La sera dopo, appena i gong disposti nei vari quartieri della capitale, avevano suonato il coprifuoco, un drappello formato di dieci uomini, usciva misteriosamente dal palazzo imperiale.
Era preceduto da due molossi tibetani, superbi animali, robustissimi, di corpo fortissimo, colle labbra penzolanti, che in causa di due ripiegature danno loro un aspetto veramente terribile. Sono grossi quanto un vitello, e posseggono una tale forza muscolare da lottare vantaggiosamente contro gli orsi e atterrarli. Guai se mordono!… Spezzano sempre, o producono spaventevoli ferite. Il drappello era formato da Yanez, da Tremal-Naik, da Kammamuri, dal baniano con sei sikkari che conoscevano i due molossi e che potevano lanciarli al momento opportuno.
Tutti erano armati di carabine e di pistoloni a doppia canna, di buona portata, e portavano, sotto un mezzo mantello di causciù, delle piccole lampade cinesi da accendersi più tardi.
Gli abitanti si erano già ritirati, sgombrando le vie, niente preoccupati, a quanto pareva, del nuovo delitto che aveva colpito il governo imperiale. Quella calma, o meglio, quella indifferenza, aveva colpito un po’ Yanez, a cui nulla sfuggiva.
«Si direbbe che anche il popolo congiura» disse a Tremal-Naik che gli camminava a fianco.
«Tu corri troppo, amico. Sai che il popolo non ha l’abitudine di occuparsi di ciò che succede nei palazzi della rhani. A loro basta di vivere tranquilli».
«Hum!… Hum!…» fece Yanez, stringendo un po’ i denti. «Questa calma non mi rassicura affatto». «Diventi pessimista?»
«Che cosa vuoi che ti dica? Finché non sarò sicuro che Sindhia si trova ancora a Calcutta, nell’ospedale dei pazzi dove l’abbiamo fatto internare, non sarò mai tranquillo». «Di questo affare si occuperà Kammamuri. Sai quanto vale e quanto è furbo».
«È un uomo prezioso, infatti» rispose Yanez. «Facciamo prima questa battuta poi vedremo che cosa ci converrà di fare». «Speri tu di scovare quel maledetto bramino?»
«Sì» rispose il portoghese. «Il cuore mi dice che quell’assassino che maneggia le bave velenose dei bis cobra, cadrà presto nelle nostre mani. Il baniano l’ha veduto, e noi lo sorprenderemo dentro le cloache». «Cerchiamo di prenderlo vivo». «Certo» disse Yanez. «Lo faremo poi parlare».
«S’incaricherà Kammamuri di snodargli la lingua» rispose Tremal-Naik. «È famoso, il maharatto». «Lo so» disse Yanez, sorridendo. «Faceva parlare perfino i thugs». «E come cantavano!…» «Ma!… Dove siamo noi, baniano?» chiese il portoghese.
«A poca distanza dal fognone. Vedete quella vecchia moschea priva della sua cupola? Sotto di essa passa, o meglio comincia il gran fognone». «Che i misteriosi individui si siano già ritirati?»
«A quest’ora sì, Altezza. Pare che non amino passeggiare per la città dopo il tramonto del sole». «Dove si cacceranno di giorno?» «Chi lo sa? Non ho mai osato seguirli dopo quei due colpi di pistola». «E, quantunque tu sia molto vecchio ci tieni ancora alla vita, è vero?» «Penso, Altezza, che c’è sempre tempo a morire».
Così chiacchierando i due uomini e la loro scorta erano giunti dinanzi alla vecchia moschea, un monumento tozzo e pesante, costruito certamente dai mongoli trecento e più anni prima, e che gli indiani, che non credono che alle loro divinità, avevano lasciato cadere in rovina.
Il baniano girò intorno all’enorme mole e mostrò a Yanez una gigantesca apertura, tutta buia, esalante miasmi e odori da non dirsi.
«Per Giove!…» disse Yanez. «Dovevamo prendere con noi anche qualche bottiglia d’acqua di rosa, è vero, Tremal-Naik?» «Ci profumeremo più tardi».
«Accendete le lanterne» comandò il baniano. «Che nessuno, per qualsiasi motivo mi passi dinanzi, perché potrebbe trovare una morte orrenda». «Bella prospettiva» disse Yanez.
