I pirati della Malesia (terza parte)

L’armeria di bordo, per disgrazia, non era troppo ben fornita. I cannoni mancavano totalmente, i fucili erano appena sufficienti per armare l’equipaggio e in gran parte assai malandati. V’erano però delle sciabole d’arrembaggio, arrugginite sì, ma ancora in buono stato, qualche pistolone, qualche rivoltella e un buon numero di scuri. I marinai e i passeggeri, armatisi alla meglio, si precipitarono verso poppa, la quale trovandosi immersa, poteva offrire una buona scalata. La bandiera degli Stati Uniti salì maestosamente sul picco della randa e mastro Bill la inchiodò. Era tempo. I quattroprahos malesi che filavano come uccelli non erano più che a sette od ottocento passi e si preparavano ad assalire vigorosamente il povero tre-alberi. Il sole si alzava allora sull’orizzonte e permetteva di vedere chiaramente coloro che li montavano. Erano ottanta o novanta uomini, semi-nudi, armati di stupende carabine incrostate di madreperla e di laminette d’argento, di grandiparangs di acciaio finissimo, di scimitarre, dikriss serpeggianti con la punta senza dubbio avvelenata nel succo d’upas, e di clave smisurate, dettekampilang , che essi maneggiavano come fossero semplici bastoncini. Alcuni erano malesi dalla tinta olivastra, membruti e di lineamenti feroci; altri erano bellissimi dayaki di alta statura, con le gambe e le braccia coperte di anelli di rame. C’erano pure alcuni cinesi, riconoscibili per i loro crani pelati e lucenti come avorio, alcuni bughisi, macassaresi e giavanesi. Tutti quegli uomini tenevano gli occhi fissi sul vascello e agitavano furiosamente le armi, emettendo urla feroci che facevano fremere. Pareva che volessero spaventare i naufraghi prima di venire alle mani. A quattrocento passi di distanza un colpo di cannone rimbombò sul primopraho . La palla, di calibro considerevole, andò a fracassare l’albero di bompresso, il quale si piegò, tuffando la punta in mare. – Animo, ragazzi! – urlò il capitano Mac Clintock. – Se il cannone parla, è segno che la danza è cominciata. Fuoco di bordata! Alcuni colpi di fucile seguirono il comando. Urla atroci scoppiarono a bordo deiprahos , segno che non tutto il piombo era andato perduto. – Così va bene, ragazzi! – urlò mastro Bill. – Quei brutti musi là non avranno tanto coraggio da spingersi fino a noi. Ohé! Fuoco! La sua voce fu coperta da una serie di formidabili detonazioni che venivano dal largo. Erano i pirati che cominciavano l’attacco. I quattroprahos parevano crateri infiammati, eruttavano tremende grandinate di ferro. Tiravano i cannoni, tiravano le spingarde, tiravano le carabine, schiantando, atterrando, distruggendo tutto con una precisione matematica. In men che non si dica quattro naufraghi giacevano sulla tolda senza vita. L’albero di trinchetto, schiantato sotto la coffa, precipitò sul ponte ingombrando di pennoni, di vele, di cavi. Alle urla di trionfo erano succedute urla di spavento e di dolore, gemiti e rantoli d’agonia. Era impossibile resistere a quell’uragano di ferro che arrivava con rapidità spaventosa facendo saltare alberi, murate, madieri. I naufraghi, vistisi perduti, dopo aver scaricato sette od otto volte i loro moschettoni, malgrado i sagrati del capitano e di mastro Bill, abbandonarono il posto fuggendo a tribordo, riparandosi dietro i rottami dell’attrezzatura e delle imbarcazioni. Alcuni di loro perdevano sangue e gettavano grida strazianti. I pirati, protetti dai loro cannoni, in capo a un quarto d’ora giunsero sotto la poppa del vascello tentando di issarsi a bordo. Il capitano Mac Clintock si gettò da quella parte per ribattere l’abbordaggio, ma una scarica di mitraglia lo freddò assieme con tre uomini. Un urlo terribile echeggiò per l’aria: – Viva la Tigre della Malesia! I pirati gettano le carabine, impugnano le scimitarre, le scuri, le mazze, ikriss e danno intrepidamente l’abbordaggio aggrappandosi alle murate, ai paterazzi e alle griselle. Alcuni si slanciano sulla cima degli alberi deiprahos , corrono come scimmie lungo i pennoni e piombano sull’attrezzatura del tre-alberi lasciandosi scivolare in coperta. In un attimo i pochi difensori, sopraffatti dal numero, cadono a prua, a poppa, sul cassero e sul castello. Presso l’albero di maestra un solo uomo, armato di una pesante e larga sciabola d’abbordaggio, rimaneva ancora… Quest’uomo, l’ultimo dellaYoung-India , era l’indiano Kammamuri, il quale si difende come un leone, smussando le armi del nemico incalzante e percuotendo a destra e a sinistra. – Aiuto! aiuto!… – urlò il poveretto con voce strozzata. – Ferma! – tuonò d’improvviso una voce. – Quell’indiano è un prode!…

Speak Your Mind

*

 

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.