthy, il quale lanciossi contro il rinoceronte tentando di azzannargli un orecchio. Quasi nel medesimo istante si udì la voce di Aghur.
– Tieni fermo, Kammamuri! – gridava il bravo giovanotto. – Ci sono!…
Il bengalese con un salto varcò una fitta macchia, scomparve fra i bambù e riapparve sulla riva dello stagno. Armò rapidamente il fucile, si mise in ginocchio e sparò contro il rinoceronte, il quale, colpito nel cervello, cadde su di un fianco, scomparendo più che mezzo sott’acqua.
– Non muoverti, Kammamuri, – proseguì il destro cacciatore. – Ora compiremo il salvataggio; ma… Cos’ha il padrone?… E’ forse ferito?
– Taci e spicciati, Aghur, – disse il maharatto, che tremava ancora. – Nella jungla vagano dei nemici.
Il bengalese sciolse in fretta la corda che cingevagli il “dubgah” e gettò un capo a Kammamuri che l’afferrò solidamente.
– Tieni fermo, – disse Aghur.
Radunò tutte le sue forze e cominciò a tirare. Kammamuri si sentì strappare da quelle tenaci sabbie e trascinare verso la riva, sulla quale frettolosamente si arrampicò.
– Ebbene, – chiese Aghur con ansietà, mirando con occhio atterrito il padrone. – Cosa gli è accaduto?
– L’hanno pugnalato.
– Ah!… E chi mai?
– Gli stessi che assassinarono Hurti.
– Quando?… Come?…
– Te lo dirò più tardi. Sbrigati, costruisci una barella e partiamo; siamo inseguiti.
Aghur non volle saperne di più. Snudò il coltellaccio, tagliò sei o sette rami, lì legò con solide corde e sopra quella rozza barella ammonticchiò alcune bracciate di foglie. Kammamuri sollevò lentamente il padrone che non era ancora tornato in sé, e ve lo stese sopra.
– Andiamo e silenzio, – comandò Kammamuri. – Hai il canotto?
– Sì, è arenato sulla sabbia, – rispose Aghur.
– Hai le pistole cariche?
– Tutt’e due.
– Avanti allora e tieni gli occhi aperti.
– Siamo forse spiati?
– Forse sì.
I due indiani sollevarono la barella e si misero in marcia preceduti dal cane, seguendo uno stretto sentiero aperto nel mezzo della jungla.
In quindici minuti giunsero al fiume, sul quale galleggiava il canotto. Nel momento che s’imbarcavano, Punthy abbaiò.
– Zitto, Punthy, – disse Kammamuri, prendendo i remi.
Il cane, anziché ubbidire, mise le zampe sul bordo del canotto e raddoppiò i suoi abbaiamenti. Pareva in preda ad una forte eccitazione.
I due indiani guardarono verso la jungla, ma non videro alcuno. Eppure Punthy doveva aver udito qualche rumore.
Misero le pistole sui banchi, afferrarono i remi e si spinsero al largo rimontando il fiume. Non avevano ancora percorso trecento braccia, che il cane ricominciò ad abbaiare rabbiosamente.
– Alto là! – gridò una voce imperiosa.
Kammamuri si volse indietro stringendo nella dritta una delle pistole.
Sulla riva, sul luogo da essi abbandonato, si teneva ritto un colossale indiano col laccio nella dritta e il pugnale nella sinistra.
– Alto là! – ripeté egli.
Kammamuri invece di ubbidire sparò. L’indiano si accasciò su se stesso agitando Le braccia, indi scomparve fra i cespugli.
– Arranca! Arranca, Aghur! – gridò il maharatto.
Il canotto fendette rapidamente le acque dirigendosi verso il cimitero galleggiante, nel mentre che una voce tonante, ripiena di minaccia, gridava dalle coste dell’isola maledetta:
– Ci rivedremo!…

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