Le lampade furono accese, poi i dieci uomini entrarono in quel gigantesco canalone che doveva raccogliere gli scoli di tutte le altre cloache. Nel mezzo scorreva un’acqua putrida, pestifera, scivolando silenziosamente fra due larghe banchine di pietra ancora bene conservate. Dove andasse a finire, nessuno avrebbe potuto dirlo.
«Se uno cade lì dentro, in mezzo a quella poltiglia formata da tutti gli scoli della città, non ne uscirebbe certamente vivo» disse Yanez.
«Lo credo anch’io» disse Tremal-Naik, il quale si teneva prudentemente presso la parete che sosteneva la grande arcata del tunneL. «Io mi domando come fanno a resistere quei cospiratori, chiamiamoli pure così, a questa atmosfera soffocante, impregnata di odori così nauseabondi. Che non abbiano naso?» «Questo lo accerteremo quando li avremo catturati». «Ehi, baniano?» «Altezza!…» «Ci sarà molto da camminare?»
«Dovremo raggiungere i condotti di congiunzione» rispose il cacciatore di topi. «Altri canali?»
«Sì, Altezza, ma tondi e strettissimi, con pendenze vertiginose, che dovremo superare strisciando sul ventre e le spalle al muro, e che finiscono in vaste nicchie, che si prolungano sull’arcata della grande galleria. Per giungere a quei rifugi saremo costretti a fare una ginnastica terribile e sempre pericolosa, perché se una delle pietre sporgenti che servono per la scalata cade, andremo a rotolare, senza poterci fermare, nel fiume di fango».
«Abbiamo dei muscoli d’acciaio, mio bravo cacciatore di topi, e siamo nati ginnasti. Bada a te, invece».
«Oh, non ci pensate, Altezza» rispose il vecchio. «Sono troppo pratico di queste cloache, e le mie braccia sono ancora abbastanza elastiche». «Ti domandavo poco fa se quei rifugi erano ancora lontani». «Qualche miglio, Altezza».
«Se sapevo così, venivo qui dentro col mio elefante favorito» disse Yanez. «Sarà per un’altra volta. Su questa banchina avrebbe potuto avanzarsi tranquillamente, senza correre alcun pericolo».
Ed infatti la riva di quel fiume puzzolente si manteneva sempre fra i sei e i sette metri di larghezza, e vi era quindi posto anche per un pachiderma. La volta poi del canalone era tanto alta da non temere che uno di quei bestioni potesse urtarvi dentro col massiccio cranio: anzi non avrebbe potuto raggiungerla nemmeno colla proboscide.
«I mongoli sapevano costruire meglio degli attuali indiani» disse Yanez, il quale si annoiava a starsene zitto. «Mai più avrei immaginato che sotto la mia capitale si stendessero dei lavori così grandiosi. Peccato che qui manchino l’aria e la luce».
In quell’istante Kammamuri, che teneva a guinzaglio i due giganteschi molossi del Tibet, dei quali era il guardiano, si fermò bruscamente, alzando la lanterna cinese. Anche il baniano aveva fatto una piroetta, mettendo subito mano ad una lunga pistola a due colpi.
«Che cosa c’è dunque?» chiese Yanez, afferrando la sua grossa carabina carica di mitraglia fino a mezza canna ed anche più in su.
«C’è, signore», rispose il maharatto «che i cani cominciano a dare segno di essere inquieti». «Eppure non si vede nulla». «Non abbiamo certamente né la vista, né l’olfatto di queste bestie».
«Sei ben sicuro?» chiese il portoghese, ridendo. «Io, i nemici li ho sempre fiutati, se non veduti, ed a grandi distanze». «Oh, anche noi, quando abitavamo la Jungla Nera, è vero padrone?»
«Con tanti nemici che insidiavano giorno e notte la nostra vita, sempre pronti a strangolarci con un buon laccio o con un semplice fazzoletto di seta nera, destramente lanciato, avevamo acquistati occhi da sfidare i cannocchiali di marina, ed un udito da rivaleggiare con quello delle tigri». «Vi credo» rispose Yanez. «Vediamo un po’».
Si avvicinò ai due terribili cani che riconoscevano in lui il padrone, e li osservò attentamente, proiettando su di loro la luce azzurrastra della sua lampada, che invece di vetri aveva della carta oliata, leggermente arabescata, con un paio d’immancabili mezze lune più o meno sorridenti.
Apparivano infatti inquieti e raggrinzavano il naso e scuotevano le larghe orecchie, senza mandare però nessun brontolio.
«Credi che siamo vicini a quei difficili rifugi?» chiese al cacciatore di topi, il quale impugnava sempre il suo pistolone. «No, Altezza». «Eppure, come vedi, i cani sono inquieti».
