La Baia di Sarawak (prima parte)

Al grido terribile di: al fuoco! al fuoco! l’ingegnere aveva fatto immediatamente arrestare il vascello, il quale non avanzava più che sotto l’impulso delle ultime battute dell’elica.
 Una confusione indescrivibile, all’apparire dei due pirati, regnava sul ponte. Dal castello di prua, seminudi o in camicia, uscivano alla rinfusa i marinai, ancora mezzo assonnati, in preda ad un indicibile sgomento, urtandosi gli uni con gli altri, sospingendosi, cadendo e risollevandosi. Gli uomini di guardia, non meno atterriti, credendo che il fuoco avesse già preso allarmanti proporzioni, s’affannavano a raccogliere le secchie sparse sul ponte. Dai boccaporti, invece, come marea montante, salivano in furia i tigrotti di Mompracem, colkriss fra i denti e le pistole in pugno, pronti alla battaglia. Comandi, grida, imprecazioni, esclamazioni, domande, s’incrociavano per ogni dove, dominando i muggiti della macchina e gli ordini dell’ufficiale di quarto.
 – Dov’è il fuoco? – chiedeva uno.
 – Nella batteria, – rispondeva un altro.
 – Alla Santa Barbara! Alla Santa Barbara!
 – Formate la catena.
 – Tuoni! Alle pompe!
 – Capitano! Dov’è il capitano?
 – Ai vostri posti! – tuonava l’ufficiale. – Animo, ragazzi, alle pompe! Ai vostri posti!
 D’un tratto una voce, squillante come una tromba, risuona in mezzo al ponte del vascello immobile.
 – A me, tigrotti!
 La Tigre della Malesia si slancia fra i suoi uomini. Nella mano destra stringe come una morsa la scimitarra che scintilla al vago chiarore dei fanali di prua.
 Un urlo feroce rimbomba:
 – Viva la Tigre della Malesia!
 I marinai del vascello, sorpresi, spaventati nel vedere tutti quegli uomini armati pronti a gettarsi contro di loro, si precipitano confusamente a prua ed a poppa afferrando le scuri, le aspe, le manovelle, i boscelli, le gomene.
 – Tradimento! tradimento! – si urla da ogni parte.
 I pirati, colkriss in mano, si preparano a sfondare le due muraglie umane. La Tigre della Malesia con un fischio arresta lo slancio.
 Il capitano era apparso sul ponte e si dirigeva coraggiosamente verso di loro, col revolver nella destra.
 – Che cosa succede? – chiese egli, con voce imperiosa.
 Sandokan uscì dal gruppo movendo verso di lui.
 – Lo vedete bene, capitano – disse egli. – I miei uomini assaltano i vostri.
 – Chi siete voi?
 – La Tigre della Malesia, mio capitano.
 – Come!… Un altro nome dunque?… Dov’è l’ambasciatore?…
 – Là in mezzo, con la pistola in pugno, pronto a sparare su di voi, se non vi affrettate ad arrendervi.
 – Miserabile!…
 – Calma, capitano. Non si insulta impunemente il capo dei pirati di Mompracem.
 Il capitano fece tre passi indietro.
 – Pirati!… – esclamò. – Voi, pirati!…
 – E dei più formidabili.
 – Indietro! – tuonò egli alzando il revolver. – Indietro o vi ammazzo!
 – Capitano – riprese Sandokan facendosi innanzi; – noi siamo ottanta, tutti armati e decisi a tutto, e voi non avete che quaranta uomini quasi inermi. Io non vi odio e non voglio sacrificarvi inutilmente; arrendetevi dunque, e vi giuro che non vi sarà torto un capello.
 – Ma infine che cosa volete?
 – Il vostro vascello.
 – Per corseggiare poi il mare?
 – No, per compiere una buona azione. capitano; per riparare un’ingiustizia degli uomini.
 – E se io rifiutassi?
 – Lancerei i miei tigrotti contro di voi.
 – Ma voi volete derubarmi!
 Sandokan si slacciò una cintura ben gonfia che portava sotto la casacca e, mostrandola al capitano:
 – Qui vi è un milione in diamanti – disse: – prendete!
 Il capitano lo guardò trasognato.

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