«Credete che quegli uomini misteriosi non abbiano delle sentinelle? Qualcuna avrà attraversato il canalone e l’avranno fiutata».
«Attraversato il fiume di fango? Ed in quale modo? Con quali mezzi? Sarei curioso di saperlo». «Con una semplice scala di bambù gettata fra le due rive». «E noi, come passeremo? Le ritireranno tutte per impedirci di avanzare».
«Non preoccupatevi, Altezza. Qui dentro ho anch’io il mio nido, o meglio l’avevo prima dell’arrivo di quegli intrusi, e nessuno deve averlo scoperto. Là troveremo scale di tutte le lunghezze, e che a me erano necessarie per passare i canali e stringere da vicino i topi». «Puoi dire il tuo covo di tigre» disse Yanez. «Come volete, Altezza». «Non l’avranno svaligiato?» «No: è troppo ben nascosto il mio rifugio, e poi la salita troppo difficile». «Kammamuri!… Lascia andare!…» gridò in quel momento Tremal-Naik.
I due molossi, liberati dalle catenelle d’acciaio, sottili eppure robustissime, fecero due balzi innanzi mugolando come le pantere, poi partirono a corsa sfrenata, seguendo la riva del fiume puzzolente. Il drappello si era slanciato a sua volta, armando rapidamente le carabine. La banchina era sempre larga e tutti potevano correre benissimo, anche perché le pietre erano ancora abbastanza livellate.
Erano trascorsi appena due minuti, quando si udirono i cani mugolare ferocemente, e poco dopo a rimbombare due colpi d’arma da fuoco.
«Avanti!… Lesti!…» gridò il portoghese. «Quei birbanti assassinano le nostre bestie!…»
I dieci uomini precipitarono la corsa, tenendosi sempre un po’ lontani dalla riva del fiume fangoso, che ispirava loro un invincibile spavento, e raggiunsero finalmente i due molossi i quali si erano fermati trecento e più metri più sopra. Piantati sulle robuste zampe, i poderosi animali continuavano a ringhiare sordamente, agitando le loro grosse code e dimostrando una viva irritazione. Guardavano dall’altra parte del fiume puzzolente, fiutando rumorosamente l’aria e contraendo le pieghe delle loro mascelle in modo da mettere allo scoperto due file di denti che potevano stare benissimo in bocca ad un orso labiato dell’Himalaya.
Tremal-Naik, a rischio di prendersi qualche colpo di pistola, poiché ormai tutti sapevano che quei misteriosi abitanti del sottosuolo della capitale possedevano armi da fuoco, si avanzò verso la riva, alzò la lampada e proiettò la luce più lontano che poté. «Ah, i birbanti!…» esclamò.
«È caduto un pezzo di galleria?» chiese Yanez, il quale si avanzava colla grossa carabina imbracciata, pronto a scatenare un uragano di mitraglia.
«Sono scappati dall’altra parte servendosi d’una scala di bambù che non hanno potuto ritirare interamente. La vedi?» «Sì» rispose Yanez. «Sono stati più lesti dei nostri cani»
Una scala, lunga una decina di metri, d’una solidità certamente a tutta prova, si appoggiava con una estremità alla banchina opposta, mentre l’altra rimaneva affondata nel fiume fangoso. «Che cosa dici tu, baniano?» chiese Yanez.
«Che dietro di noi si trova il mio rifugio, dove troveremo delle scale per attraversare il fiume» rispose il cacciatore di topi. «Ormai quei bricconi si sono rifugiati sull’altra banchina ritirando il passaggio».
«Che siano scappati o che stiano spiandoci? Noi, colle nostre lampade siamo visibili e possiamo offrire dei magnifici bersagli, mentre essi sono protetti dall’oscurità. Che peccato non possedere gli occhi dei gatti o delle tigri; e tu vedi niente, baniano?»
«La luce delle lampade mi ha rovinata la vista. Mi occorrerebbe un quarto d’ora d’oscurità per rimetterla a posto».
«Se sparassi? Ormai siamo stati scoperti ed è inutile prendere delle precauzioni. La sorpresa è mancata». «Per colpa delle lanterne, Altezza».
«Eh, lo so io, per Giove!… Noi non siamo cacciatori di topi, e senza un po’ di luce non saremmo riusciti a mettere un piede dinanzi all’altro qui dentro».
«A quest’ora saremmo probabilmente dentro il fiume fangoso a pescare chissà quali pesci o crostacei» disse Tremal-Naik. «Puah!…» fece il portoghese. Poi rialzando la grossa carabina disse:
«Io sparo e spazzo con un nembo di mitraglia la banchina opposta. Così quei misteriosi individui capiranno che noi possediamo delle armi formidabili. Mettetevi tutti in posizione di far fuoco, e se quelle canaglie tirano, rispondete subito, senza un momento di esitazione, se vorrete coglierli».
Puntò verso l’estremità della scala che si appoggiava alla banchina e premette il grilletto. Più che un colpo di carabina, parve un vero colpo di cannone. La detonazione, centuplicata dall’eco di tutte le fogne, si espandeva con un fragore formidabile rimbombando continuamente.
Quando pareva che tutto fosse cessato, qualche eco lontanissima rispondeva ancora, assai debolmente però.
«Una vera cannonata» disse Tremal-Naik. «Non servirti più della tua grossa bestia, o ci farai cadere addosso tutte le arcate del fognone, che devono essere un po’ vecchie». «Zitti, signori» disse il baniano.
Nessun grido era echeggiato sull’altra parte della banchina, segno evidente che i furfanti si erano posti in salvo per tempo, gettandosi anche semplicemente a terra. Cessato però tutto quel fragore, l’udito acuto del cacciatore di topi aveva raccolto una serie di sibili stridenti, i quali dovevano essere certamente dei segnali.
«Suonano la ritirata» disse Kammamuri, il quale aveva ricaricata subito la carabina del portoghese ed aveva pure udito.
«Ormai devono essere lontani» aggiunse il cacciatore di topi. «Non hanno accettata la battaglia a viso scoperto e cercheranno di tenderci qualche agguato».
«Che i nostri molossi sventeranno subito» disse Yanez, riprendendo la sua arma. «Va’ a cercare una scala abbastanza lunga per attraversare il canale». «Sì, Altezza». «Hai bisogno d’aiuti?»
«Il bambù pesa poco, e poi la mia tana è situata in un luogo assai difficile a raggiungersi per chi non ha pratica di queste cloache».
«Ti scorto io con un cane fino all’entrata» disse Kammamuri. «Non si sa mai quello che può succedere coll’oscurità che ci circonda e che le lanterne stentano a rompere».
Yanez, Tremal-Naik e la scorta si erano seduti a terra, tenendo sulle ginocchia la carabina. Avevano però avuto prima la precauzione di portare le lanterne una ventina di passi più innanzi, affinché esse sole potessero servire da bersaglio, nel caso che gli abitanti del sottosuolo si fossero decisi a fare uso delle loro armi da fuoco.
Mille strani rumori empivano la gigantesca cloaca. In lontananza, da altri canali dovevano riversarsi con grande furia, nel sonnecchiante fiume fangoso, altre acque scendenti dalla città. Era una strana musica che si ripercuoteva vivamente nel gran vuoto del canalone, le cui volte dovevano essere estremamente sonore. Quelle acque ora pareva che ruggissero, ora che sghignazzassero, ora che urlassero come una banda di lupi affamati. Il fiume però non si scuoteva. Scorreva sempre lemme lemme, con un fruscio che annoiava, spingendo faticosamente innanzi tutti i rifiuti della capitale e sprigionando continuamente miasmi pestilenziali, quasi soffocanti.
«Ci prenderemo delle febbri se ci fermeremo molto quaggiù» disse Yanez. «Questa è una spedizione più pericolosa forse di quella che abbiamo intrapresa contro i thugs di Rajmangal. Là almeno le acque erano limpide ed erano acque marine. Ti ricordi, Tremal-Naik?»
«Come fosse ieri» rispose l’indiano. «Qui almeno spero che non potranno annegarci». «Domandalo al cacciatore di topi».
«Ehi, brav’uomo», disse Tremal-Naik «vi sono delle cascate d’acqua in queste cloache?»
«Nessuna, signore» rispose il baniano. «Anzi, le acque sono tanto basse in questa stagione che non coprono nemmeno i piccoli canali ed i rifugi circolari che sono sempre a secco».
Il baniano giungeva in quel momento con una lunghissima scala di bambù, leggerissima e solida, aiutato da Kammamuri.
«Che cosa temete, una improvvisa inondazione?» chiese. «Non c’è nessun uragano in aria. Il tuono si ripercuoterebbe come colpi di cannone quaggiù. La notte è tranquilla ed un improvviso acquazzone per ora noi non lo vedremo».
Aiutato sempre dal maharatto, prese la lunga scala, che misurava una dozzina di metri, e la gettò attraverso il fiume fangoso, appoggiandola sull’altra banchina. I primi che passarono, saltellando e ringhiando, furono i molossi del Tibet. I dieci uomini, più che certi della solidità della scala, non tardarono a seguirli, ed in meno di mezzo minuto si trovarono tutti radunati dall’altra parte del fiume.
«Adagio» disse Yanez. «È qui che cominceranno le sorprese. È vero che abbiamo dei cani capaci di sbranare un uomo come fosse un porcellino d’India. Tuttavia stiamo in guardia».
«La prudenza non è mai troppa» sentenziò il baniano. «Qui si può uccidere a tradimento una persona e farla cadere in quel fetido canalone». «Conosci gli ultimi rifugi?» «Sì, Altezza».
«Ed allora andiamo a scovare quei briganti. È il bramino, vero o falso, che io voglio trovare».
«Lo troveremo, signore. Quei rifugi non hanno nessun sbocco. O quei misteriosi personaggi ci daranno battaglia o si arrenderanno di fronte alle vostre carabine cariche di mitraglia».
«Se avranno solamente delle pistole, siano pure a canna lunga, ben poco potrebbero fare contro di noi» rispose Yanez. «Oh, povera gente!…» «Guardiamoci dalle sorprese, Yanez» disse Tremal-Naik.
«Come ti ho detto, coi cani non saranno possibili, e poi qui non siamo nei canali misteriosi di Rajmangal. Là bastava sfondare una volta perché l’acqua d’un fiume precipitasse attraverso alle gallerie. Eravamo a venti metri sotto il mare, e le maree che salivano dall’Oceano Indiano con grande furia, le rendevano pericolosissime».
«Saremo prudenti» rispose Tremal-Naik. «Non ci mostreremo però paurosi. Siamo sempre un po’ le Tigri di Mòmpracem, tu specialmente».
Nessuna persona si era presentata a contrastare il passo. I misteriosi individui, sapendosi ormai inseguiti, dovevano essersi rifugiati negli ultimi covi che solamente il cacciatore di topi poteva scoprire.
«Quelle persone non sono troppo coraggiose» disse il portoghese, tenendo sempre imbracciata la grossa carabina. «Corpo di Giove!… Che non riusciamo a prendere quel bramino, ammesso che sia un bramino, poiché io ho sempre i miei dubbi!…»
«Vi prometto, Altezza, che noi lo sorprenderemo» rispose il cacciatore di topi. «Oltre i loro rifugi non potranno andare. Io conosco tutti i passaggi delle cloache, quelle secche e quelle umide, dove nessuna persona, in questi ultimi tempi, potrebbe abitare più di una notte. E ringrazino me che ho distrutto migliaia e migliaia di topi sempre pronti a mangiare qualche naso o qualche orecchio agli addormentati».
Un tunnel assai stretto si era presentato dinanzi al drappello, il quale procedeva sempre preceduto dai molossi. «Ebbene, baniano, dove andiamo a finire noi?» chiese Yanez.
«Andiamo a scovare nei loro ultimi rifugi i misteriosi individui» rispose il cacciatore di topi colla sua solita voce tranquilla. «Non ci accopperanno?»
«Colla vostra carabina e coi vostri sikkari? Non impegneranno nessuna lotta, io credo». «Che cosa dici tu, Tremal-Naik, della sicurezza di quest’uomo?» «Io penso che lui deve saperne più di noi» rispose l’indiano. «Ed allora andiamo avanti senza paura» disse Yanez. «Mi dispiace una cosa sola». «Quale?»
«Di non poter fumare qualche sigaretta. Ho le mani impedite dalla carabina come se fossero strette dalle catene di qualche poliziotto. Mi prenderò più tardi una bella rivincita». «Ci guadagnerà un po’ la tua salute» disse Tremal-Naik, sorridendo.
«Ed infatti sono magro come un fakiro che pesa la bellezza di ottantacinque chilogrammi, e tutto per colpa delle sigarette». «Va’, burlone!…»
Si erano fermati dinanzi all’entrata del tunnel, osservando innanzi tutto il contegno dei cani. Le brave bestie apparivano sempre irrequiete, ed arrotavano i formidabili denti come se da un momento all’altro dovesse comparire qualche nemico.
«Non sono tranquilli» disse Kammamuri, il quale li tratteneva colle catene, con poderose strappate. «Noi dobbiamo essere sulla buona pista».
«Per giungere a quei rifugi non vi sono altri passaggi» disse il baniano. «I fuggiaschi sono passati di qui, ve lo dico io».
Prima di muoversi, si misero in ascolto, ma non udirono che un lontano scrosciare di acque, scorrenti chissà entro a quali putridi canali.
«Calma completa» disse Yanez. «Quando il nemico dorme si cerca di sorprenderlo».
«Hum!…» fece Tremal-Naik. «Tutti quegli occhi saranno ben aperti per interrogare, più o meno angosciosamente, le tenebre». «Lo credo anch’io, sai. Avanti!…»
Kammamuri raccolse nella mano sinistra le catene dei due molossi, colla destra impugnò una lunga pistola a doppia canna, lasciando la cura agli altri di illuminare la via.
Uomo rotto a tutte le avventure, alle più tragiche emozioni, agguerrito nella guerra di esterminio dei thugs della Jungla Nera, non era uomo da dare indietro tanto presto.
Si sa già che fra tutti gli indiani i maharatti sono i più valorosi e che precedono perfino i rajaputi dell’Alta India che sono pure d’una resistenza a tutta prova, specialmente dinanzi al fuoco ed alle cariche di cavalleria.
Il tunnel conservava sempre la medesima larghezza: quattro metri di traverso e cinque in altezza, ed era dotato d’una tale sonorità, che per quanto il drappello cercasse di nascondere il suo avanzarsi, camminando quasi sulle punte dei piedi, continuava a vibrare come passasse sotto la volta non già un minuscolo drappello, bensì un mezzo reggimento di sipai. Era vero che i muggiti delle acque lontane ne attutivano assai il rumore, ma forse non bastava. I due molossi non cessavano di mostrarsi inquieti. Arricciavano il folto pelame, agitavano furiosamente le loro grosse code, e tiravano fortemente le catene che Kammamuri aveva loro rimesso e che teneva con mano salda. Però si guardavano bene dal mugolare: avevano compreso che i loro padroni non domandavano pel momento, altro che del silenzio per condurre a buon fine la loro terribile impresa. Per dieci buoni minuti il drappello continuò ad avanzarsi, salendo sempre, come se dovesse accostarsi ai lastricati della capitale, poi il cacciatore di topi, che marciava a fianco del maharatto, disse: «Qui sta il pericolo».
«Perché dici ciò, baniano?» chiese Yanez, il quale masticava rabbiosamente una mezza sigaretta, non sicuro però di fumarla.
«Il tunnel qui finisce, Altezza, e cominciano i rifugi a secco, ben difficili ad assalirsi». «E perché?»
«Perché saremo costretti ad avanzare sul ventre, aggrappandoci alle pietre sporgenti». «Che ampiezza hanno quei rifugi?»
«Quella d’una cabina di bastimento, e l’arredamento non manca. Questi strani individui cercano di procurarsi certe comodità, ed io ho trovato entro certe tane dei tappeti vecchi, della paglia, delle provviste di legna, molti gatti e soprattutto molti topi pronti per la cottura». «Ti rubavano la tua parte» disse Yanez, ridendo. «Sì, Altezza» rispose il baniano. «Mi hanno tolto gli alimenti». «E ti lamenti ora?» «Oh!…»
Il portoghese si era voltato verso il cacciatore di topi, il quale si era bruscamente interrotto, non più alzando la lampada, bensì deponendola da un lato. «Hai scoperto il bramino?» gli chiese, con accento un po’ ironico. «Non ancora, Altezza, però vi posso assicurare che non deve trovarsi lontano». «Siamo molto vicini ai covi, hai detto». «Sì, Altezza. Preparate pure la vostra grossa carabina».
«Per tutti i fulmini di Giove, io non vedo quasi al di là della punta del mio naso». «La luce guasta i vostri occhi come ha guastati i miei». Ad un tratto posò una mano su un braccio del portoghese: «Udite, Altezza?» chiese. «Fischiano, mi pare». «Sono segnali». «Tu però mi hai assicurato che quei rifugi non hanno nessuna altra uscita». «E ve lo confermo, Altezza».
Attraverso le tenebre giungevano dei fischi acutissimi che variavano continuamente di tono. I banditi erano dunque vicini. Yanez alzò la sua famosa carabina e disse a Kammamuri: «Scatena i cani!… Vedremo che cosa succederà!…»
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